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Maria: Nata per la libertà
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Maria: Nata per la libertà
E-book295 pagine4 ore

Maria: Nata per la libertà

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Info su questo ebook

Una storia lontana eppure ancora vicina nella memoria.
Una donna la cui impresa ha segnato la vita di tante persone.
Un romanzo storico accurato, dalla voce di una nuova autrice di talento che ha saputo tratteggiare con maestria ed estremo rispetto la storia di uomini e donne che hanno fatto la Storia del nostro Paese.

Aprile 1944: appesa ai cornicioni una donna fugge dalle finestre dell’ospedale Niguarda, a Milano. È Maria Peron, un’infermiera trentenne, nubile, che abita in un convitto di suore e non ha alcun interesse per la politica, né tantomeno per la lotta armata. Però è coraggiosa, affamata di libertà e la sua bussola morale è infallibile. Ricercata dai fascisti, prende una decisione che le cambierà la vita: salire sui monti della Valgrande e diventare una ribelle.
Maria trascorre un anno insieme ai partigiani e si spende senza riserve per prestare aiuto, senza mai imbracciare un’arma. Organizza un’infermeria e un presidio sanitario, si guadagna un grado da ufficiale e i galloni di chirurgo sul campo. Attraversa l’inferno della guerra, trovandosi testimone e protagonista di eventi drammatici e atti di ordinario eroismo e facendo i conti, giorno dopo giorno, con la propria coscienza. Infine incontra persino l’amore, a cui credeva di avere già rinunciato.
Nel pieno di una tragedia collettiva, Maria si scopre piena di risorse, pragmatica e coraggiosa, capace di ridisegnarsi sulle proprie esperienze restando coerente a se stessa.
Questa è la sua storia ed è una storia vera.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2021
ISBN9788831399319
Maria: Nata per la libertà

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    Anteprima del libro

    Maria - Amalia Frontali

    1

    Hai fatto bene

    Non guardare giù, comandò a se stessa. Non voleva farlo, e non lo fece.

    Si forzò invece a mettere un piede davanti all’altro, lentamente, lungo il bordo troppo sottile del cornicione. Maledisse quella corporatura robusta, i polpacci larghi e le cosce forti, da contadina, che aveva preso da sua madre. Fosse stata sottile come Mimì ¹, o piccolina e minuta come la Modoni, sarebbe stato tutto più facile.

    E se uno di quelli si fosse affacciato e l’avesse vista incrodata come una grassa capra maldestra sulla facciata del padiglione Ponti?

    Non pensarci, Maria. Non pensarci e vai avanti.

    Iniziò a sgranare mentalmente il rosario. La ripetizione aiutava, la preghiera portava pace e chiarezza. Anche sotto la pioggia che le ghiacciava la divisa incollandola alla schiena, anche con i fascisti alle calcagna. Anche a quattro metri da terra.

    Mancava poco all’angolo dell’edificio e doveva superarlo, se voleva almeno uscire fuori vista. Ma era un’impresa troppo al di sopra delle sue possibilità atletiche, sarebbe caduta giù e si sarebbe rotta la testa; se era sfortunata, la schiena.

    Qualcuno alla sua sinistra – un bel po’ a sinistra – socchiuse l’anta di una finestra. Poté intravedere solo una manica azzurra e una treccia bionda sotto la crestina della divisa, non avrebbe mai saputo chi ringraziare.

    Lì poteva arrivarci. Si calò oltre le pesanti tende nella stanza buia, tirando il fiato: era il deposito farmaci, all’angolo del reparto, con la sua ordinata teoria di armadietti a vetri chiusi a chiave. Avanzò a tentoni nel buio, cercando di non far rumore; ma se anche l’avesse fatto, fuori nella corsia c’era ben più baccano. Accostandosi alla soglia, si sentiva vociare forte: grida femminili e ordini abbaiati, calpestio di piedi, una porta che sbatteva.

    Avevano fallito, stavolta. Avevano fallito e non sarebbe stato senza conseguenze.

    Nella stanza dove si trovava, saliva un vetusto montacarichi dalle lavanderie. Poteva infilarcisi, sempre che fosse riuscita a starci dentro, e manovrarlo con un paio di forbicine (come si faceva sempre quando s’incastrava) per scendere dritta dritta al piano interrato e scappare via. Scappare a gambe levate, senza guardarsi indietro.

    Poteva farlo? Era giusto?

    Si chiese cosa avrebbero fatto i fascisti a un pugno di infermiere beccate a cercare di far evadere un prigioniero politico. L’ennesimo, visto che erano mesi – da quando l’infermeria di San Vittore era stata bombardata e i detenuti trasferiti all’ospedale civile – che in corsia si giocava d’azzardo: abiti dalla sala mortuaria, false diagnosi, terapie posticce, fughe notturne verso Affori sulla bicicletta del buon Nacci.

    E se fosse stata anche lei là dentro, insieme alle altre, in corsia, mani in alto contro il muro, cosa avrebbe pensato di una compagna che fuggiva di soppiatto?

    Oltre alle ossa massicce, sua madre le aveva trasmesso un’anima nobile e un intelletto lucido, così decise che, fosse stata sotto la punta dei mitra, avrebbe invidiato chi poteva salvarsi, ma senza biasimo. Perché non c’era alcuna utilità, solo un coraggio vano, a farsi ammazzare senza raggiungere uno scopo. E se Dio le aveva lasciato aperta quella finestra, voleva dire che non era la sua ora, e che aveva ancora dei progetti, per lei.

    Prese un respiro e s’infilò a fatica nello stretto vano del montacarichi. Ignorò la voce della Rossi, che strillava un altissimo No, e ignorò un lamento acuto, che poteva essere la signorina Beretta, la telefonista, ignorò i passi di stivali che risuonavano ritmati accanto all’uscio. E ignorò lo sparo.

    La pioggia era diminuita, s’era fatta sottile, polverosa e battente, e avvolgeva le vie di Milano come un velo da lutto.

    A quell’ora, di certo i questurini avevano già visto il foglio dei turni e notato la sua mancanza all’appello in corsia. La caccia per lei era già aperta e le uscite tutte bloccate.

    Raggiunse subito la chiesa e da lì don Alessandro, che non ebbe bisogno di spiegazioni, la accompagnò fino al convitto, passando, da una porticina laterale, nei sotterranei. Le strinse forte la spalla, mentre le parole di commiato gli si rompevano in gola, banali e inadeguate.

    Era ovvio che tornare nella sua stanza non fosse una mossa molto astuta, eppure doveva, doveva proprio, ché ancor meno astuto sarebbe stato farsi acchiappare per strada con le tasche della divisa piene di bombe e spolette da mitragliatrice sottratte ai piantoni fascisti del Ponti.

    Suor Giovanna ², che per fortuna non era di turno in corsia quel mattino, venne ad accoglierla con uno sguardo accigliato e teso, ma non volle formulare una domanda precisa. Maria rovesciò in un cassetto la sua refurtiva e poi strinse ambo le mani dell’amica e consigliera nelle sue, con calore e con urgenza. «Suor Giovanna, è la mia volta.»

    La religiosa era trentina, un tipo di molti fatti e poche parole. E in quell’occasione non ritenne opportuno usarne alcuna. Si limitò a tracciare, con le sue movenze lente e accorte, una piccola croce sulla fronte di Maria e poi a baciare quella stessa fronte. Si strinse al cuore la sua favorita e la lasciò andare.

    Maria ebbe giusto il tempo di prendere il cappello, due paia di calze di lana spessa da cacciare nelle tasche del paltò, e null’altro, prima di scavalcare il muro di cinta sul retro del convitto e fuggire per i campi, verso Niguarda.

    Con la pioggia sulla faccia e i piedi inzuppati, correndo fra le spighe basse e ancora verdi, Maria riusciva solo a pensare alle piccole cose che si lasciava alle spalle, forse per sempre. Ignorava, allora, che nelle prove più ardue la mente ricorre sempre al conforto dell’ordinario. E così, il suo pensiero si soffermava con rimpianto sulla foto un po’ sfocata dei suoi genitori il giorno delle nozze, sulla Bibbia con la copertina di pelle, che le aveva regalato sua madre per la cresima, sui due romanzi non ancora letti e su quel bel taglio di lana marrone nuovo nuovo, da cui sarebbe venuta fuori una gonna elegantissima.

    A Niguarda c’era una porta soltanto alla quale Maria si sentisse di andare a bussare in un momento simile; anzi, si rese conto che i suoi passi l’avevano già portata a destinazione, in via Hermada, di fronte a una larga cancellata di ferro, un po’ arrugginita. Si sforzò di sorridere al vecchio portiere, che la conosceva e che ricambiò sfiorandosi il cappello, prima di volare su per le due rampe di scale buie.

    Giovannina ³ non aspettava una visita, ma intuì immediatamente che trovarsi davanti la Peron a quell’ora, in divisa e bagnata fradicia, non poteva essere un buon segno.

    Si appiattì contro l’uscio per lasciarla entrare e guardò attentamente a destra e a manca, ascoltando i rumori delle scale, prima di richiudere il battente.

    «È andata storta, vero?» chiese la Molteni, appoggiata di schiena contro la porta.

    Maria annuì e si lasciò cadere su una delle sedie impagliate, strofinandosi la faccia con le mani; i vestiti e i capelli gocciolavano silenziosamente sul pavimento.

    «Quanto storta?»

    «Non lo so. Sono in ferie,» disse Maria, alzando le spalle con un sospiro.

    Giovanna rispose con uno sguardo impaziente e interrogativo.

    «Ero al laboratorio, sarà stata l’una, quando squilla l’interno. Rispondo ed è suor Cecilia ⁴. Mi dice, tutta impostata: "Signorina Peron, parta immediatamente per le ferie. E deve aver capito che io cadevo dalle nuvole, perché subito ha ripetuto immediatamente" con un tono di comando che faceva quasi paura.»

    «E tu?»

    «E io che dovevo fare? Che poteva significare? Ho mangiato la foglia e sono scappata,» spiegò Maria, tormentando nervosamente un lembo della divisa.

    «Sei scappata?» ripeté incredula la Molteni.

    «Dalla finestra,» precisò Maria, cercando di convincersi d’averlo fatto davvero.

    La Molteni la fissò basita, gli occhi sgranati. Aveva la più alta opinione di Maria Peron come persona, come infermiera e come staffetta, ma una fuga rocambolesca da uno squadrone di camicie nere non era proprio quello che ci si poteva aspettare da lei.

    «E le altre?»

    Maria scosse il capo e sollevò le spalle. A fatica, perché, come un macigno, sentiva di nuovo addosso la vergogna per le compagne che aveva lasciato in reparto.

    Calò il silenzio e Giovannina scomparve in cucina. Si sentì il rumore di acqua versata, di cassetti, di posate e di un fiammifero che si accendeva.

    «Peron?» la chiamò, affacciandosi all’uscio della cucina.

    Maria sollevò lo sguardo, afflitto e tormentato.

    «Non so proprio come ci sei riuscita, ma hai fatto bene.»

    Mario Sangiorgio, il marito della Molteni, le raggiunse poco dopo. Aveva sentito della retata all’ospedale e portava notizie non buone: la Rossi a San Vittore, la Beretta e il povero Nacci, con il suo sorriso timido e la sua bici sgangherata, deportati chissà dove.

    Seduti al tavolo del tinello, davanti a un pessimo caffè di cicoria, parlarono in fretta di quello che era successo. Sul fatto che Maria dovesse lasciare Milano, furono tutti d’accordo da subito. Se si fosse trattenuta a casa dei Sangiorgio, i fascisti non ci avrebbero messo molto a trovarla: non era certo un segreto che lei e Giovannina si frequentassero. E ancor meno segreto era il fatto che Mario fosse un gappista ⁵ e un comunista. Persino il più ottuso dei gerarchi nel giro di poche ore avrebbe fatto due più due e sarebbe andato a cercarla lì.

    La questione era dove andare, cosa fare. E bisognava che Maria lo decidesse in fretta.

    «Dovresti tornartene a casa, da tua madre,» suggerì a mezza voce Giovanna, fissando fuori dalla finestra. Aveva smesso di piovere e un sole pallido, che pareva invernale, si rifletteva sulle pozzanghere in vaghe sembianze di arcobaleni.

    «A far cosa?» intervenne il marito, dando voce al pensiero di Maria.

    «A lavurà. A far cosa?»

    «Nei campi?» chiese Mario, sollevando un sopracciglio.

    La domanda era retorica. Cercare lavoro in ospedale, per una che era ricercata, significava solo portarsi i fascisti dentro casa.

    «Il lavoro è lavoro. E non sarebbe per molto. Finché finisce la guerra.»

    «E quando finisce?» chiese Maria in un sospiro.

    Giovannina si strinse nelle spalle e si alzò di scatto, i pugni contratti. Il sangue le era salito al volto in una vampata improvvisa e dovette inghiottire la rispostaccia che aveva sulla punta della lingua. Era fatta così, una donna d’impeto, di reazioni energiche e improvvise, spesso esagerate. Sarebbe risultata insopportabile se quell’impulsività non fosse stata generosamente temperata da una straordinaria tenerezza di sentimenti e da una lealtà senza compromessi.

    Mario finse d’ignorarla, il miglior modo perché sbollisse in fretta, e si lanciò in bocca un biscotto, preso da una ciotola di porcellana azzurra.

    Un attimo dopo lo sputò tossendo. «Ma che schifo! Ma che c’è dentro, merda di topo?»

    «Vegetina ⁶: molto meglio della farina!» declamò Maria. Era quasi impossibile recitare quegli slogan restando seri.

    «Mia moglie ce l’ha a morte coi comunisti,» le confidò Mario a mezza voce, con una strizzatina d’occhio. «Vuole farmi fuori. Con la merda di topo,» concluse, esibendo il biscotto mangiucchiato.

    Giovanna non poté più trattenere il riso e si sgonfiò come un palloncino. «Non dire che non ti avevo avvertito, ché se cercavi una massaia, era meglio sposassi un’altra.»

    Il marito le rispose con una pacca affettuosa sul fondoschiena, che fece arrossire Maria e la costrinse a stornare lo sguardo. La complicità di una coppia di sposi – quei due si adoravano – era qualcosa che allo stesso tempo l’attirava e l’atterriva. Le provocava un imbarazzo che quasi quasi la faceva sentire in colpa, ché da una parte le pareva di non essere adatta a quel tipo di vita, dall’altra doveva pur ammettere, non senza rimpianto, che non si sentiva neppure chiamata da Dio al chiostro.

    Sarebbe stato tanto più semplice se il Signore l’avesse reclamata come sposa; avrebbe potuto essere una missionaria, un’infermiera in luoghi lontani e selvaggi, spendere una vita al servizio degli altri senza risparmiarsi. Aveva tanto pregato per quella vocazione. E invece non era mai arrivata.

    «Ne avrebbero un gran bisogno, certo. Ma tu, Peron, te la sentiresti?» stava intanto continuando Sangiorgio.

    «Bada, però, che saresti l’unica donna,» aggiunse Giovanna.

    «Non è mica vero. Ci sono madri, sorelle, mogli, figlie e fidanzate che vanno e vengono di continuo,» la corresse Mario.

    «Vanno e vengono, appunto. Di donne che restano lassù, non ce ne sono.»

    Maria socchiuse gli occhi cercando di afferrare il senso del discorso. «Lassù dove?»

    «In Valdossola, con i combattenti. I Leoni della Montagna.»

    Non si poteva dire che Maria Peron fosse una donna impulsiva, e meno ancora irrazionale o irresponsabile. Eppure in quel momento cruciale fu tutte e tre le cose. E diede una risposta di pancia, che, per il resto della sua vita, non avrebbe mai potuto motivare, se non con un intervento della Provvidenza. «Ci vado.»

    I Sangiorgio si incaricarono di tutto. Nel pomeriggio un ragazzino si presentò con una vecchia macchina fotografica e le scattò due foto, accecandola con un flash potentissimo.

    «È per le carte,» spiegò Mario.

    «Quali carte?»

    «Giò mi ha detto che hai i documenti da mobilitata civile. Se ti beccano lontana dall’ospedale con quelli, ricercata per giunta, va a finire male,» spiegò lui. «Almeno per il viaggio dobbiamo inventarci qualcosa.»

    Appena fece buio, quella stessa sera, la condussero in un posto sicuro, che era un eufemismo per descrivere un umido solaio, densamente abitato da topi, in casa di chissà chi a Niguarda.

    Ci rimase imboscata quattro lunghissimi giorni, finché Giovannina non si presentò con un cambio di vestiti presi dal proprio armadio insieme a un tale Carlo Soresina, la staffetta incaricata di condurla in montagna. Era un uomo sulla trentina, con piccoli occhi scuri brillanti, puntati come spilli in un viso anonimo, tranne che per due vecchie cicatrici del vaiolo ormai sbiancate.

    Seduta sul treno della Nord, sulla panca della terza classe, Maria faticava a mettere insieme i pezzi di quell’ultima settimana, e della sua vita.

    La gonna della Molteni le tirava sui fianchi, anche se aveva spostato i bottoni il più possibile. Quanto alla giacca, era talmente lunga di maniche che temeva che chiunque l’avesse guardata per più di mezzo secondo avrebbe intuito che quei panni non erano i suoi.

    Aveva anche delle carte del Sangiorgio, da portare in montagna, imbastite a grossi punti nelle tasche interne della sottoveste, mentre il cornetto del cappellino era pieno di fiale per le iniezioni, antibiotici e antalgici che le aveva fatto avere suor Giovanna dal reparto.

    E in tasca sentiva il peso del plico di documenti falsi, con la sua fotografia – che era venuta malissimo – e il nome di una sconosciuta: Teresa Conti, dicevano, nata a Ravenna nel 1920. Chi era costei? Che ci faceva dentro quel treno?

    Non lo sapeva.

    Non era stata Teresa Conti, ma Maria Peron a correre insieme a Soresina da Niguarda ad Affori in un’aurora rosata, così tenera e perfetta che usarla per scappare pareva un affronto. E poi ancora a piedi, senza fiato, fra i campi d’orzo, fino alla Bovisa.

    Lì Teresa era salita sul treno per Laveno e Maria era rimasta giù, a contemplare le rose gialle pronte a sbocciare nelle aiuole malridotte ai bordi delle rotaie. Non le potavano mai a modo, ma erano bellissime lo stesso.

    Il treno procedeva con un clangore regolare che metteva sonnolenza e Maria si sentiva esausta. «Vedi di non addormentarti,» l’aveva ammonita Soresina, perché se arrivavano i questurini, o le camicie nere, bisognava essere lucidi e raccontar bene la storiella.

    E quella Teresa Conti non era tanto credibile, senza una valigia, senza un soldo in tasca.

    Si poteva dire che, come un monaco mendicante, non possedesse nulla.

    Si era spogliata della sua vita precedente per una del tutto nuova, piena di incognite, alla quale si sentiva drammaticamente impreparata.

    Sarebbe mai tornata indietro? Le pareva che le probabilità fossero tutte in favore del no.

    Perché, dopotutto, scegliere la via della montagna significava proprio quello: mettersi di fronte all’evidenza che era assai più realistico morire ammazzata in qualche fosso che tornare in città, e magari sposarsi, o fare dei figli. Con chi, poi?

    Ecco, se avesse avuto famiglia, una famiglia sua, forse quella scelta pazza non l’avrebbe saputa fare. Ma a un soffio dai trent’anni, di speranze di diventare moglie e madre, in tempo di guerra, non ce n’erano poi tante, specie per una che non aveva da offrire chissà quale bellezza e neppure era capace di accontentarsi.

    E poi forse non era neppure giusto accontentarsi su una cosa del genere.

    Molto meglio starsene tranquilla per conto proprio piuttosto che doversi caricare di doveri per qualcun altro. Tanto valeva assumersene di più alti, che riguardavano molte persone e non una soltanto.

    Era esattamente quello che aveva provato a fare negli ultimi mesi, e anche il motivo per cui non aveva mai davvero pensato di tornare a casa: subito le sarebbero piovuti in capo i suoi doveri di figlia, di sorella, di zia. Ma soprattutto, se si fosse messa davvero nei guai, ci avrebbe trascinato anche tutti loro. Inaccettabile.

    E invece a Milano, lontana dalla famiglia, libera di disporre di se stessa, aveva conosciuto qualcosa a cui non si sentiva pronta a rinunciare: l’euforia del Bene era la definizione che le aveva dato, fra sé e sé. Non era quell’incerta parvenza di buona condotta e carità cristiana, fatta d’oboli e clausure, che viveva nelle pagine del catechismo, né uno sfoggio di buoni propositi, che troppo spesso diventano cattivi esempi. Ma un Bene grande, concreto. Reagire ai soprusi e non accettarli mai, non farsi mai complici. Stare dalla parte dei deboli, sempre. Perché Dio ci ha creati uguali e liberi e liberamente ci fa scegliere. E se la libertà, come la vita, è un dono divino, nessun uomo può strapparla ai suoi simili.

    Non era certo un ragionamento difficile. Anzi, lei si stupiva che non fosse lampante e naturale per ogni cristiano.

    Don Alessandro predicava spesso la necessità di porgere l’altra guancia, perché Cristo in persona l’aveva detto. Ma, aggiungeva il prete con un mezzo sorriso, la propria.

    Bisognava porgere la propria guancia per salvare dallo schiaffo quella altrui, specie se lo schiaffo aveva i peggiori motivi immaginabili, quelli dell’abuso, della prepotenza, dell’oppressione.

    Bisognava esporsi, bisognava correre dei rischi, tutti i santi giorni, per andarsene a letto alla sera con la coscienza pulita, sapendo di aver fatto la cosa giusta.

    L’omissione è un peccato, diceva don Alessandro. Quanto aveva ragione!

    E quel modo pericoloso e ardito di essere cristiana, aveva scoperto Maria, dava un senso nuovo e profondo a ogni ora, a ogni minuto. Rallentava il tempo. Rendeva intensamente vivi.

    2

    Mi piaci perché non sei dipinta

    Dopo il treno fu la volta del battello, fino a Intra. Di nuovo Maria e Soresina sedettero un po’ distanti, tenendosi d’occhio ma senza che fosse possibile supporre che viaggiassero insieme. Quel lago, pensò Maria mentre il vento le spruzzava in faccia una raffica di goccioline, era parecchio più grande di come l’aveva immaginato. Le sarebbe persino piaciuto se il cielo fosse stato meno grigio, le acque meno nervose, le rive meno aliene; se, sullo sfondo, i monti gravi e cupi, incatenati l’uno all’altro, non le fossero sembrati giganti malevoli, immusoniti e minacciosi.

    Anche il lago sparì presto alla vista e, quando infine montarono sulla corriera per la Crosa di Miazzina, le nuvole erano basse, l’aria elettrica e la pioggia imminente. Lì dovettero per forza accomodarsi vicini: c’erano solo due posti liberi.

    Al secondo tornante, un blindato li fermò. Maria deglutì a vuoto, intercettando lo sguardo privo di espressione di Soresina, che, pallido ma composto, come congelato, serrava la mano sul bracciolo: un posto di blocco polizei.

    Uno dei due SS, il più giovane, balzò dentro e ruggì qualcosa all’autista nella sua lingua sgraziata. Non serviva un interprete per capire che volevano i documenti. Quel mattino li avevano già esibiti a un questurino annoiato alla stazione, ma lì era tutta un’altra cosa.

    L’ufficiale che era rimasto fuori, un bel profilo ariano incorniciato dal finestrino, prese la pila di fogli e libretti e si mise a vagliare le fotografie con estrema calma, quasi con interesse, scorrendole una a una fra le dita, neanche fossero carte di una buona mano di poker. Quando alzò gli occhi per un momento, intercettò lo sguardo di Maria e sollevò l’angolo delle labbra in una specie di sorriso sbieco che le fece venire i brividi. Si sentì le viscere artigliate da dita di ghiaccio.

    Dopo un’altra manciata di minuti, che Maria trascorse fissandosi con ostinazione i piedi, il soldato giovane risalì sulla vettura, e la percorse tutta a lunghe falcate, scrutando le facce dei passeggeri con deliberata lentezza, mentre restituiva a ciascuno il suo prezioso pezzo di carta. Ma forse cercava un uomo, perché gli sguardi che dedicava alle donne erano vaghi e disattenti, e duravano appena il tempo del tributo dovuto alla bellezza di ciascuna; per Maria, quasi neppure un secondo.

    Tirarono il fiato solo dopo che le porte si furono chiuse cigolando e il viaggio riprese, particolarmente scomodo e lento: la corriera sobbalzava senza posa lungo la provinciale e Maria e Soresina si urtavano a ogni scossone, senza una sillaba. Del resto, nessuno dei due aveva la benché minima voglia di fare conversazione, senza contare che gli unici argomenti di cui sarebbe valsa la pena parlare, era meglio non condividerli con gli altri passeggeri. E sì che, si disse Maria, sembrava tutta gente normale, per bene.

    Si mise a piovere a scrosci, con violenza. Le gocce scorrevano verso l’alto sui vetri della corriera, spinte da una forza magica contraria alla gravità. Maria le seguiva con il dito sul vetro, come da bambina.

    Quando il trabiccolo si fermò al capolinea, il temporale era finito, ma il cielo restava grigio e coperto, e la notte aveva rubato la scena al giorno senza quasi soluzione di continuità. Da Miazzina scesero a piedi a Ungiasca,

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