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Spera di Morire: Matthew Scudder, #15
Spera di Morire: Matthew Scudder, #15
Spera di Morire: Matthew Scudder, #15
E-book421 pagine5 ore

Spera di Morire: Matthew Scudder, #15

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Info su questo ebook

"Byrne e Susan Hollander fanno una bella vita. Lui è un avvocato, lei una scrittrice. La loro casa di pietra a Manhattan, che vale tre milioni di dollari, è a due passi dal Lincoln Center. E lì, in quella particolare notte, assistono a un concerto di beneficenza. Dopo il concerto tornano a casa a piedi. E qua termina la loro bella vita. Interrompono un furto in corso nella loro casa e vengono uccisi dai delinquenti. Dopo pochi giorni, la polizia trova i due colpevoli, entrambi morti, apparentemente per omicidio-suicidio. Caso ufficialmente chiuso. Ma, non ufficialmente, Matt Scudder si interessa alla vicenda quando la figlia degli Hollander lo assume per esplorare la possibilità che vi sia coinvolta una terza persona. Gli indizi sono tenui, per la maggior parte circostanziali, ma Scudder segue il suo istinto, affinato da quarant'anni di indagini nella polizia.

 

"Block, che scrive best-seller e raccoglie premi nella stessa misura, segue la maggior parte delle formule del genere poliziesco, eppure riesce a portarvi una profondità e una potenza rare. Scudder, comparso nei primi romanzi come un ex poliziotto alcolizzato che si crogiola nell'autocommiserazione, si è evoluto in un consapevole osservatore della vita moderna, sobrio e a volte cupo. I delitti nei romanzi di Scudder sono il mezzo per portarci negli angoli più bui dell'esperienza umana. Con Matt Scudder come guida, emergiamo da queste visite nel lato oscuro della vita un po' più timorosi, ma sempre arricchiti dall'esperienza."

 

~Wes Lukowsky in Booklist

#

"Questo è il quindicesimo romanzo in venticinque anni che ha per protagonista Matthew Scudder, e i lettori della serie noir di Block sanno che cosa aspettarsi. C'è tutto: una perfetta rappresentazione di luoghi, suoni e odori di New York; visite alle riunioni degli Alcoolisti Anonimi nei seminterrati delle chiese; il bar di Mick Ballou, e i personaggi fissi, come Ballou; TJ, il giovane ragazzo di strada, ed Elaine, l'influenza civilizzatrice.

 

"In questa ultima vicenda, Matt ed Elaine assistono a un concerto di beneficenza al Lincoln Center. Allo stesso concerto vi è una coppia che poco dopo viene uccisa nel proprio appartamento dell'Upper West Side. Successivamente, i due assassini sono essi stessi trovati morti a Brooklyn.

 

"Senza che nessuno glielo abbia veramente chiesto, e non avendo di meglio da fare, Scudder inizia a interessarsi a questo caso, e l'intera vicenda si chiarisce davanti ai suoi occhi, fino alla sconcertante conclusione. Ogni tanto, la voce narrante del capitolo è quella del vero assassino, il che aggiunge un elemento intrigante. Ma chi cerca un'azione mozzafiato non la troverà. Lo stile è rilassato, e i personaggi e le pedine del gioco sono importanti tanto quanto la trama.

 

"Raccomandato, in particolare per le biblioteche pubbliche, dove verrà sicuramente richiesto dai lettori."

 

~Fred Gervat in Library Journal

LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2021
ISBN9781393261957
Spera di Morire: Matthew Scudder, #15
Autore

Lawrence Block

Lawrence Block is one of the most widely recognized names in the mystery genre. He has been named a Grand Master of the Mystery Writers of America and is a four-time winner of the prestigious Edgar and Shamus Awards, as well as a recipient of prizes in France, Germany, and Japan. He received the Diamond Dagger from the British Crime Writers' Association—only the third American to be given this award. He is a prolific author, having written more than fifty books and numerous short stories, and is a devoted New Yorker and an enthusiastic global traveler.

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    Anteprima del libro

    Spera di Morire - Lawrence Block

    Capitolo 1


    Era l’ultimo lunedì di luglio ed era una bellissima sera estiva. Gli Hollander arrivarono al Lincoln Center tra le sei e le sei e mezza. Forse si erano dati appuntamento da qualche parte, accanto alla fontana della piazza, o nell’atrio, ed erano saliti insieme. Byrne Hollander era un avvocato, socio di una ditta con uffici nell’Empire State Building, e forse arrivava direttamente da là. La maggior parte degli uomini indossava un completo, quindi non si sarebbe dovuto cambiare.

    Era uscito dall’ufficio verso le cinque, e la loro casa era sulla 74esima Ovest, tra la Columbus e la Amsterdam, perciò aveva avuto anche il tempo di andare prima a casa a prendere la moglie. Forse erano arrivati al Lincoln Center a piedi: è un chilometro, una passeggiata di non più di dieci minuti.

    Anche Elaine e io vi eravamo arrivati a piedi dal nostro appartamento tra la Nona e la 57esima, ma gli Hollander abitavano un po’ più lontano, e forse non avevano avuto voglia di camminare. Avrebbero potuto prendere un taxi o un autobus alla Columbus.

    In qualunque modo fossero arrivati fin là, sarebbero stati in tempo per un drink prima di cena. Lui era un uomo alto, uno e ottantacinque, che aveva superato i cinquanta da un paio d’anni, con una mascella forte e una fronte alta. Da giovane aveva praticato l’atletica e ancora frequentava regolarmente una palestra appena fuori dal centro. Se in gioventù era sembrato affamato, ora aveva un’aria florida. I capelli gli stavano diventando grigi sulle tempie, e i suoi occhi marroni si sarebbero potuti definire attenti, forse perché preferiva ascoltare piuttosto che parlare.

    Anche lei era silenziosa: una ragazza carina che l’età aveva trasformato in una bella donna. I capelli, neri con riflessi rossi, le arrivavano alle spalle e li portava pettinati all’indietro. Aveva sei anni meno del marito ed era quasi una spanna più bassa, benché i tacchi alti compensassero in parte la differenza. Nei venti e passa anni di matrimonio aveva messo su qualche chilo, ma una volta era magra come un’indossatrice, e ora aveva una bella figura.

    Me li potevo immaginare, che gironzolavano al primo piano della Avery Fisher Hall, con in mano un bicchiere di vino e mentre prendevano una tartina da un vassoio. È anche possibile che li avessi visti, che magari avessi scambiato un cenno e un sorriso con lui, o avessi notato lei come si nota una donna attraente.

    Eravamo là come loro, insieme a qualche centinaio di altre persone. Più tardi, quando vidi le loro foto, pensai che mi sembravano vagamente familiari. Ma questo non significa che li avessi visti quella notte. Avrei potuto vederli, uno dei due o entrambi, durante altre serate al Lincoln Center o alla Carnegie Hall, o mentre passeggiavano nei dintorni. Dopo tutto abitavamo a nemmeno due chilometri di distanza. Avrei potuto incrociarli dozzine di volte senza mai veramente farci caso, come sarebbe potuto accadere quella sera.

    Vidi persone che conoscevo. Elaine e io parlammo brevemente con Ray e Michelle Gruliow, ed Elaine mi presentò a una donna che aveva conosciuto a un corso che aveva frequentato anni prima al Metropolitan, e a una coppia terribilmente seria che erano stati suoi clienti al negozio. Io le presentai Avery Davis, il magnate delle agenzie immobiliari, che avevo conosciuto al Club dei Trentuno, e uno dei ragazzi che offrivano i vassoi degli antipasti, che fa parte del mio gruppo di zona degli Alcolisti Anonimi che si ritrova nella chiesa di S. Paolo. Si chiamava Felix, e non conoscevo il suo cognome, come immagino lui non conoscesse il mio.

    E vedemmo persone conosciute, ma non da noi di persona, come Barbara Walters e Beverly Sills.

    L’occasione era l’apertura del festival di musica estivo di New York, Mostly Mozart, e i cocktail e la cena erano il ringraziamento del festival ai suoi finanziatori, che avevano ottenuto quella qualifica con donazioni di almeno 2500 dollari per le spese del festival.

    Negli anni in cui lavorava come squillo, Elaine aveva avuto l’abitudine di risparmiare denaro e investirlo in proprietà da affittare sparse per la città. Il mercato immobiliare di New York è sempre stato un campo in cui si guadagna, anche per chi sbaglia tutto; ma lei aveva fatto quasi tutto nel modo giusto e ora se la cavava molto bene economicamente.

    Era stata in grado di comperare il nostro appartamento al Parc Vendome e vi sono abbastanza entrate dalle sue case in affitto nel Queens, di modo che, per quanto riguarda il denaro, nessuno di noi deve lavorare. Naturalmente, io ho il mio lavoro come detective, e lei ha il negozio sulla Nona Avenue, a qualche isolato da noi. I nostri lavori ci piacciono e troviamo sempre il modo di impiegare il denaro che ci procurano. Ma se nessuno mi assumesse, o comperasse i suoi dipinti e le sue antichità, non dovremmo saltare i pasti.

    A entrambi piaceva l’idea di devolvere una parte delle nostre entrate. Anni fa avevo preso l’abitudine di infilare il dieci per cento dei miei guadagni nella prima cassetta per le elemosine che trovavo. Nelle mie offerte sono ora diventato un po’ più sofisticato, ma trovo sempre il modo di farle.

    Elaine ama sostenere l’arte. Va a opere, aperture di mostre e avvenimenti ai musei più di me (e a meno partite e incontri di pugilato), ma entrambi amiamo la musica, sia classica che jazz. I locali jazz non vi chiedono contributi, li chiamano semplicemente rimborsi spese, ma ogni anno noi stacchiamo molti assegni per il Lincoln Center e la Carnegie Hall. Questi ci incoraggiano con vantaggi di vario tipo, e questa serata era uno di quelli: dei drink, una cena al tavolo e posti gratis per il concerto di apertura.

    Verso le sei e trenta ci mettemmo al tavolo che ci era stato assegnato, dove fummo raggiunti da altre tre coppie, con le quali scambiammo i nomi e chiacchierammo amabilmente per tutto il pasto. Se mi sforzassi, potrei anche ricordare la maggior parte – se non tutti – dei nomi dei nostri commensali, ma a che servirebbe? Non li abbiamo più visti da allora, e non compaiono in questa storia.

    Tra loro non vi erano Byrne e Susan Hollander. Loro erano a un altro tavolo, situato, come seppi in seguito, all’altra estremità della sala. Forse li avevo visti prima, ma era poco probabile che li avessi adocchiati durante la cena. I loro posti al concerto erano solo un paio di file davanti a noi, ma all’estremità destra della zona centrale, mentre noi eravamo verso la sinistra. Quindi, a meno che ci fossimo incrociati mentre uscivamo durante l’intervallo, non credo che li avremmo visti affatto.

    La cena fu ottima, e la compagnia al tavolo piacevole.

    Anche il concerto fu bello e, come annunciato dal titolo della serata, comprendeva vari pezzi di Mozart, tra cui uno dei suoi concerti per piano e la Sinfonia di Praga. Vi era anche un brano per orchestra di Antonín Dvorák, e l’opuscolo della serata ricordava alcuni rapporti tra lui e Mozart, o forse tra lui e Praga, dato che Dvorák era cecoslovacco.

    Io ad ogni modo non vi prestai troppa attenzione. Mi godetti semplicemente la musica e, quando fu terminata, tornammo a casa a piedi.

    Anche gli Hollander fecero lo stesso? Difficile saperlo. Non fu trovato alcun tassista che riferisse di averli avuti come clienti, ma neppure comparve qualcuno che ricordasse di averli visti per la strada. Avrebbero potuto prendere un bus, ma anche di questo non si trovarono testimoni.

    Io credo probabile che fossero rientrati a piedi. Lei aveva scarpe col tacco alto, e questo avrebbe potuto diminuire il suo entusiasmo per una camminata di un chilometro; ma entrambi erano in buona forma ed era una notte perfetta per una tranquilla passeggiata fino a casa: non troppo calda, non troppo umida. Dopo un concerto vi sono sempre molti taxi in arrivo, ma vi sono anche più persone che cercano di prenderne uno, anche col bel tempo. Certamente per loro sarebbe stato più semplice camminare, ma non vi è modo di sapere con certezza come fossero tornati a casa.

    Terminato il concerto, dopo l’ultimo inchino del direttore d’orchestra e dopo che i musicisti avevano lasciato il palcoscenico, a Byrne e Susan Hollander restava circa un’ora e mezza di vita.

    • • •

    Benché, come ho detto, non possa esserne certo, nella mia immaginazione li vedo camminare verso casa. Scambiano qualche parola – sulla musica, su qualcosa di stravagante detto da uno dei loro compagni di cena, sul piacere di passeggiare in una notte come quella in una città come la loro. Ma per la maggior parte del tempo restano in silenzio, un silenzio amichevole come quello noto alle coppie sposate da molto. E loro sono vissuti insieme tanto a lungo che condividere il silenzio è altrettanto intimo quanto scambiarsi pensieri.

    Quando traversano la strada, lui le prende la mano mentre lei cerca quella di lui. Si tengono per mano per quasi tutto il tragitto.

    La loro abitazione è una casa di pietra sulla parte della 74esima strada più vicina al centro, a circa metà di un isolato. La casa è di loro proprietà e ne occupano gli ultimi tre piani. Il piano terra e il seminterrato sono affittati a un grosso negozio di antiquariato. Quando la comperarono ventisei anni fa con i proventi di un’eredità, la proprietà era costata loro poco più di un quarto di milione di dollari, e l’affitto ricavato dal negozio di antichità bastava a coprire le tasse e le spese di gestione. Ora la casa vale almeno dieci volte quello che l’avevano pagata, l’affitto mensile del negozio è di 7500 dollari e copre ben più delle loro tasse.

    Se la casa non fosse stata già loro, dicevano spesso, non se la sarebbero potuta permettere. I guadagni di lui come avvocato sono notevoli – era riuscito a mantenere la figlia quattro anni in una università privata senza accendere un mutuo e nemmeno intaccare i loro risparmi – ma non sarebbe certo stato in grado di comperare una casa da tre milioni e mezzo di dollari.

    Non serviva loro molto spazio. Quando avevano comperato la casa lei era incinta. Al quinto mese perse il bambino, ma rimase di nuovo incinta entro un anno ed ebbe una figlia, Kristin. Due anni dopo nacque un maschietto, Sean; ma a undici anni restò ucciso mentre giocava a baseball, colpito accidentalmente da una mazza. Era stata una morte senza senso che lasciò entrambi sconvolti. Nell’anno che seguì, lui iniziò a bere di più, e lei ebbe una storia con un amico del marito. Ma il tempo passò, le ferite guarirono, il bere tornò normale e lei pose fine alla relazione. Quello fu il primo e ultimo vero periodo di crisi del loro matrimonio.

    Susan è una scrittrice, e ha pubblicato due romanzi e decine di storie brevi. È un’attività non redditizia: lei scrive lentamente e le sue storie finiscono in riviste che pagano in visibilità e copie per l’autore più che in dollari, e i suoi due romanzi, benché recensiti favorevolmente, avevano venduto ben poco e sono ora fuori catalogo. Ma questo lavoro la soddisfa a prescindere dal guadagno, e lei sta al tavolo cinque o sei mattine la settimana, sforzandosi di concentrarsi e trovare la parola giusta.

    Lei ha un ufficio-studio, in cui scrive, al piano più alto. La loro stanza da letto è al secondo piano, dove ci sono anche la camera di Kristin e l’ufficio di Bryne. Kristin, che ha ventitré anni, era tornata a vivere da loro dopo essersi laureata alla Wellesley. Dopo un anno era andata a vivere col suo ragazzo, poi era tornata quando la loro relazione era terminata. Spesso passa la notte fuori e parla di trovarsi un posto solo per lei, ma gli affitti sono altissimi, i posti decenti sono difficili da trovare e la sua stanza è familiare, conveniente e comoda. I genitori sono contenti di averla con loro.

    Il più basso dei piani che occupano, il primo, è quello che veniva chiamato il piano della sala, con stanze più ampie e soffitti più alti del resto della costruzione. Gli Hollander vi hanno ricavato una vasta cucina nella quale si può mangiare, e una sala da pranzo formale, che hanno trasformato in una biblioteca con zona per musica e TV. Poi vi è un soggiorno, con un grande tappeto orientale, dei mobili della Arts and Craft più comodi di quanto sembri, e un camino funzionante che ai lati ha due scaffali di libri che arrivano al soffitto. Il soggiorno dà sulla 74esima Ovest, e le pesanti tende delle finestre sono tirate.

    Dietro quelle tende – uno seduto in una poltrona di quercia coperta di pelle marrone, l’altro che cammina avanti e indietro davanti al caminetto – due uomini stanno aspettando.

    • • •

    Gli uomini sono nella casa da più di un’ora. Vi sono penetrati più o meno mentre Byrne e Susan Hollander stavano tornando ai loro posti dopo l’intervallo, e quando il concerto era terminato essi avevano già finito di frugare tutta la casa. Cercavano qualcosa da rubare, e non si preoccupavano della confusione che stavano creando, rovesciando cassetti, ribaltando tavoli, tirando i libri giù dagli scaffali. Hanno trovato dei gioielli nel cassetto di un comò e in un cofanetto, e contanti nel cassetto chiuso di una scrivania e sul ripiano di un armadio, argenteria in una cesta in cucina e altri oggetti di valore qua e là per la casa. Hanno riempito un paio di federe per cuscini con quello che avevano preso, ed esse sono nel soggiorno. Potrebbero mettersele in spalla e andarsene prima che gli Hollander tornino a casa; ora, mentre uno è seduto e l’altro cammina su e giù, me li immagino mentre pensano proprio questo. Per una notte hanno già fatto un buon lavoro.

    Potrebbero andare via adesso.

    Ma no, è troppo tardi. Gli Hollander sono arrivati, stanno salendo i gradini di marmo della mezza rampa di scale davanti alla loro porta d’ingresso. Percepiscono una presenza estranea all’interno? È possibile. Susan è una persona creativa, artistica e intuitiva. Suo marito è convenzionalmente più pratico, ma la sua esperienza professionale gli ha insegnato a fidarsi del suo istinto.

    Lei ha una sensazione strana e gli prende il braccio. Lui si volta e la guarda, può quasi leggerle in faccia i pensieri. Ma tutti noi abbiamo a volte delle sensazioni, dei presentimenti, dei timori vagamente inquietanti. Quasi sempre non sono nulla e impariamo a ignorarli, a trascurare il nostro personale sistema di allarme ancestrale.

    A Chernobyl, forse ricordate, i quadranti indicavano un problema, ma gli uomini che li leggevano decisero che erano difettosi, e li ignorarono.

    Byrne ha la chiave in mano, la infila nella serratura. All’interno, i due uomini ne sentono il rumore. Quello seduto si alza, quello che camminava va verso la porta. Byrne gira la chiave, spinge la porta, fa entrare la moglie per prima e la segue all’interno.

    Ora si accorgono dei due uomini, ma è troppo tardi.

    • • •

    Potrei dirvi che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto. Che gli Hollander li hanno pregati e hanno cercato di convincerli, e che i due uomini hanno fatto ciò che avevano già deciso. Che hanno sparato a Byrne tre volte con una calibro .22 automatica col silenziatore, due volte nel cuore e una nella tempia. Che uno di loro, quello che camminava, ha violentato Susan davanti e di dietro, eiaculando nel suo ano, e poi le ha cacciato un attizzatoio nella vagina, prima che l’altro uomo, quello che prima sedeva paziente, per pietà o per il desiderio di andarsene, la afferrasse per i lunghi capelli con tanta forza da strappargliene alcuni, e le tagliasse la gola con un coltello che aveva trovato in cucina. Era di acciaio temperato, con la lama seghettata, e il fabbricante assicurava che poteva tagliare anche le ossa.

    Ho immaginato tutto questo nello stesso modo in cui ho immaginato che gli Hollander si tenessero per mano traversando la strada, come ho immaginato che i due uomini li aspettassero, uno seduto nella poltrona, l’altro che camminava davanti al camino. Ha lasciato che la mia fantasia partisse dai fatti, senza contraddirli ma aggiungendo quello che manca. Non so, ad esempio, se qualche istinto avesse avvisato gli Hollander del pericolo che li attendeva in casa. Non so se il violentatore e chi impugnò il coltello fossero la stessa persona. Forse lo stesso uomo la violentò e la uccise. Forse la uccise mentre era dentro di lei per aumentare il proprio piacere, forse no.

    Susan Hollander, alla sua scrivania all’ultimo piano della loro casa, usava la propria fantasia per scrivere le sue storie. Ne ho lette alcune, e sono trame intricate e complesse, alcune immaginate a New York, altre nel vecchio West, e almeno una ambientata in un anonimo paese europeo. I suoi personaggi sono nello stesso tempo introspettivi ma spesso avventati e impulsivi. Per me non sarebbero persone gradevoli da conoscere, ma sono convincenti, e sono chiaramente creature della sua fantasia. Lei li ha immaginati e ha dato loro vita sulle pagine.

    Si ritiene che gli scrittori usino l’immaginazione, ma questa attività della mente fa parte nello stesso modo dei requisiti di un poliziotto.

    Gli investigatori potrebbero più facilmente rinunciare alla pistola o al loro taccuino che alla loro immaginazione. Per quanto essi, pubblici o privati, si basino tutti sui fatti, è la nostra capacità di riflettere e di immaginare che ci conduce a una soluzione. Quando due poliziotti discutono un caso sul quale lavorano, parlano meno di quello che sanno per certo che non di ciò che immaginano. Elaborano scenari di ciò che potrebbe essere accaduto, e poi cercano fatti che confermino o escludano le loro ipotesi.

    Quindi io ho immaginato gli ultimi momenti di Byrne e Susan Hollander. Con la fantasia sono ovviamente andato molto oltre ciò che ho ora ritenuto necessario riassumere. I fatti stessi sono molto più numerosi – gli schizzi di sangue, le tracce di sperma, le prove fisiche pazientemente raccolte, registrate e valutate dalla squadra della Scientifica. Ma egualmente, vi sono domande a cui le prove materiali non possono rispondere in modo inequivocabile. Per esempio, chi dei due Hollander morì per primo?

    Ho suggerito che abbiano sparato a Byrne Hollander prima di violentare la moglie, ma sarebbe potuto essere anche il contrario. Le prove fisiche ammettono entrambe le possibilità. Forse dovette vederla violata e udire le sue urla, prima che la prima pallottola lo rendesse pietosamente cieco e sordo. O forse lei vide uccidere suo marito prima di essere afferrata, denudata e violentata. Posso immaginare entrambe le cose, e le ho in effetti immaginate in ogni modo possibile.

    Ecco ciò che preferisco immaginare. Quasi immediatamente dopo essere entrati in casa e avere chiuso la porta, uno dei due uomini spara tre volte a Byrne Hollander, ed egli è morto prima che l’ultima pallottola penetri nel suo corpo, morto prima ancora di toccare il pavimento. Lo shock basta a produrre in sua moglie una esperienza di ‘fuori-dal-corpo’ e Susan Hollander, disincarnata, galleggia vicino al soffitto, fisicamente ed emotivamente distaccata, mentre abusano del suo corpo sul pavimento sotto di lei. Poi, quando le tagliano la gola, quel corpo muore, e la parte di lei che stava osservando viene attirata in quel lungo tunnel che sembra essere presente in tutte le esperienze di premorte. C’è una luce bianca, lei è attirata nella luce, e vi trova le persone che l’hanno amata e che la attendono. I suoi nonni, ovviamente, e suo padre, che morì quando lei era piccola. Sua madre, morta solo due anni prima, e naturalmente suo figlio, Sean. Non vi è stato giorno nel quale non abbia pensato a Sean, e ora egli è lì e la attende.

    E vi è anche suo marito. Sono rimasti lontani solo per pochi minuti, in realtà, e ora saranno per sempre insieme.

    Be’, questo è come preferisco immaginare le cose. L’immaginazione è la mia, e penso di poterne fare quello che voglio.

    Capitolo 2


    Fu la loro figlia, Kristin, a trovare i corpi. Aveva passato la serata con degli amici a Chelsea e voleva restare a dormire nell’appartamento di un’amica a London Terrace, e questo avrebbe significato indossare gli stessi abiti la mattina dopo, al lavoro, o correre prima a casa per cambiarsi. Un uomo che aveva conosciuto da poco si offrì di darle un passaggio fino a casa, e lei ne approfittò. Pochi minuti dopo l’una egli accostò, parcheggiando in doppia fila, davanti alla casa della 74esima Ovest.

    Lui avrebbe voluto accompagnarla fino alla porta, ma lei lo fermò. Tuttavia, egli attese che lei superasse il marciapiede e salisse i gradini, attese che lei usasse la chiave, attese che fosse entrata. Ebbe qualche presentimento? Probabilmente no. Immagino fosse per abitudine, perché gli era stato insegnato così: quando si porta a casa una donna, si attende che lei sia entrata sana e salva prima di andarsene.

    Quindi egli era ancora lì, accingendosi a ripartire, quando ella riapparve sulla soglia, col volto stravolto dall’orrore. Lui fermò il motore e scese a vedere cosa fosse successo.

    • • •

    La notizia si diffuse troppo tardi perché i giornali del mattino la riportassero, ma fu il primo servizio dei notiziari televisivi locali, ed Elaine e io ne venimmo a conoscenza durante la colazione. La reporter di New York One riferì che le vittime avevano assistito a un concerto al Lincoln Center, quella sera, così capimmo di avere ascoltato la stessa musica insieme a loro. Quello che allora non sapevamo era che erano stati anche al ricevimento e alla cena dei sostenitori. Era inquietante sapere che eravamo stati nello stesso auditorium in cui erano loro, con altre migliaia di persone. Sarebbe stato molto più inquietante renderci conto che avevamo tutti preso parte a una riunione notevolmente più ristretta.

    Il duplice omicidio era qualcosa di più di una notizia da prima pagina. Giornalisticamente parlando, era una storia meravigliosa. Le vittime, un noto avvocato e una scrittrice che aveva pubblicato romanzi, erano persone rispettabili e colte, uccise brutalmente nella loro casa. Lei era stata violentata, fatto che per i lettori di tabloid è sempre un forte motivo di interesse, e sottoposta a una seconda violenza con l’attizzatoio del camino. In tempi meno espliciti di questi, l’ultimo dettaglio sarebbe stato tenuto nascosto. La polizia di solito non comunica cose del genere, per potere eliminare più facilmente false confessioni, ma questa volta la stampa ne venne a conoscenza. Il Times non la riportò forse per decenza, e i notiziari TV ne accennarono senza entrare nei particolari; ma il News e il Post non ebbero queste remore.

    Una ricerca nella zona, effettuata dalla polizia, scoprì una vicina che aveva visto due uomini uscire da una casa, probabilmente quella degli Hollander, tra la mezzanotte e l’una. Li aveva notati perché ognuno aveva sulla spalla un sacco per la biancheria. Non aveva giudicato sospetta la loro vista, non pensando che fossero ladri, ma ritenendo che fossero due amici che si recavano alla lavanderia automatica all’angolo con la Amsterdam, aperta 24 ore al giorno. Si ricordava di avere pensato che fosse una vergogna che dei giovani dovessero lavorare fino a quelle ore, e che avessero tempo per fare il bucato solo durante la notte.

    La descrizione che fornì era vaga, e il disegnatore della polizia non poté ricavare nessun identikit, poiché la donna non li aveva mai visti bene in faccia. Si ricordava che non erano né alti né bassi, né grassi né magri. Pensava, benché non potesse giurarlo, che uno dei due avesse la barba.

    La Scientifica ritenne che potesse avere ragione. Avevano recuperato un paio di peli che quasi sicuramente provenivano dalla barba di un uomo, e non serviva il DNA per sapere che non erano di Byrne Holander, il quale era glabro.

    Secondo la donna, era possibile che uno dei due zoppicasse leggermente.

    Ricordava che l’uomo camminava in modo strano, ma in quel momento l’aveva attribuito al peso del sacco di biancheria che trasportava.

    Forse era così, o forse zoppicava. Non ne era sicura.

    Quando si ha la fortuna di avere una storia che vende, la si tiene in prima pagina anche se non ci sono nuovi sviluppi. Il Post fu quello che mostrò la maggior fantasia, pubblicando addirittura uno schizzo del sospetto, con il titolo ‘Avete visto questa persona zoppicare’? Rappresentava un uomo con una barba mefistofelica e un volto vagamente diabolico, un sacco gettato in spalla, che camminava furtivamente. Verso Amsterdam Avenue, suppongo, non verso Betlemme. L’implicazione, ovviamente, era che fosse un identikit della polizia, mentre non lo era affatto. Avevano ordinato a qualche disegnatore della redazione di metterlo insieme, ed eccolo in prima pagina, con l’invito ai lettori del Post di dare un nome a quel volto immaginario.

    Naturalmente, molti lo fecero, intasando la linea della polizia, il cui numero era stato gentilmente fornito dal giornale.

    Quando si riceve una telefonata che riguarda un caso importante, non la si può semplicemente ignorare, anche se è il risultato di una fantasia giornalistica.

    Vi è sempre la possibilità che la segnalazione sia autentica, e che chi chiama abbia usato lo schizzo come scusa per indicare alla polizia qualcuno di cui egli sospetta. Ogni telefonata è controllata, non perché ci si aspettino risultati, ma perché sanno come finirebbero se la soffiata che hanno ignorata si rivelasse essere quella giusta. La prima cosa che si impara alla Polizia di New York, sul lavoro se non nelle lezioni dell’accademia, è di pararsi il culo. E il lavoro ve lo insegna di continuo, più e più volte.

    Uno di quelli che chiamarono disse che la polizia avrebbe dovuto controllare un tizio di nome Carl Ivanko. Non è che lo schizzo gli somigliasse, in realtà, perché la faccia di Carl era un po’ sbilenca e più lunga e magra di quella del disegno. E disse di non sapere se Carl avesse la barba. A volte l’aveva, a volte no, e lui non lo vedeva da un po’. Se anche non lo avesse mai più rivisto, be’, ne sarebbe stato lieto.

    Quindi era stata la descrizione, più che il disegno, che gli aveva fatto venire in mente Carl, benché qualcosa in esso lo avesse stimolato, pur se non somigliava molto a Carl. Il fatto era che Carl aveva qualcosa che non andava nell’anca, e questo a volte gli provocava un’andatura strana. Non era che proprio zoppicasse, ma in fin dei conti camminava in un modo particolare.

    Però molte persone hanno un’anca difettosa o un ginocchio con qualche problema, e forse avevano avuto la barba. Quello che gli aveva fatto pensare a un collegamento era stato l’attizzatoio, ma non si basava su qualcosa che fosse successo veramente, per quanto lui ne sapesse. Era una cosa che Carl aveva detto, e più di una volta. Riferito a una donna che non aveva ricambiato il suo interesse, e a un’altra che aveva attirato la sua attenzione per la strada. Mi piacerebbe proprio, aveva detto Carl, prendere un attizzatoio caldo e cacciarglielo su per la fica.

    O una frase simile.

    Nessuno si sorprese molto quando si seppe che Carl Ivanko era schedato.

    La documentazione di quando era minorenne era riservata, ma da allora era stato arrestato due volte per furto con scasso. Aveva patteggiato entrambe le volte, ottenendo la sospensione della pena la prima volta e facendo tre anni di galera per la seconda accusa. Una volta era stato anche fermato per un tentativo di stupro, ma l’accusa era stata lasciata cadere quando la vittima non era riuscita a identificarlo in un confronto ‘all’americana’.

    Il suo ultimo indirizzo noto era la casa della madre nella Sesta Strada Est, al terzo piano, con un ristorante indiano al piano terra. Era un isolato tra la Prima e la Seconda Strada, dove quasi ogni edificio ha un ristorante indiano al pianterreno. La signora Ivanko non viveva più là, e nessuno nella casa sapeva dove fosse Carl, e tanto meno che fine avesse fatto.

    Vi sono molti modi per trovare qualcuno se lo si vuole veramente, ma Carl si fece trovare da solo quasi prima che la polizia potesse iniziare a provarci. Agenti della polizia di Brooklyn, in risposta a una lamentela per un odore nauseante che proveniva da un appartamento chiuso al piano terra in Coney Island Avenue, avevano sfondato la porta e avevano trovato due maschi caucasici, età tra i venti e i trentacinque, apparentemente morti da diversi giorni. I documenti dei morti, poi confermati dalle impronte digitali, li identificavano come Jason Paul Bierman e Carl Jon Ivanko. Il portafoglio di Bierman conteneva una patente di guida con l’indirizzo di Coney Island Avenue. Ivanko sembrava non possedere una patente, ma un generico documento di identità studentesco nel suo portafoglio forniva qualche informazione. Era di quelli che si comperano nei negozi di souvenir, e l’università di Ivanko era indicata come ‘Università della Strada’ e il suo indirizzo era ‘Fogne di New York’. Vi era uno spazio per indicare chi avvertire in caso di incidente o malattia. Il suggerimento di Ivanko era stato ‘Obitorio Comunale’.

    Entrambi gli uomini erano morti per ferite da arma da fuoco. A Ivanko, disteso sul nudo pavimento, avevano sparato due volte nel petto e una volta nella tempia, in modo più o meno eguale a Byrne Hollander e, come stabilirono i confronti balistici, con la stessa automatica calibro .22. La polizia non dovette faticare per trovarla: Jason Bierman l’aveva ancora in mano. Era seduto per terra, in un angolo della stanza, la schiena contro il muro, la pistola in grembo. Apparentemente si era infilato in bocca la canna della pistola, l’aveva inclinata verso l’alto e si era sparato un colpo che aveva attraversato il palato e gli era entrato nel cervello. Si dice

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