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Socc'mel... che bar!
Socc'mel... che bar!
Socc'mel... che bar!
E-book311 pagine3 ore

Socc'mel... che bar!

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Info su questo ebook

I bar sono importanti testimonianze storiche di una città. Sui tavolini, lungo i banconi si scoprono abitudini e costumi di una comunità.
Bologna si può raccontare anche attraverso i suoi bar, quelli del centro storico o dei quartieri.
Bar di piccole o grandi dimensioni che hanno lasciato un ricordo particolare nella nostra vita o regalato atmosfere magiche per il loro splendore o i personaggi che li frequentavano.
Dal Caffè Zanarini situato nel palazzo dell’Archiginnasio, al caffè Rubik in via Marsala con le sue atmosfere anni Ottanta, ai bar di periferia.    
Questa antologia raccoglie i migliori racconti ispirati ai leggendari bar bolognesi, famosi o meno famosi, che hanno lasciato una traccia indelebile nel nostro cuore.
LinguaItaliano
Data di uscita27 dic 2022
ISBN9788893472227
Socc'mel... che bar!

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    Anteprima del libro

    Socc'mel... che bar! - AA. VV

    cover.jpg

    Autori Vari

    SÓCC’MEL… CHE BAR!

    Prima Edizione Ebook 2022 © Edizioni del Loggione

    ISBN: 9788893472227

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave n. 60

    41121 Modena – Italy

    loggione@loggione.it

    http://www.loggione.it

    img1.jpg

    SÓCC’MEL… CHE BAR!

    I bar sono importanti testimonianze storiche di una città. Sui tavolini, lungo i banconi si scoprono abitudini e costumi di una comunità.

    Bologna si può raccontare anche attraverso i suoi bar, quelli del centro storico o dei quartieri.

    Bar di piccole o grandi dimensioni che hanno lasciato un ricordo particolare nella nostra vita o regalato atmosfere magiche per il loro splendore o i personaggi che li frequentavano.

    Dal Caffè Zanarini situato nel palazzo dell’Archiginnasio, al caffè Rubik in via Marsala con le sue atmosfere anni Ottanta ai bar di periferia.   

    Questa antologia raccoglie i migliori racconti ispirati ai leggendari bar bolognesi, famosi o meno famosi, che hanno lasciato una traccia indelebile nel nostro cuore.

    INDICE

    QUELLA NOTTE AL BAR DI MUZZO

    Michele Attanasio

    IL COLORE DELLE VOCI

    Daniele Bergonzoni

    JET LAG MELANCONICO

    Juan Javier Bolaños

    BAR DELL’ASTEMIO

    Luciano Calzolari

    BAR FALCO

    Angela Colapinto

    LA VIA LATTEA

    Giliola Colari

    SCAMBIO DI FAVORI TRA BOLOGNESI

    Jacopo Destefani

    G. VINCENT EDIZIONI

    Paolo Forni

    GRAZIE ALLA BONOMIA BOLOGNESE

    Marco Fusi

    IL CERVO DI JULA

    Andrea Furlan

    TRE COGNAC

    Alessio Gazzotti

    TINA LA PANDEMIATA

    Andrea Gheduzzi

    LE RAGAZZE DEGLI ANNI SESSANTA

    Cristina Giuntini

    SCARPE BUCATE, JEANS STRAPPATI, SOGNI E CAPELLI AL VENTO (E DENTRO LA MUSICA)

    Sabrina Leonelli

    ANTICO CAFFÈ SCALETTO. Un caffè… scorretto

    Lorena Lusetti

    BARISTI PER SEMPRE

    Nicoletta Magnani

    IL BAR SENZA NOME

    Marcello Manzoni

    STRANO DOLORE AL BAR MARGHERITA

    Andrea Mariani

    BAR DEGLI ARTISTI

    Ezio Maselli

    IL VECCHIO DRUIDO

    Laura Mazzucato

    IL BAR MILLE VOGLIE

    Anna Patrizia Mongiardo

    IL BAR DEL BARBAGLIONE

    Sandra Morara

    PROFUMO DI CASA

    Alice Silvia Morelli

    B52

    Arialdo Nada

    DOV’È LA STRADA PER LE STELLE

    Enrico Pasquetti

    BAR BATTIBECCO

    Carmelo Pecora

    IL BAR DELLA STAZIONE

    Agnese Pelliconi

    REAL VS ATLETICO

    Annalisa Pistoia

    IL BAR DEI DUE GIORNI

    Valentino Poppi

    LA SCELTA

    Michele Rocchetta

    NAPOLEONE AL BAR MARGHERITA

    Elli Signani

    MATRICOLE

    Ellery Sueen

    AL BAR TITANO

    Gaetano Tartaglia

    SOCC’MEL CHE BAR

    Andrea Valeriani

    IL CAFFÈ DELLE SIGNORE

    Andrea Vecchi e Lucia Grandinetti

    BLUE DAHLIA

    Antonio Zifaro

    GLI AUTORI

    Della stessa collana

    Catalogo Edizioni del Loggione

    QUELLA NOTTE AL BAR DI MUZZO

    Michele Attanasio

    Tommy e Manuel si erano dati appuntamento alle quattro davanti al bar, avevano deciso di passare insieme tutto il pomeriggio fino all’ora della partita: la cabala non si poteva cambiare.

    Era un pomeriggio caldo, ma la temperatura sarebbe salita con il passare delle ore.

    Entrarono dirigendosi verso il bancone. Muzzo, il barista, non li degnò di uno sguardo continuando a leggere il giornale.

    «Due spume al cedro» disse Manuel.

    Spinto dall’entusiasmo di un condannato a morte Muzzo riempì i bicchieri: «Vedo che anche oggi non badate a spese.»

    «Sempre a lamentarti. Oggi sarà una giornata lunga, lo sai, vedrai che bevute che faremo, e se poi vinciamo allora sarà festa.»

    «Zitti, per favore, zitti!» esclamò Muzzo. «Ci manca solo che portiate sfiga e poi siamo a posto. Ecco le vostre spume, andate mò a rompere i maroni fuori.»

    Manuel sollevò il bicchiere dal bancone: «Anche noi ti vogliamo bene Muzzo: alla tua salute e al tuo savoir-faire.»

    In quel preciso momento nel bar si percepì il rumore acuto provocato da un tubo di scappamento. Era impossibile non riconoscerlo.

    «Ecco, adesso siamo al completo» disse Muzzo mentre meccanicamente asciugava con uno straccio alcune tazzine. «È arrivato anche Alain Delon.»

    Qualche secondo dopo Billo entrò nel locale. Il passo era veloce, una rapida occhiata all’orologio posto sopra il bancone gli fece esclamare: «Socc’mel se sono in ritardo. Muzzo, mi prepari un Jack Daniels con tre cubetti di ghiaccio? Faccio una telefonata e arrivo.»

    I ragazzi lo videro scomparire nella cabina telefonica con un sacco pieno di gettoni.

    «La Lella non può aspettare» disse Manuel.

    «Non è mica la Lella il problema, ma se arrivano a casa i suoi genitori non può rispondere al telefono e dopo Billo finisce a Villa Baruzziana.»

    La telefonata durò circa dieci minuti, poi Billo uscì dalla cabina e si avvicinò al bancone con lo sguardo verso la sua vespa parcheggiata all’esterno: «Ormai per colpa di quel bagaglio mandavo a monte tutto.»

    «Hai rischiato di non trovare la Lella vero?»

    «Ma cosa vuoi sapere Manuel, io e la Lella non stiamo più insieme, ci siamo mollati due settimane fa, era diventata una patella, sempre attaccata: e dove vai? Ma con chi esci stasera? Ma perché non stai con me? Dù màron. Stasera ho una punta con una di Corticella che ho intortato al Ciak

    «Oh Billo, ma stasera c’è la partita, non vorrai mica perdertela» disse Tommy.

    «Me la perdo sì, e ti dico una cosa: se avessi visto la Manuela anche tu non guarderesti la partita.»

    Muzzo alzò lo sguardo verso i tre: «Ho capito bene? Stasera uno spaccamaroni in meno? Meno male, ogni tanto una buona notizia.»

    Billò terminò il suo Jack Daniels e appoggiò il bicchiere sul bancone: «Muzzo, sei sempre gentile e premuroso, si sente che vuoi bene ai tuoi clienti.»

    Quasi non riuscì a finire la frase che il sacchetto di tessuto cedette a causa del peso spargendo i gettoni telefonici sul pavimento; il tintinnare metallico coprì a stento l’imprecazione di Billo mentre Tommy e Manuel esclamarono all’unisono: «Tombola.»

    Occorsero alcuni minuti per recuperare dal pavimento tutte le monete scanalate color bronzo. Con le tasche gonfie di gettoni telefonici Billo appoggiò il braccio sul bancone: «Muzzo, ormai che ci sei, dammi dieci Rossana

    «Ecco, adesso abbiamo fatto giornata» disse il barista. «Dieci caramelle tutte insieme? Ma non saranno troppe? Ma perché non andate da Zanarini? Dieci minuti e siete in piazza, vi sedete e ordinate. Però la spuma al cedro no, quella non c’è. Questo è un problema perché voi avete della pluma e da Zanarini ci passate alla larga, mentre siete sempre qui a rompere i maroni.»

    Il monologo fu interrotto dalla voce rauca del notaio Forni che aveva iniziato a inveire contro il suo compagno di tresette: era uno spettacolo che non si poteva perdere.

    Si posizionarono alle spalle del notaio che stava apostrofando uno dei due fratelli Pizzi colpevole di aver giocato la carta sbagliata: «Il problema non sei tu! La colpa è mia che ti ho scelto, perché lo so che sei tristo, ma mi ostino a fare coppia con te.» Poi con un movimento veloce scartò e mangiò un Boero per cercare di placare la sua rabbia. La tempesta sembrava passata, ma un attimo prima di ricominciare a giocare Pizzi ebbe la malaugurata idea di fare una puntualizzazione: «Io avrò sbagliato a giocare l’ultima mano, ma anche tu non è che sei perfetto.»

    Il tempo sembrò fermarsi, tutti i presenti attendevano la reazione: «Tu non hai proprio l’usta per giocare. Quando vinci è per sghetto. Non dovrebbero nemmeno farti entrare in questo bar, tu e le carte siete due mondi diversi.» Il tono della voce si era alzato così com’era cambiato il colore del viso che adesso tendeva al rosso vivo.

    Si alzò dalla sedia e si diresse verso il bancone: «Muzzo, fammi i conti: sono dieci Boero

    Quella era la sua vincita. Ogni punto di scarto tra le coppie avversarie valeva un Boero, alla fine delle partite si tiravano le somme, i perdenti pagavano, i vincenti andavano via con le tasche piene. Il notaio adorava quelle praline di cioccolato ripiene di liquore: ne mangiava in quantità industriali. Raccolse il suo bottino e fece per avviarsi all’uscita; arrivato al centro della sala si bloccò, si voltò verso Pizzi lanciandogli un’occhiata di fuoco un attimo prima di chiudere a suo modo la questione: «Và bèn a fèr dal pugnàt.»

    Le risate dei presenti lo seguirono mentre attraversava la strada e faceva ritorno a casa.

    «Muzzo mi apri il tre?» disse Manuel mentre con Tommy si dirigevano nella sala biliardi. Il biliardo numero tre era al centro della sala posta nel retro del bar, ed era il loro preferito.

    Prelevarono dal cassetto le bocce rosse e bianche, il pallino blu e iniziarono la partita. Dopo circa dieci minuti nella sala entrarono Lolli e Pasquini: il divertimento era finito.

    Lolli era stato per molti anni capitano della squadra del bar, la sua specialità era la bocciata e non perdeva occasione di rimarcare che il record di venti filotti consecutivi era suo.

    Pasquini, detto Agnelli perché aveva lavorato per tutta la vita come meccanico in una officina della Fiat, era il suo fidato compagno, passavano le giornate insieme aiutati dal fatto che entrambi erano vedovi.

    I due spettatori presero posto sulle poltrone per osservare l’andamento della partita, appostati come cacciatori in attesa della loro preda: avvolti dalla nuvola di fumo dei sigari toscani, attesero il primo errore per scatenare l’attacco, il quale arrivò puntuale dopo qualche minuto. Dopo un testa a testa appassionante la partita era a punteggio pari a soli cinque punti dalla vittoria. Tommy si era guadagnato la bocciata per poter chiudere la partita: posizionò con cura il pallino blu appena sopra la linea bianca e si preparò per il colpo. Per un attimo incrociò lo sguardo di Lolli che attraverso il fumo del sigaro lo stava studiando.

    La bocciata fu forte ma imprecisa, le due bocce iniziarono a piroettare sul tappeto verde con traiettorie incontrollabili; Lolli muoveva gli occhi riuscendo a seguirle entrambe mentre rimbalzavano da una sponda all’altra senza riuscire ad abbattere un solo birillo. Poi l’attrito fece il suo dovere arrestando la corsa delle due sfere.

    Lolli si voltò verso Pasquini, con un gesto eclatante si tolse il cappello e poi fissò Tommy con uno sguardo rassegnato: «Non c’è niente da fare» disse in tono perentorio. «Sei proprio tristo a biliardo. Non faresti filotto nemmeno se ti mettessimo su i birilli da bowling.» Dopo quell’affermazione si alzò con lo sguardo disgustato e ritornò verso la sala principale lasciando la scena in attesa della partita successiva.

    Anche Tommy e Manuel ritornarono nella sala. Davanti alla tv erano state disposte le sedie in più file, una trentina in tutto. Mancava poco all’inizio della partita.

    La cabala era fondamentale, nulla si poteva cambiare, per cui i due amici si sedettero in terza fila come durante le altre partite. Il bar si riempì in fretta con Muzzo che con la sua proverbiale gentilezza rispondeva a tono a chi gli faceva notare la lentezza nel servizio. Dietro il banco con lui, com’era successo nelle giornate precedenti, c’era suo figlio Daniele: a sentire suo padre faceva solo dei danni, ma in realtà sembrava sveglio e anche più gentile del papà, ma questo non era difficile.

    Finalmente arrivò il momento che stavano aspettando, prima l’inno ascoltato in rigoroso silenzio, poi il fischio dell’arbitro: la partita iniziò.

    La tensione era al massimo, dopo le battaglie con Argentina e Brasile vissute con il cuore in gola e la vittoria con la Polonia, adesso toccava a un’altra corazzata: la Germania.

    Occorreva fare la partita perfetta. Tutti i presenti al bar avevano la consapevolezza che qualsiasi errore sarebbe stato punito, e il rigore sbagliato da Cabrini a metà primo tempo non fece altro che renderla più forte.

    L’intervallo allentò la pressione sulle coronarie di alcuni avventori, e la nuvola bianca creata dai fumatori si spostò verso il bancone. Nonostante il caldo, le maggiori richieste ricaddero sul caffè corretto allo Stravecchio; Muzzo e suo figlio in perfetta sincronia riuscirono a respingere l’attacco e dopo 15 minuti di tempesta ritornò la calma intorno al bancone: la partita stava per ricominciare.

    Con il passare del tempo la tensione salì, ma prima Rossi, poi Tardelli e infine Altobelli scrissero la parola fine su quella che sarebbe rimasta la vittoria più bella per i successivi ventiquattro anni.

    Dal televisore, mescolate alle urla di felicità, arrivarono le storiche parole di Nando Martellini: «Scirea, Bergomi, Genti… è finito. Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo

    In quell’istante nel bar esplose la gioia: le sedie che si ribaltavano, le persone che si abbracciavano per un successo insperato fino a qualche settimana prima. Zanette che roteavano come scimitarre fendendo la cappa di fumo delle sigarette sfiorando pericolosamente i corpi e le teste dei tifosi. Solo per miracolo non ci furono feriti.

    L’Italia era campione del mondo.

    Quella sarebbe stata una notte di festa e non servì molto tempo prima di vedere gruppi di persone prendere la direzione del centro: Tommy e Manuel erano tra quelle.

    Le vie si riempirono di una marea di bandiere tricolori, ai festeggiamenti all’ombra del Nettuno parteciparono adulti e bambini. Tommy e Manuel, prima di fare ritorno al bar, fecero un passaggio in via Dei Mille per comprare lo Stadio in edizione straordinaria appena uscito. Rientrarono alla base mentre Muzzo era impegnato nelle ultime pulizie. I due ragazzi mostrarono al barista la prima pagina del giornale fresco di stampa con la foto di Bearzot in bella mostra.

    Muzzo lanciò un’occhiata veloce al quotidiano prima di sparire dietro il bancone; ne uscì con in mano un vassoio che conteneva alcune brioches e tre bicchieri con spuma al cedro: «Mi tocca brindare con voi, pensa mo’ come sono messo» disse appoggiando tutto sul tavolino esterno. Brindarono alla vittoria dell’Italia, poi restarono qualche minuto in silenzio prima che Muzzo iniziasse ad abbassare la serranda per andare a casa.

    «Te lo devo proprio dire: il tuo bar è il migliore di Bologna.»

    Il barista accennò a un sorriso. Tommy per la prima volta pensò che quell’uomo solitamente burbero dietro al bancone in fondo avesse un’anima gentile.

    Muzzo inserì il lucchetto nella serranda, dal retro del bar prelevò la bici, il suo mezzo di locomozione, saltò in sella e iniziò a pedalare. Passando davanti ai due ragazzi rallentò, aveva sul viso lo stesso sorriso di qualche secondo prima: «Hai proprio ragione, il mio è un gran bar, se non fosse per il branco di sfigati che lo frequenta.» Poi sparì nel buio della notte.

    IL COLORE DELLE VOCI

    Daniele Bergonzoni

    A Rebecca,

    piccola bolognese che a breve ci farà compagnia

    Mi chiamo Piero e, sostanzialmente, questa è l’unica cosa che abbia mai posseduto.

    Sono un cittadino di Bologna, uno come tanti: invisibile, insignificante, diciamo pure inutile.

    La mia vita è un lungo e incessante pellegrinare tra i vari portici di questa città; portici bui e senza fine che nel corso degli anni mi hanno offerto la loro schiena come riparo dalle intemperie, le loro braccia come appoggio nei momenti di stanchezza e la loro pelle di marmo come freddo giaciglio per la notte. Dopo la maturità sono stato per un lungo tempo il guardiano delle diaboliche arcate di San Luca. La pessima compagnia mi ha spinto a migrare verso il centro. Erano gli anni di Lucio Dalla, della sua Piazza Grande. Proprio spinto da tale richiamo abitai a pochi passi da lei, sotto il portico di via Farini all’imbocco di Galleria Cavour. Purtroppo, vuoi la grande diffidenza della Bologna bene unita alla poca compassione, decisi mio malgrado di spingermi verso il Teatro Comunale, dove dimoro tutt’oggi.

    Ogni mio viaggio è stato accompagnato dalla vicinanza a un bar, alcuni più affollati, altri meno. Alcuni frequentati dalla gente più cordiale che avessi mai conosciuto, altri da studenti imberbi all’apice della loro vitalità, altri ancora da frotte di turisti giunti in città per comprendere una volta per tutte il significato delle famose tre «T». Nel mio periodo ai piedi di San Luca frequentavo il Bar Billi. Una mescolanza tra il sacro e il profano, tra i pellegrini della domenica che avevano come meta la sommità del colle della Guardia e i pellegrini destinati alle gradinate dello stadio Dall’Ara.

    Del Bar Billi più di ogni altra cosa ricordo gli odori, ormai marchiati a fuoco nei peli delle mie narici. Odori forti, spesso nauseabondi di ascelle sudate dei tifosi che si accalcavano dentro al bar dopo una partita o dei fedeli di ritorno dalla Basilica. Il loro vociare incessante, come cascate di parole che venivano vomitate in un susseguirsi di imprecazioni alle quali facevano eco dei versi di disappunto.

    "Sócc’mel che partita di merda!"

    Senti quello, che volgare!

    oppure

    "Sócc’mel che gran partita!"

    Non c’è più educazione!

    Queste erano per lo più le esclamazioni che andavano per la maggiore. In tutto ciò io me ne stavo in un angolo, ascoltando senza fargli percepire la mia presenza, celato dietro le mie lenti nere come la pece.

    Al Caffè Zanarini era tutto differente.

    I suoi avventori erano per lo più persone distinte. O così mi pareva di percepire dalle loro voci: calde, profonde, quasi regali. Sebbene fosse frequentato da un alto numero di clienti ogni giorno, molti dei quali turisti giunti sin lì attirati dalla vista (a dir loro) mozzafiato che offre lo scorcio della Basilica di San Petronio vista da piazza Galvani, al suo interno regnava una sorta di ordinata confusione. Il tintinnio dei cucchiaini che sbattevano sulle tazzine così come il rumore della velina dei fazzolettini che venivano stropicciati e appallottolati si mescolavano all’odore dei capi d’abbigliamento che trasudavano denaro. Sicuramente Enrico Zanarini, il suo fondatore ed ex garzone di fornaio che aveva fatto fortuna, sarebbe stato felice di sapere che il suo cognome è oggi legato al punto di ritrovo forse più famoso di tutta la città.

    Ma è de La Scuderia che ho sicuramente i ricordi più felici. Decisi di trasferirmi di nuovo in una calda estate d’agosto, questa volta in via Zamboni, a pochi passi dal teatro Comunale.

    Nella via praticamente deserta, svuotata di tutti gli studenti universitari, il cigolio del mio carrello riconvertito ad abitazione ambulante rimbombava nelle volte del porticato. Per trovare un po’ di sollievo e approfittare dell’aria condizionata, cominciai a frequentare quel grande ambiente che un tempo era animato da maniscalchi e cavalli di razza. Accarezzandone le pareti, potevo entrare in contatto con la storia di Bologna, con i locali quattrocenteschi delle scuderie, sopravvissuti alla distruzione del palazzo della nobile famiglia Bentivoglio. Più passavano i giorni e si avvicinava l’autunno, più i tavolini man mano aumentavano, prendendo nuovamente possesso anche dell’antistante piazza Verdi. Questi erano fondamentali al fine di poter ospitare l’ondata di studenti e professori ritornati in città per il nuovo Anno Accademico.

    Come era mio solito, adoravo appartarmi in un angolo e ascoltare le chiacchierate dei ragazzi che bivaccavano lì attorno. Mentre da un orecchio potevi ascoltare le conversazioni degli studenti più diligenti che non parlavano d’altro al di fuori dello studio e degli esami da sostenere, con l’altro potevo captare la goliardia di quelli che invece erano minuziosi nell’organizzare feste e serate a tema dove l’alcol era l’invitato più atteso. Fu nel corso di un autunno che feci amicizia con un gruppetto di studenti di archeologia. Erano soliti appollaiarsi ai medesimi tavolini, quasi come un rituale. In inverno sul fondo del locale mentre, con la bella stagione, all’aria aperta al centro della piazzetta. La composizione di quella compagnia era assai variegata: il milanese precisino che faceva settimanalmente il pendolare per andare a trovare a Roma la sua ragazza finlandese; il reggiano che cercava ogni pretesto per abbordare le ragazze cadute nel suo raggio d’azione; il modenese burbero che odiava tutto e tutti fuorché il luppolo, suo anestetico naturale. Infine, vi era il bolognese. Sebbene giocasse in casa, era il più delle volte assente a causa della sua ragazza gelosa e tremendamente noiosa che puntualmente lo precettava con la minima scusa. Vista la loro provenienza li avevo ribattezzati con il nome de La banda della via Emilia.

    Malgrado le loro diversità, su una cosa erano sempre d’accordo: la birra ghiacciata. Ne avevano ingurgitata talmente

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