Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'Autobiografia di Matthew Scudder: Matthew Scudder, #20
L'Autobiografia di Matthew Scudder: Matthew Scudder, #20
L'Autobiografia di Matthew Scudder: Matthew Scudder, #20
E-book260 pagine3 ore

L'Autobiografia di Matthew Scudder: Matthew Scudder, #20

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

A partire dagli anni Settanta, Lawrence Block ha scritto romanzi e brevi storie - più volte premiate - che hanno come protagonista Matthew Scudder. Ora che egli e il suo detective sono più vecchi di mezzo secolo, l'autore ha accettato di scrivere un libro sulla vita del suo personaggio.

 

Ma ha deciso di non essere la persona adatta per quell'incarico.

 

Come ha detto Block: "Com'era la famiglia di Matt? Come ha trascorso l'infanzia? Che cosa lo ha portato alla polizia di New York, e come è passato dalla Scuola reclute al distintivo dorato da detective? Chi lo ha influenzato e quali sono state le esperienze che l'hanno reso l'uomo che conosciamo? Erano domande importanti, e vi erano sicuramente storie da raccontare, ma non voleva dire che fossi io la persona adatta a farlo. Se serviva una biografia di Matt Scudder, se la sarebbe dovuta scrivere lui stesso".

 

Così Block ha affidato l'incarico al suo personaggio di fantasia più duraturo, e il risultato - L'autobiografia di Matthew Scudder - è un documento straordinario, allo stesso tempo un convincente Bildungsroman e l'indispensabile coronamento di una serie eccezionale.

 

Dal suo debutto nel 1976 in Le colpe dei padri, Matthew Scudder è invecchiato in tempo reale; così come, in modo  sorprendente, è invecchiato il suo creatore. Lawrence Block ha compiuto 84 anni il 24 giugno 2022, mentre Scudder ha raggiunto lo stesso traguardo il 7 settembre. L'Autobiografia di Matthew Scudder dimostra in modo chiaro e irresistibile che nessuno dei due ha perso neppure un colpo.

 

Lawrence Block, nominato Grand Master dalla Mystery Writers of America, è stato più volte vincitore dei premi Edgar Allan Poe e Shamus; tra i riconoscimenti alla sua carriera, il Diamond Dagger della UK Crime Writers Association.

 

"Essenziale per i lettori di Lawrence Block. Non solo questo libro amplifica il suo popolarissimo personaggio di investigatore privato, Matthew Scudder (oggetto di 17 romanzi, numerosi racconti e 2 adattamenti cinematografici); ma mette anche in mostra l'incredibile versatilità di Block, portando una nuova prospettiva alla narrativa poliziesca, quando Scudder riflette sul corso della sua vita e sulle sofferenze, oltre che sulle morti, che l'hanno costellata".

                                                      ~David Morrell, autore del bestseller del New York Times MURDER AS A FINE ART

LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2023
ISBN9798223597476
L'Autobiografia di Matthew Scudder: Matthew Scudder, #20
Autore

Lawrence Block

Lawrence Block is one of the most widely recognized names in the mystery genre. He has been named a Grand Master of the Mystery Writers of America and is a four-time winner of the prestigious Edgar and Shamus Awards, as well as a recipient of prizes in France, Germany, and Japan. He received the Diamond Dagger from the British Crime Writers' Association—only the third American to be given this award. He is a prolific author, having written more than fifty books and numerous short stories, and is a devoted New Yorker and an enthusiastic global traveler.

Correlato a L'Autobiografia di Matthew Scudder

Titoli di questa serie (37)

Visualizza altri

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'Autobiografia di Matthew Scudder

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'Autobiografia di Matthew Scudder - Lawrence Block

    È difficile decidere da dove cominciare.

    Con la mia nascita, suppongo, e con l’ammissione che la mia data di nascita non è quella riportata in almeno uno dei libri. Si tratta di rappresentazioni reali, almeno per quanto la memoria umana e le esigenze artistiche permettono, ma a volte vanno un po’ fuori strada. Non so perché Lawrence Block mi abbia attribuito una data di nascita in aprile o maggio, ma l’ha fatto e ha continuato a sottolineare che ero un Toro, con la perseveranza o la testardaggine, come preferite, che si suppone accompagni quel segno solare.

    Non posso negare questi tratti della mia personalità, ma in realtà sono della Vergine, nato il 7 settembre 1938 nella Clinica Ostetrica del Bronx sulla Grand Concourse, primo figlio di Charles Lewis Scudder e Claudia Collins Scudder. Mi chiamarono Matthew Collins Scudder; Collins perché era il nome da nubile di mia madre. Per quanto ne so, non c’erano Matthew in famiglia. Credo che a loro semplicemente piacesse il suono.

    All’epoca dovevamo vivere nel Bronx, ma evidentemente non ci eravamo rimasti a lungo, perché eravamo a Richmond Hill quando mio fratello nacque in un ospedale del Queens, il 4 dicembre 1941. Lo chiamarono Joseph Jeremiah Scudder; tre giorni dopo i giapponesi bombardarono Pearl Harbor e due giorni dopo mio fratello morì, per un difetto congenito o per complicazioni del parto. Non ho mai saputo esattamente cosa sia successo, ma credo che il parto debba essere stato problematico perché quasi uccise mia madre. Rimase in ospedale fino alla settimana di Natale. Fu sua cognata a prendersi cura di me. Era mia zia Peg, sposata con il fratello di mia madre, Walter.

    Di tutto questo non ho alcun ricordo. So di averlo saputo, perché mi è stato detto, ma non lo ricordo. Ho avuto un fratello per poco meno di una settimana e non l’ho mai visto.

    Dopo la morte di tuo fratello non è più stata la stessa. L’ho sentito dire più di una volta da zia Peg e anche da un’altra zia, probabilmente zia Rosalie, anche se poteva essere zia Mary Katherine. Avevo molti zii e zie, la maggior parte da parte di mia madre. Mio padre aveva due sorelle: Charlotte, che insegnava in terza elementare e non si è mai sposata, e Helen, che era sposata e viveva in Kansas, credo a Topeka, anni prima della mia nascita. L’ho incontrata una volta al funerale di mio padre. Era arrivata in aereo per l’occasione, il suo primo ritorno a New York da quando era partita, sposata appena uscita dal liceo. Ricordo che mi avvicinò e mi raccontò i ricordi d’infanzia di mio padre, solo che era ubriaca ed erano sempre le stesse due o tre storie.

    Tutti gli zii e le zie sono morti, ovviamente. Helen aveva dei figli e almeno uno di loro doveva essere più grande di me, perché credo che sia stata la sua gravidanza a spingerla a sposarsi presto e a lasciare New York. Non ho mai saputo i nomi e nemmeno il numero dei suoi figli, miei cugini di primo grado, e non ho idea se siano vivi o morti.

    E naturalmente c’erano cugini da parte di mia madre, ed erano parecchi, ma da tempo ne ho perso le tracce. Probabilmente potrei rintracciarli se mi ci mettessi d’impegno. C’era un programma radiofonico quando ero ragazzo, Mr. Keen, il rintracciatore di persone scomparse; non so con quanto interesse lo seguissi, ma ho poi avuto una discreta esperienza nel rintracciare persone che erano scomparse e che per lo più volevano rimanere tali.

    Al giorno d’oggi Google rende le cose abbastanza facili. Finora, però, non mi sono impegnato in questa direzione e non credo che lo farò. Elaine, mia moglie, si è strofinata un tamponcino all’interno della guancia e l’ha inviato con le cellule epiteliali ad Ancestry.com o a uno dei suoi simili, e ha ricavato una quantità sorprendente di informazioni sui suoi antenati da entrambe le parti, i Mardell e i Cheplove, oltre a essere informata periodicamente di qualche sconosciuto che non porta nessuno di questi cognomi e con cui condivide presumibilmente una quantità significativa di DNA.

    Potrei inviare un tampone anch’io. Non so quasi nulla dei miei nonni e nulla delle generazioni precedenti di Scudder e Collins, ma che differenza può fare sapere quali eroi e furfanti sono annidati nel mio albero genealogico?

    E se ho un cugino di terzo o quarto grado a Pembroke, in Oregon, che importa?

    Oppure potrei scoprire che Michael e Andrew, i figli del mio primo matrimonio, non sono i miei unici discendenti. Mezzo secolo fa, sia prima che dopo il mio primo matrimonio, conducevo un’attiva vita sessuale. In quegli anni bevevo, e sono andato a letto con sconosciute che ritenevo prendessero la pillola.

    Quello che ora presumo è che le mie partner di quelle avventure, che bevevano come me nei bar in cui le incontravo, non fossero molto più responsabili di me. Una di loro avrebbe potuto portare in grembo un mio figlio senza sapere chi ne fosse il padre.

    O senza ricordarsi affatto di me.

    Si sentono delle storie. Una lettera, o più probabilmente un e-mail. Non mi conosci, ma ho ragione di credere che tu possa essere mio padre . . .

    Penso che non mi sfregherò tamponi nella guancia.

    ∗ ∗ ∗

    Credo che i miei genitori non siano più stati gli stessi dopo la morte di mio fratello piccolo. Sto solo ipotizzando, o forse deducendo, perché non ho ricordi di loro prima di quella sfortunata settimana.

    Erano buoni genitori, credo. Non mi hanno mai sculacciato, né tanto meno picchiato, e se uno dei due ha mai alzato le mani sull’altro, io non ero presente. Non ricordo nemmeno molte discussioni, ma se cerco di ricordare quei primi anni ho la sensazione di lunghi silenzi, di pomeriggi e serate in cui l’unica voce che si sentiva era quella della radio.

    "Buone notizie stasera!"

    Era lo slogan di Gabriel Heatter all’apertura del suo notiziario WOR, e nella memoria risento ora quelle sue parole e quella voce ricca e cordiale. Mio padre non si perdeva mai il programma di Heatter, tranne quando non riusciva a tornare a casa in tempo. Sono sicuro che ci saranno state notti in cui il giornalista non aveva pronunciato quelle parole, perché c’era una guerra mondiale in corso e non tutti i giorni erano pieni di buone notizie. Ma a Gabriel Heatter, a quanto pare, piaceva vedere il lato positivo delle cose, e credo che mio padre apprezzasse quelle tre parole almeno quanto gli importava degli avvenimenti nel mondo.

    A volte tornava a casa tardi, molto dopo il programma, su cui mia madre poteva o meno essersi ricordata di sintonizzarsi. "Buone notizie stasera!", esclamava lui, riecheggiando la cadenza di Heatter, se non la sua voce. E a volte si limitava a quello, oppure condivideva la buona notizia della serata: una vittoria degli Yankees, molto probabilmente. Gli Yankees erano una squadra gratificante per cui tifare, al pari delle nostre forze in Europa e in Asia. Vincevano molto più spesso di quanto perdessero.

    Non so perché ci stia girando intorno, quindi devo dirlo: beveva. Nelle notti in cui perdeva Gabriel Heatter, in genere si tratteneva più a lungo del solito in qualche bar che in quel momento preferiva, e ogni volta che tornava a casa emanava un confortante odore di whisky.

    Confortante? Una parola sorprendente. È strano quello che un uomo si sente dire.

    Un conforto per Charlie Scudder lo era certamente, e credo lo fosse anche per me. Era il suo odore, il suo profumo, e significava che papà era a casa.

    Non barcollava, non cadeva. Forse parlava un po’ più forte, ma non ricordo che abbia mai biascicato le parole. Nessun cambiamento di personalità, nessuna esplosione di violenza verbale o fisica. Mangiava qualcosa, se non aveva cenato prima, poi prendeva una bottiglia dalla credenza, si versava un drink e lo sorseggiava mentre fumava Chesterfield e ascoltava la radio o sfogliava le pagine del giornale della sera.

    Beveva whisky blended. Le marche che ricordo avevano tutte un numero: Four Roses, Three Feathers, Seagram’s Seven.

    Mi sembra che ci trasferissimo spesso. Vivevamo nel Bronx quando sono nato e nel Queens quando è nato e morto mio fratello. Eravamo ancora a Richmond Hill quando iniziai ad andare alla scuola materna, ma a metà della prima elementare ci trasferimmo, credo a Ridgewood o Glendale, e dovetti frequentare un’altra scuola. Doveva essere una scuola cattolica, ricordo delle suore.

    Non eravamo religiosi. La famiglia di mio padre nominalmente era protestante, ma nessuno andava in chiesa. I Collins erano un misto di cattolici e di protestanti e suppongo che se fossero vissuti a Belfast si sarebbero lanciati bombe l’un l’altro, ma nessuno prendeva la cosa sul serio.

    La sorella di mia madre, Eileen, era sposata con Norman Ross, che aveva cambiato il suo cognome da Rosenberg. Gli ebrei sono dei bravi mariti. Ricordo di aver sentito una delle mie zie fare questa dichiarazione e non l’ho mai dimenticata, chiedendomi cosa significasse. Alla fine ho capito che significava che erano bravi con i soldi o che stavano lontani dall’alcol. Forse entrambe le cose.

    Non so come stesse a soldi lo zio Norman, e non saprei dire se bevesse molto o moderatamente o per niente, ma non stava lontano dagli alcolici. Aveva un negozio di liquori, fu rapinato più di una volta e l’ultima persona che gli puntò contro una pistola premette il grilletto, e quella fu la fine di Norman Ross, nato Rosenberg.

    Un paio di anni dopo zia Eileen si risposò, sempre con un uomo ebreo. Il cognome dello zio Mel era Garfinkel, quindi dubito che l’avesse cambiato, e aveva un negozio di ferramenta nel quartiere di Queens Boulevard. Le ferramenta vengono rapinate meno spesso dei negozi di liquori e, per quanto ne so, zia Eileen e zio Mel vissero per sempre felici e contenti.

    Sentite, sono un uomo vecchio. La mia mente è come un vecchio fiume, che gira di qua e di là e non ha particolare fretta di arrivare dove sta andando. Serpeggia nei meandri, ecco le parole giuste.

    ∗ ∗ ∗

    Mia madre era sempre presente, ma c’era sempre qualcosa di incerto nella sua presenza. Faceva tutte le cose che doveva fare, si alzava al mattino e ci preparava la colazione, rifaceva i letti, lavava i vestiti e spazzava i pavimenti, faceva la spesa, metteva la cena in tavola.

    Ma faceva tutto questo quasi in silenzio. Non credo che avesse amici al di fuori della famiglia. Se squillava il telefono, e non squillava spesso, a chiamare era generalmente una delle sue sorelle con qualche notizia di famiglia: qualcuno era malato o fidanzato o incinta o morto.

    Se ero in casa, sentivo la sua parte della conversazione. Oh, che peccato. Oh, che bello. Oh, mi dispiace tanto.

    Non era una bevitrice. Beveva un drink, su invito di mio padre, se c’era qualcosa da festeggiare, ma non ne beveva un secondo e spesso lo lasciava a metà. E questo mi ricorda una cosa a cui non pensavo da anni: avevo trovato un suo drink abbandonato e l’avevo bevuto. Solo una volta, e non potevo avere più di otto o nove anni, ma già allora sapevo che era una cosa che non dovevo fare.

    Ma volevo provarlo, non c’era nessuno che guardava e l’avevo bevuto. Saranno state due dita o poco più di quello che era nato come whisky e soda, ma le bollicine erano sparite e quando l’avevo in mano era per lo più ghiaccio sciolto.

    Il sapore mi piaceva. Doveva piacermi anche l’idea. E l’effetto? Non so se ne avesse avuto. E mi piaceva e mi dispiaceva allo stesso tempo aver fatto qualcosa di sbagliato. Nessuno sapeva che l’avevo fatto e nessuno l’avrebbe mai scoperto (e, nel caso, non so se si sarebbero arrabbiati più di tanto), ma io ero un bravo bambino, poco incline a fare ciò che non dovevo.

    Ricordo di aver preso due decisioni. La prima: che da allora in poi se lei avesse abbandonato un drink l’avrei lasciato dov’era, o l’avrei versato nel lavandino senza assaggiarlo. In secondo luogo, che il whisky era una Cosa Buona e che ne avrei bevuto a sazietà quando sarei stato abbastanza grande.

    A sazietà e anche di più.

    ∗ ∗ ∗

    Pur non essendo una gran bevitrice, mia madre fumava, e credo fosse una fumatrice più accanita del marito. Qualsiasi cosa facesse, in genere aveva una sigaretta accesa. Se stava cucinando un pasto o rifacendo il letto, c’era una sigaretta nelle vicinanze, che si consumava in un posacenere, in attesa che lei la riprendesse. Se era seduta e ascoltava la radio, aveva una sigaretta tra le dita e, dopo averla spenta, ne accendeva subito un’altra.

    Come mio padre, fumava le Chesterfield. E naturalmente le mie prime sigarette furono Chesterfield, prese di nascosto dal suo pacchetto. Questo avvenne qualche anno dopo il primo drink e, pur sapendo che anche questa era una trasgressione, non ricordo di esserne stato molto infastidito. Ciò che mi infastidiva era il sapore. Una boccata fu il massimo che riuscii a fare con quella prima sigaretta e, anche se nel corso degli anni ne provai altre e ne fumai alcune a metà, non sviluppai mai né il piacere per il fumo né una dipendenza da esso.

    Per Claudia Scudder era il contrario. Non la vidi mai accendere una sigaretta dal mozzicone di un’altra ma, a meno che non stesse mangiando o dormendo, in genere aveva una sigaretta accesa. Una stecca non le sarebbe durata più di tre giorni.

    Quindi tre o quattro pacchetti al giorno. Quando ero ragazzo una stecca costava due dollari, e un pacchetto da un distributore automatico costava un quarto di dollaro. Non abbiamo mai avuto molti soldi, ma anche una forte abitudine al tabacco non aveva un grande impatto finanziario. Nessuno aveva mai dovuto rinunciare a qualcosa per coprire il costo del pacchetto o della stecca successiva.

    Ho appena controllato, Google mi ha risparmiato un giro all’emporio qua vicino, e il costo medio di un pacchetto di sigarette a New York è di 11,96 dollari. Cioè quanto, sessanta centesimi a sigaretta? Quando mia madre le fumava costavano un centesimo l’una.

    Be’, che diamine, le sigarette e le soap opera le hanno fatto passare il tempo. Alla radio per anni, e poi a metà del mio secondo anno di liceo mio padre tornò a casa con un televisore Philco, e in breve tempo lei aveva trasferito la sua passione da semplici voci ed effetti sonori a personaggi che poteva realmente vedere nelle telenovelas.

    È il progresso.

    Sono state le sigarette a ucciderla, anche se per farlo hanno aspettato quasi nove anni dopo che l’alcol aveva ucciso lui.

    È faticoso ricordare tutto questo e scriverlo. Penso che farò una pausa.

    ∗ ∗ ∗

    Mio padre passava da un lavoro all’altro. Non sempre mi rendevo conto di quando finiva un lavoro e ne iniziava un altro, e non sempre sapevo cosa facesse. Per un po’ di tempo guidò un camion per le consegne per un panificio; me lo ricordo perché un paio di sabati viaggiai con lui.

    A un certo punto aveva un negozio di scarpe. Un negozio di quartiere, nel South Bronx. Vivevamo da un’altra parte quando lo comprò – in un’altra parte del Bronx, o forse era da qualche parte nel Queens – e un mese o due dopo che l’aveva aperto ci trasferimmo per essere più vicini al negozio, e a volte ci andavo a piedi dopo la scuola.

    Il negozio di scarpe fallì entro un anno. Ci trasferimmo altrove. Ora è tutto scomparso, l’isolato in cui si trovava il negozio e l’isolato in cui vivevamo, nell’appartamento superiore di una casa a due piani. Tutto è stato spianato per la costruzione della Cross-Bronx Expressway, e nel corso degli anni successivi non ho mai percorso quel tratto di autostrada senza ricordare il negozio di scarpe.

    Quindi i suoi lavori non sono mai durati troppo a lungo, ma nemmeno i periodi di disoccupazione. Era, per non voler sottilizzare troppo, un ubriacone, e l’alcol ha qualche effetto sulla storia lavorativa di una persona, che beva o meno durante l’orario di lavoro.

    Non so cosa potesse pensare del suo alcolismo. Avrebbe potuto descriversi, come ho sentito fare da molte persone, come un alcolizzato funzionale, e capisco il termine, anche se lo cambierei in malfunzionante.

    Il più delle volte, credo che abbia lasciato il lavoro di sua spontanea volontà. Erano lavori senza prospettive, erano noiosi, erano molto lavoro per troppo poco denaro. E sono sicuro che ci sono stati momenti in cui i lavori hanno abbandonato lui.

    Era un alcolizzato e un depresso, anche se non ho mai sentito applicare a lui nessuno dei due termini. Sembrava accettare la sua condizione; che le sue serate scorressero su un fiume di whisky, che nulla avrebbe mai funzionato del tutto per lui, che la breve fioritura di ottimismo che accompagnava ogni cambiamento di occupazione o di residenza lo avrebbe lasciato al punto di partenza, al punto di partenza di sempre.

    Ricordo una sera, in gran parte indistinguibile dalle altre. Lei era in cucina, lui sulla sedia in soggiorno con un bicchiere in mano. Three Feathers, Four Roses, o quel che era.

    Ah, Mattie, aveva detto, tenendo il bicchiere in alto e guardando la plafoniera attraverso di esso. Questo mondo è un posto vecchio e crudele. Un uomo ha bisogno di un po’ di aiuto per riuscire a tirare avanti.

    ∗ ∗ ∗

    Ho già raccontato in che modo è morto. Sono sicuro che sia finito in uno dei libri, e forse in più di uno, anche se, come ogni altra cosa nei libri, potrebbe essere stato leggermente modificato durante il racconto. I libri sono storie e, per quanto il loro contenuto sia reale, sono deliberatamente concepiti come storie, ognuna con un inizio, una parte centrale e una fine.

    Suppongo che anche le vite umane abbiano queste tre fasi, anche se in genere sono più chiare nei libri. La vita di Charlie Scudder è stata per lo più una via di mezzo, e credo che lo sia quasi per tutti, tranne che per il suo secondogenito, mio fratello Joe, che è passato in un batter d’occhio dall’inizio alla fine.

    Non penso quasi mai a questo fratello che non ho mai visto e non ho mai conosciuto. E ora, ottant’anni dopo, è come se fosse qui nella stanza con me. Proprio al limite della mia visione periferica, che si è pure ridotta nel corso degli anni.

    Che aleggia, per così dire, ai margini del pensiero.

    Non importa. La fine di mio padre avvenne una sera, dopo che era salito sulla metropolitana della Canarsie Line diretta a est, in qualche stazione della Quattordicesima Strada Ovest. Non so cosa lo avesse portato a Manhattan quella sera, o cosa lo avesse spinto a prendere quel particolare treno verso Brooklyn.

    Devo supporre che avesse bevuto. A quell’ora aveva sicuramente già bevuto un po’, e forse più di un po’. E a un certo punto si è spostato da un vagone all’altro del convoglio, o almeno si è spostato da un vagone al passaggio tra questo e quello successivo. Non era consentito fumare in metropolitana o in qualsiasi altro luogo nella stazione, ma non era insolito che un passeggero uscisse sulla banchina tra due vagoni per fumare una sigaretta veloce.

    Naturalmente anche questo era illegale. Si fumava pur sempre in metropolitana, anche se non si era più all’interno di uno dei vagoni, e si violava inoltre la regola che vietava ai passeggeri di viaggiare tra i vagoni. Tuttavia, non ho mai sentito di qualcuno che sia stato citato per questo, o anche solo ammonito.

    Forse il treno si era fermato o era partito all’improvviso, o aveva sbandato. O forse no. Che differenza fa? Lui cadde e fu travolto da un numero sufficiente di vagoni da costringere l’impresa di onoranze funebri a tenere la bara chiusa.

    Al funerale c’era più gente di quanta me ne sarei aspettata. La famiglia, naturalmente, ma anche molte persone che non avevo mai visto, né vidi più. Uomini, per la maggior parte. Suppongo che lo conoscessero per via di qualcuno dei suoi lavori.

    Aveva quarantatré anni. Era la fine di agosto, l’estate tra il mio secondo e terzo anno

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1