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La scelta di Josef
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La scelta di Josef
E-book473 pagine6 ore

La scelta di Josef

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Info su questo ebook

Amsterdam, 1941: chi salva una vita, salva il mondo intero

1941, Amsterdam. Nella città occupata dai nazisti, il professor Josef Held sembra vivere una vita tranquilla e solitaria. Insegna matematica all’università e la sua unica occasione di svago è il pranzo settimanale con la nipote, Ingrid. Ha scelto di condurre un’esistenza isolata, perché non riesce a perdonarsi per la tragica morte dell’amata moglie. Un giorno, però, il destino lo avvicina a Hannah, una sua collega. Ma, con il regime nazista che soffoca ogni barlume di umanità, non è sicuro di potersi fidare del tutto di lei. Perché la verità è che Josef non è il silenzioso vedovo che tutti credono sia. E soprattutto non vive davvero da solo. Quando sono iniziate le retate naziste, infatti, ha offerto impulsivamente un rifugio nella sua soffitta a un suo studente ebreo, Michael Blum. E quando Michael si ammala di tifo, Josef contrae a sua volta la malattia mortale pur di ottenere le medicine necessarie a curarlo. È un atto di coraggio e resistenza che cambierà ogni cosa. La guerra infuria e, mentre sua nipote Ingrid si fidanza con un ufficiale nazista, il rapporto di Josef con Hannah diventa via via più intenso. Quale prezzo sarà disposto a pagare per proteggere i segreti che nasconde?

Un’autrice da oltre 200.000 copie

Un’emozionante storia di coraggio
Un grande successo internazionale

Rischieresti la tua vita per salvare una sola persona?

«Una storia dura, che tuttavia riesce a trasmettere un’immensa speranza a chi legge.»

«Una singola scelta può cambiare per sempre il corso di una vita. Un libro indimenticabile, di grande ispirazione.»
Suzanne Kelman
È una scrittrice e sceneggiatrice pluripremiata, i cui riconoscimenti includono il premio per la migliore sceneggiatura dell’L.A. International Film Festival 2011, il Gold Award del California Film Awards 2012 e il Van Gogh Award dell’Amsterdam Film Festival 2012. Nata nel Regno Unito, ora risiede nello Stato di Washington.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788822753458
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    Anteprima del libro

    La scelta di Josef - Suzanne Kelman

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    PARTE PRIMA

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    PARTE SECONDA

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    PARTE TERZA

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Capitolo trentotto

    Capitolo trentanove

    Capitolo quaranta

    Capitolo quarantuno

    PARTE QUARTA

    Capitolo quarantadue

    Capitolo quarantatré

    Capitolo quarantaquattro

    Capitolo quarantacinque

    Capitolo quarantasei

    Capitolo quarantasette

    Capitolo quarantotto

    Capitolo quarantanove

    Capitolo cinquanta

    Capitolo cinquantuno

    Capitolo cinquantadue

    Capitolo cinquantatré

    Capitolo cinquantaquattro

    Capitolo cinquantacinque

    Capitolo cinquantasei

    Capitolo cinquantasette

    Capitolo cinquantotto

    Capitolo cinquantanove

    Capitolo sessanta

    Una lettera da parte di Suzanne

    Ringraziamenti

    Fonti di ricerca

    narrativa_fmt.png

    2800

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: A View Across the Rooftops

    Copyright © Suzanne Kelman 2019

    First published in Great Britain in 2019 by Storyfire Ltd

    trading as Bookouture

    Traduzione dalla lingua inglese di Donatella Semproni

    Prima edizione ebook: gennaio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5345-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Suzanne Kelman

    La scelta di Josef

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Dedicato a tutti gli eroi d’Olanda di cui nessuno ha mai intessuto le lodi, e che hanno rischiato la vita nel corso della Seconda guerra mondiale nascondendo 30.000 ebrei, gli onderduikers, in fienili, soffitte e scantinati. Magari non conosceremo mai i vostri nomi, ma il ricordo del vostro coraggio vivrà per sempre.

    Non esistono nazioni di eroi. Ma tra gli olandesi ci sono state migliaia di persone comuni, uomini e donne, che hanno salvato l’anima di questo Paese.

    Louis de Jong

    Il suo sguardo, per lo scorrere continuo delle sbarre

    è diventato così stanco, che non può vedere più nient’altro.

    Gli sembra che ci siano mille sbarre;

    e dietro le sbarre, nessun mondo.

    Rainer Maria Rilke, La pantera

    Guardavo anche fuori dalla finestra, e sopra tutti i tetti fino all’orizzonte che si faceva viola vedevo un bel pezzo di Amsterdam. Ho pensato: fino a quando tutto questo esiste e ho la possibilità di ammirare il sole, il cielo senza nuvole, io non posso essere triste.

    Anne Frank, Diario

    Prologo

    Olanda, aprile 1921

    Eleganti nuvole bianche fluttuavano in un cielo di un azzurro perfetto, proiettando ombre sui campi di tulipani scarlatti e dorati. Il vento che increspava i filari era l’unica cosa che osasse intromettersi in quella perfetta immobilità. Con il suo ardire costringeva i fiori a ondeggiare intrecciandosi come una fila di fanciulle. In lontananza, lungo un antico sentiero, un vecchio mulino a vento si ergeva solenne a guardia del campo. Torreggiava sopra i suoi giovani sudditi con le pareti di tavole di legno marroni forti ma logore, scrostate e instancabili contro lo scorrere del tempo. Le vele rosse, ormai di un rosa consunto dal tempo, catturavano il vento e gemevano con un canto ritmico scricchiolando e arrancando.

    Dirigendosi verso il mulino, una giovane sposa correva allontanandosi per gioco dal marito, attraverso le file di tulipani ondeggianti. Sarah, appena ventidue anni, era già vestita per la luna di miele. Un semplice abito di cotone color crema drappeggiato liberamente sulle spalle delicate. I sandali color crema sottolineavano le caviglie tornite e le lunghe gambe, baciate generosamente dal sole primaverile mentre correva.

    Solo poche ore dopo lo scambio dei voti, gran parte degli ornamenti nuziali di Sarah era già stata accuratamente imballata, avvolta in fogli di morbida carta velina bianca. Le scarpe di raso allacciate alla caviglia e il vestito da sposa in seta a vita bassa, lungo fino ai polpacci, erano stati amorevolmente spazzolati e piegati da parenti anziane e giovani amiche nubili. Adesso era tutto nascosto nel suo baule di mogano, pronto per rallegrare il flusso di spose di famiglia che sarebbero arrivate dopo di lei.

    Tutto era stato messo via, tranne una cosa a cui non aveva ancora avuto il coraggio di rinunciare. A parte la fede nuziale d’oro sulla mano sinistra, l’unico elemento che la identificava come una donna appena sposata svolazzava dietro di lei, danzando nel vento: un antico velo di pizzo decorato dalle dita vecchie e nodose di sua nonna, con un bellissimo mazzo di margherite intrecciate ricamato a punto catenella e ornato da minuscole perle color crema.

    Mentre lei correva lungo il sentiero pieno di colore, il vento si alzò alimentando il gioco della giovane coppia. All’improvviso, una folata maliziosa la fermò, trattenendo il velo e ruotandolo in una spensierata spirale che si alzò danzando verso il cielo. Josef la raggiunse, attraversando le file di fiori, e le balzò davanti. Indossava pantaloni di lino con la piega e una camicia di lino blu con le maniche arrotolate fino ai gomiti, mostrando così i lunghi avambracci atletici. Il suo corpo era flessuoso ma forte, e una ciocca di capelli corvini incorniciava un viso in cui spiccavano occhi azzurri penetranti e pieni di aspettative.

    Allungò una mano, afferrandola per la vita, e la tirò verso di sé. Le bloccò scherzosamente le braccia dietro la schiena per stringerla ancora di più. Lei aveva il fiato corto e il suo respiro caldo gli riscaldò la guancia.

    «Finalmente», disse lui trionfante.

    Sarah rispose ridendo e cercando di divincolarsi mentre Josef tentava di slacciarle il velo. «Non me lo toglierai, Josef. Ho intenzione di indossarlo per tutto il mio primo anno di matrimonio!».

    Josef spalancò gli occhi divertito. «Mia madre inorridirebbe, dal momento che ha già intenzione di usarlo per farci gli abiti da battesimo dei nostri figli».

    «Figli?», gli fece eco Sarah. «Siamo sposati da quattro ore».

    «Bene, allora», disse lui in tono deciso, «non c’è tempo da perdere!». Le lasciò la mano, le prese il viso, baciandole gli occhi, le labbra e il collo mentre Sarah rideva nel tentativo di sottrarsi alle sue avances.

    «Sul collo no, Josef. Sai che effetto mi fa».

    Lanciandole un sorriso malandrino, la prese tra le braccia e la sua bocca trovò quella di lei in un bacio appassionato. In lontananza, una voce li chiamava.

    Sarah afferrò il colletto della camicia di Josef e lo trascinò giù fra i tulipani: il lungo velo, arrotolato dal vento, li avvolse.

    «Shhhh», sussurrò lei. «Se restiamo immobili, la mamma non ci troverà».

    «Io non mi lamento», sussurrò Josef, spostando il tessuto svolazzante che gli aveva coperto il viso. Si sistemò meglio, mettendo un braccio sotto di lei per proteggerle la testa dalla terra sassosa.

    Rimasero sdraiati uno di fronte all’altra, aspettando senza parlare che i passi svanissero, mentre il loro respiro rallentava raggiungendo un ritmo uniforme. Nel profondo del campo, il profumo dei tulipani era inebriante. Sarah si alzò appoggiandosi su un gomito e fissò Josef con uno sguardo pensieroso.

    «Mi è piaciuto il regalo di tuo padre», sussurrò.

    Josef scosse la testa e sorrise. «Mio padre è un romantico e lo è sempre stato. Ripone tutta la sua fede nel potere delle parole d’amore». Josef si rotolò sulla schiena e intrecciò le mani dietro la testa, guardando in alto verso le nuvole leggere. «Non riesco a credere che abbia letto delle poesie al nostro matrimonio. Senza tener conto che io sono un matematico! A cosa può mai servirmi una bizzarria del genere? Penso che nutra la speranza che un giorno, in qualche modo, la sua preziosa poesia troverà spazio nel mio cuore. Perfino adesso che ho ventotto anni».

    Sarah strinse le labbra e spinse il mento in fuori. «Come puoi dire una cosa simile? Cos’è la vita senza arte, musica o poesia? Ci aiutano a comprendere come sentire, amare e vivere!». Si rotolò sulla schiena e si concentrò su una nuvola che sembrava un pony al galoppo. Timidamente, aggiunse: «Ho iniziato quasi a innamorarmi di tuo padre mentre lo guardavo recitare. Il modo in cui fissava tua madre dimostrava tutto l’amore che hanno condiviso per così tanto tempo».

    Un’espressione di vera sorpresa attraversò il viso di Josef.

    Sarah continuò, sospirando: «Non sono sicura di quanto durerà il nostro amore se non sai come mantenerlo vivo in quel modo. Non credo che le formule matematiche possano farmi esattamente lo stesso effetto».

    Josef si rotolò verso di lei e le scostò un ricciolo ramato dal viso a forma di cuore. «Che vuoi dire? La matematica può essere bella. Si dice che l’identità di Eulero sia l’equazione più bella del mondo». Continuò con una forte enfasi romantica: «eiπ + 1 = 0».

    Sarah chiuse gli occhi e arricciò il naso scuotendo la testa e agitando i riccioli ramati per mostrare il suo scontento.

    Lui la tirò di nuovo verso di sé e le sussurrò all’orecchio: «Come impedirò alla mia anima di toccare la tua? Come potrò sollevarla al di là di te verso altre cose?».

    Aprendo completamente gli occhi, Sarah con un gran sorriso recitò il seguito della poesia Canto d’amore del poeta contemporaneo Rainer Maria Rilke. Mostrò il suo apprezzamento coprendogli il viso con minuscoli baci da uccellino e poi sbottonandogli lentamente la camicia.

    Lui continuò a sussurrare le parole della poesia mentre le sfiorava il collo e la accarezzava su tutto il corpo.

    «Va bene», sussurrò lei, «puoi prendere il velo. Come chiameremo nostro figlio?».

    La guardò profondamente negli occhi prima di rispondere. «Sarah». Sorrise con aria sicura. «Sarà una femmina e la chiameremo Sarah».

    Lei cominciò a protestare prima che il marito la zittisse coprendole la bocca con un bacio persistente. Mentre facevano l’amore con un ritmo dolce, l’unico suono che si riusciva a sentire era il leggero scricchiolare del mulino a vento, con le pale che salivano verso il cielo, sempre più scuro dopo il tramonto.

    Parte prima

    Capitolo uno

    Amsterdam, febbraio 1941

    La neve implacabile e pungente cadeva come un lenzuolo ghiacciato sulle strade devastate dalla guerra dell’Olanda occupata, formando mucchi di fanghiglia grigia e granulosa, soffocando una città già privata della sua umanità. I cumuli di neve duri come l’acciaio erano butterati da orribili schizzi accumulati da una settimana di temperature gelide, strade sporche e pietre che rimbalzavano via dopo essere state colpite da conducenti sfortunati. Neve grigia su strade grigie, soffocate da un cielo bilioso dello stesso deprimente colore. Per gli olandesi, questo tempo cupo rifletteva un mondo che era altrettanto cupo.

    In una buia strada residenziale risuonava l’eco vuota di stivali chiodati, il suono ormai ben noto di una colonna di nazisti in marcia. Mentre i piedi calpestavano la strada, il ritmo diventava sempre più inquietante. Ogni passo evocava una rete di presagi minacciosi, come un mucchio di chiodi d’acciaio sbattuti con violenza in una scatola di latta. Nei nove mesi di occupazione, il Terzo Reich si era già rivelato una belva malvagia con cui non si poteva scherzare, uno sciacallo assetato di sangue, sempre vigile, pronto ad abbattere e divorare tutto ciò che si trovava tra lui e la conquista in nome del Führer.

    Amsterdam, un tempo vivace e spensierata, brillante di uno splendore opulento, l’orgoglio dei Paesi Bassi, aveva nutrito grandi speranze di sconfiggere le forze d’invasione, ma invece, come il resto dell’Olanda, era caduta sotto la Blitzkrieg tedesca in soli quattro giorni. Ora il suo cuore era squarciato e ferito per sempre. Il suo ottimismo, fino ad allora incontaminato, ormai era come i cumuli di ghiaccio sul terreno: offuscato, butterato e soffocato dalle forze oscure del male che erano arrivate anch’esse vestite di grigio.

    Mentre il suono diventava assordante nella tranquilla strada cittadina, dietro porte sbarrate e finestre chiuse, volti impauriti si bloccarono, gli occhi chiusi in una preghiera silenziosa. Anime che rabbrividivano sperando che il loro unico atto di sfida – tenere le tende chiuse – segnalasse il loro urlo di resistenza congiunto. Era un modo per tenersi aggrappati agli ultimi fili della loro civiltà. I passi svanirono, ma la paura permase molto più a lungo dell’eco. Solo quando tornò il silenzio totale si concessero il lusso di respirare e dedicarsi nuovamente al compito di sopravvivere. Ringraziando Dio ancora una volta: non questa strada, non oggi.

    Dall’altra parte della città, un orologio ticchettava con lo stesso ritmo dei piedi in marcia. Il professor Josef Held fissava il quadrante bianco e le lancette nere e appuntite, ignaro del ritmo pericoloso analogo al suo ticchettio. L’orologio era appeso in alto su una parete e sorvegliava una grande aula piena di studenti. Un soffitto sorretto da cornici di pietra calcarea decorata lasciava il posto da un lato a librerie polverose ma ordinate, e dall’altro a un’elegante fila di finestre.

    Il professor Held lavorava in silenzio, valutando i compiti seduto alla sua scrivania. Era un goffo uomo di mezza età, circa quarantasette anni, a disagio nella propria pelle. Raramente alzava lo sguardo. Quando lo faceva, su di lui indugiava brevemente il fantasma di una passata bellezza. Si diffondeva attraverso i suoi perfetti occhi azzurri e i sorprendenti capelli neri, che iniziavano appena a diventare grigi alle tempie. E benché avesse passato la vita piegato su quella scrivania, in qualche modo il suo corpo riusciva a mantenere una parvenza di tonicità giovanile, più consona a un atleta in pensione che a un modesto professore di matematica.

    Nella sua classe, il regime in cui i soldati marciavano sembrava lontano, mentre gli studenti si concentravano diligentemente sul loro lavoro, con le maniche delle camicie arrotolate ai gomiti e la testa china sulle pesanti scrivanie di quercia. A parte il ticchettio dell’orologio, non si sentiva alcun rumore, tranne un occasionale colpo di tosse sommesso o il suono di una matita che graffiava la carta asciutta. La stanza sembrava senza tempo, le ore infinite. Quando le lancette dell’orologio si incontrarono finalmente a mezzogiorno, un debole sole si fece strada attraverso un disperato cielo color ardesia e sfiorò le alte finestre.

    Held mise via un compito di matematica, ne prese in mano un altro e si bloccò. Sul foglio che aveva davanti non c’era un compito, nessuna risposta ai problemi numerati. Sulla pagina spiccava invece una poesia, La pantera, scritta da Rilke, il poeta preferito della sua defunta moglie. Scuotendo la testa, sospirò, esasperato: non voleva pensare a Sarah oggi. Si tolse gli occhiali cerchiati d’argento, un oggetto di scena ben scelto per un uomo che voleva proteggersi dal mondo esterno. Li posò delicatamente sulla scrivania, si strofinò gli occhi e poi se li rimise sistemando il filo delle stanghette sulle orecchie, uno alla volta. Guardò l’orologio e si schiarì la gola. «La lezione è finita. Signor Blum, ho bisogno di un attimo del suo tempo».

    Gli studenti universitari uscirono con calma dalla porta, allontanandosi dal soffocato silenzio della stanza. Una studentessa, Elke Dirksen, i begli occhi pieni di preoccupazione, si soffermò sulla porta guardando Michael Blum dirigersi in avanti. Michael era un bel ragazzo, e sembrava il meglio di ciò che la gioventù poteva offrire: ventidue anni, pieno di vigore, emanava un carisma irrequieto. Gli occhi di Michael brillarono di umorismo provocatorio mentre strizzava l’occhio a Elke ferma nel corridoio.

    Il professor Held, seduto alla scrivania, sistemò i fogli di carta in una pila ordinata aspettando che l’aula si svuotasse. Quando la stanza divenne silenziosa e la porta si chiuse, mise il foglio di Michael in cima alla pila. Gli parlò direttamente senza alzare lo sguardo. «Lei sa, signor Blum, che questo è un corso avanzato di matematica».

    Michael rise.

    Dopo anni di insegnamento, Held era indifferente all’arroganza. «Non è la prima volta che discutiamo di questo argomento. Lei ha di nuovo scritto sul suo compito invece di risolvere la formula come richiesto».

    Michael esitò. «Come? Non le piace Rilke?».

    Il professor Held continuò: «La cosa non ha niente a che fare con questo. Il posto della poesia è nei libri, non nelle esercitazioni di matematica».

    Michael fece un respiro profondo, che durò per un momento, e poi si trasformò in un tono di controllata amarezza, che traboccava impetuosa dalle sue parole. «Non è più così facile per me comprare… libri. Almeno, sa chi è?».

    Per la prima volta, il professore alzò lo sguardo. «Scusi?».

    Michael si animò, pieno di entusiasmo. «Rainer Maria Rilke. Il poeta. È considerato uno dei più romantici…».

    Il professor Held cercò di interromperlo alzando una mano.

    Sul viso di Michael comparve un’espressione di rabbia e frustrazione. Poi proseguì: «Senta, niente di tutto questo ha importanza, perché oggi è il mio ultimo giorno».

    Il professor Held abbassò gli occhi e spostò verso di sé una nuova pila di fogli. Poi spinse il foglio di Michael sulla sua scrivania ordinata. «La prego di completare il compito».

    Michael scosse la testa. «Oggi. È. Il. Mio. Ultimo. Giorno. Non me ne starò qui seduto ad aspettare che vengano a prendermi. E non mi costringeranno a entrare nell’Arbeitseinsatz».

    Held alzò brevemente lo sguardo. Molti giovani venivano costretti a lavorare nelle fabbriche tedesche; resistere poteva essere pericoloso. Avrebbe voluto dirlo, ma invece si ritirò dietro la sicurezza del suo muro.

    «Comunque, deve finire questo compito».

    Michael afferrò il foglio. Mentre si sporgeva in avanti, un volantino scivolò fuori dalla borsa e cadde sulla scrivania. L’angolo era staccato. Michael l’aveva ovviamente strappato via, probabilmente con rabbia. Erano le istruzioni che ordinavano a tutto il popolo ebraico di registrarsi. I due uomini lo fissarono e si bloccarono. Il ticchettio dell’orologio e i suoni soffocati nel corridoio riempirono il nulla assordante che li divideva. Held si rese conto all’improvviso che Michael era ebreo. Si sentì impotente, senza parole. Avrebbe voluto rimangiarsi il suo atteggiamento severo, ma prima che potesse dire qualcosa, lo studente prese il compito di matematica e lentamente e con aria di sfida lo appallottolò, lasciandolo cadere sulla scrivania.

    «Pensa davvero che tutto questo sia importante? Il coraggio di combattere e amare… questa è l’unica cosa che conta adesso. E niente di tutto ciò si può trovare in una formula matematica».

    Sistemandosi lentamente gli occhiali sul naso, il professor Held fissava la palla di carta stropicciata.

    Elke aprì la porta. «Michael! Sbrigati!».

    Il suono di piedi in marcia echeggiava nel corridoio in direzione dell’aula. Michael si diresse rapidamente verso la porta.

    Held aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori un libro. Era una copia consunta delle Nuove poesie di Rilke. Fece un cenno al giovane. «Prima che lei vada, signor Blum…».

    Michael si voltò e Held spinse il libro sulla scrivania. Michael si avvicinò, incuriosito suo malgrado. Notando il titolo, lo aprì con rispetto. Held lo guardò leggere la dedica sulla prima pagina, scritta a mano da suo padre.

    «A Josef. A volte l’amore più coraggioso viene sussurrato nei momenti più silenziosi».

    Parole prive di significato scritte molto tempo prima, rifletté Held. Tornò alle sue carte e con un gesto sbrigativo mormorò: «Lo tenga».

    Michael si strinse il libro al petto. «Davvero? Grazie! Grazie mille».

    A disagio per quella dimostrazione di emotività, Held spinse gli occhiali più in alto sul naso e annuì, sistemando goffamente i fogli sulla scrivania.

    Michael si voltò per andarsene e poi si fermò alla porta. «Credo di poterle confessare che odio la matematica».

    Held sogghignò e mormorò, non tanto a Michael quanto a sé stesso: «Lo avevo immaginato».

    Quando Michael raggiunse la porta, Elke lo tirò rapidamente per il braccio verso il corridoio.

    Held notò il posto vuoto in cui il libro era rimasto segregato per molti anni. Fece un respiro profondo e chiuse il cassetto. Stava per tornare alla correzione dei compiti quando notò qualcosa sulla scrivania. Raccolse con cura il volantino che Michael aveva lasciato cadere.

    La porta dell’aula si aprì e Held esclamò: «Signor Blum, ha dimenticato…».

    Ma vide con sorpresa che invece di Michael stava entrando Hannah Pender. La nuova segretaria dell’università, una donna sorprendente con lineamenti fini e occhi azzurri pensosi, raramente lasciava il suo posto di lavoro alla scrivania della reception. Notò che oggi indossava una gonna blu scuro a trapezio, che le abbracciava i fianchi e metteva in risalto le gambe tornite, con una camicetta color avorio dalla scollatura guarnita di pizzo. Entrando, si rivolse in un tedesco perfetto a un ufficiale nazista dall’aria molto seria che la seguiva.

    Un gruppetto di soldati li accompagnava. Si misero sull’attenti fuori dalla porta. Le loro severe uniformi grigie spigolose e taglienti sembravano fuori posto vicino alle eleganti finestre e al piacevole corridoio rivestito di pannelli di legno.

    «Lui è il professor Held», disse Hannah. «Insegna matematica avanzata». Si avvicinò alla sua scrivania. «Salve, professore. Stiamo solo controllando i suoi studenti».

    Held rispose, sconcertato: «I miei studenti? La mia aula è vuota». Sotto la scrivania, stringeva in mano l’avviso di censimento. Non voleva certo che gli facessero domande sul perché lo possedesse o perché fosse stato strappato.

    Hannah sorrise nervosamente e annuì.

    L’ufficiale fece un giro per l’aula con aria risoluta, osservando ogni dettaglio. Si fermò davanti a una grande finestra ad arco, alzò lo sguardo e sembrò affascinato da un ragno che, all’esterno, stava tessendo una rete in un angolo. Mentre il ragno dondolava e intrecciava i fili, una leggera brezza catturò la sua opera e la fece oscillare come un’amaca in mare. Nell’aula altrimenti silenziosa il ticchettio dell’orologio faceva montare la tensione scandendo ineluttabile lo scorrere del tempo. Una goccia di sudore si formò sul ponte del naso di Held, sotto il bordo degli occhiali. Se l’asciugò rapidamente con la mano libera. L’ufficiale si voltò lentamente verso di lui.

    «Held? Nome interessante».

    Il professore annuì appena.

    L’ufficiale si avvicinò alla scrivania, parlando in tedesco. «Credo che questa parola sia uguale in olandese e in tedesco: significa eroe. Spero che lei non nutra aspirazioni del genere».

    Held spinse gli occhiali più in su sul naso e guardò l’ufficiale, rispondendogli in olandese. «Temo di essere già un eroe».

    Una strana espressione solcò il viso dell’ufficiale, accompagnata da un sorriso forzato; aggrottò le sopracciglia come se stesse soppesando il suo interlocutore.

    Held proseguì con la sua risposta elaborata. «Devo trattare con studenti di letteratura che preferirebbero imparare i classici anziché capire l’algebra».

    L’ufficiale si rese conto che il professore stava scherzando e rise. Un suono innaturale ed esagerato, un mezzo per mettersi in mostra, pretendere attenzione e sottolineare il proprio potere. Si riprese rapidamente e indugiò – per un momento lungo e difficile – esaminando la scrivania di Held mentre annuiva.

    Il professor Held si spostò sulla sedia e guardò l’orologio sulla parete. «C’è altro? Se non le dispiace, signora Pender, devo prepararmi. Tra poco arriveranno gli studenti per la prossima lezione».

    Ignorandolo, l’ufficiale tornò verso la finestra e guardò di nuovo il panorama ghiacciato. Tra i deboli raggi del sole, colonne di nevischio ricominciavano a imbiancare il mondo. La signora Pender sorrise, a disagio. Mentre aspettavano, l’aria stessa parve irrigidirsi. Alla fine, l’ufficiale si voltò. «Penso che insegnare sia una bella professione e, fintanto che il suo eroismo si limiterà all’algebra, le cose andranno bene per lei».

    Detto questo, fece un cenno con la testa e uscì a grandi passi dalla stanza. La signora Pender lo seguì. Held attese che i passi svanissero prima di emettere un respiro stentato. Appallottolò l’avviso di censimento e lo lasciò cadere nel cestino della carta straccia.

    Si alzò, si stirò, poi si diresse verso un armadietto in fondo alla classe. Tirò fuori dal taschino una piccola chiave per aprire la serratura dello sportello. L’armadio era completamente vuoto, a parte una radio in ottime condizioni con un ricco rivestimento di mogano. Held allungò una mano e girò la grossa manopola. Il display si illuminò e la radio prese vita. Un brano di musica classica riempì il monotono spazio fendendo l’aria soffocante. Tornò a sedersi alla scrivania, si tolse gli occhiali, chiuse gli occhi e fece un respiro lento e profondo.

    Alla fine della giornata, Held aggiunse una nuova equazione alla lavagna, in modo che fosse risolta dagli studenti della prima lezione dell’indomani. Si avvolse al collo una sciarpa di lana e si infilò il cappotto. Con il cappello e la borsa in mano, uscì dall’aula. Muovendosi in silenzio nei corridoi, con gli occhi bassi, aveva un’aria di deliberato distacco. Di conseguenza, nessuno gli parlava e nemmeno dava segno di riconoscerlo. Era come se fosse invisibile. Mentre si dirigeva verso la reception, notò Hannah Pender che istruiva una giovane donna sui suoi compiti.

    La signora Pender si voltò mentre parlava. «Oh, ecco il professor Held», disse alla ragazza. «Buonasera, professore. Immagino che voglia la sua posta». Held annuì.

    Hannah si voltò per insegnare alla sua protetta da quale casella prenderla. Mentre lei si muoveva dietro la scrivania, Held finse di essere concentrato sul libro di matematica che aveva in mano, ma non poté resistere alla tentazione di darle un’occhiata. Era molto attraente, rifletté, indubbiamente più della collega che l’aveva preceduta. Quella era di corporatura squadrata, con i capelli ispidi, uno sguardo di costante delusione e l’ombra appena accennata di un paio di baffi. La nuova segretaria, questa Hannah Pender, era molto diversa.

    «Mi dispiace tanto per l’intrusione di oggi, professore», gli disse. Lui spostò rapidamente lo sguardo verso le proprie mani. «C’è così tanto da fare e ci tocca rispondere anche all’esercito tedesco. Come se non avessi abbastanza impegni. E ora ho questa ragazza, Isabelle, l’unica che mi hanno potuto mandare. Mi tocca addestrarla e come lei sa, io sono arrivata solo da poche settimane…».

    Mentre lei chiacchierava, Held aspettava, osservandola, cercando di non far trapelare l’attenzione con cui stava studiando la forma del suo viso e i morbidi ricci castani.

    Isabelle, una ragazza timida con ciocche castane addomesticate da un fermaglio, comparve al fianco di Hannah e le porse un fascio di posta, che lei poi consegnò a Held. Hannah continuò a parlare del tempo, del suo carico di lavoro e del calo delle iscrizioni mentre lui sfogliava silenziosamente le sue lettere. Mentre lei si sporgeva in avanti, in attesa di istruzioni, lui percepì il suo profumo, di viola o forse di lillà. Non voleva che lei si accorgesse di avere in qualche modo attratto la sua attenzione, quindi rimise in fretta sulla scrivania un paio di buste e infilò il resto nella borsa, voltandosi rapidamente e dicendo: «Buonasera, signora Pender».

    Hannah prese la posta scartata e sorrise. «Buonasera, professore».

    Held fece un cenno con la testa, si mise il cappello e si avviò rapidamente verso la porta principale.

    Fuori, per strada, lo stesso freddo del mattino era tornato a preannunciare la sera. Si abbassò il cappello sulla testa e si avviò silenziosamente per le strade seguendo il ben noto percorso verso casa. Dopo aver ritirato la spesa serale, svoltò in Staalstraat, dove si trovò davanti a un trambusto di voci arrabbiate e irascibili. Una giovane coppia stava discutendo con un ufficiale tedesco. La gente, proveniente da più parti, si fermava, guardando la scena a distanza di sicurezza. Nell’aria aleggiava una disperazione impotente, densa come la coltre di freddo che li circondava. Held notò l’espressione sui volti delle persone: lo shock e l’orrore, ma anche la paura, come se chiunque tra loro potesse essere il prossimo.

    Il soldato stava urlando qualcosa a proposito di identiteitsdocumenten e la giovane aveva iniziato a piangere, spiegando in tono supplichevole che stava andando dal dottore e si era semplicemente dimenticata di prenderli. Held si voltò e continuò a camminare, tenendo la testa bassa e guardando deliberatamente nella direzione opposta mentre la donna iniziava a urlare. Si disse che presto sarebbe finito tutto. Doveva essere così. Accelerò svoltando nella via in cui abitava. Riusciva ancora a sentire l’eco della voce dell’ebrea che urlava. Si strinse la sciarpa intorno alle orecchie per bloccarla.

    Quando raggiunse i gradini di pietra che portavano alla semplice porta marrone della sua casa a tre piani, tirò fuori una chiave. Alle sue spalle, il suono dei passi di due soldati in marcia lo spinse ad aprire velocemente la serratura e a entrare senza esitazione.

    Posò la borsa e la piccola busta di stoffa con la spesa e accese la luce. Davanti ai suoi occhi comparve una vita ordinata e funzionale ma priva di calore. Un giovane gatto grigio corse lungo il corridoio andandogli incontro, miagolando incessantemente. Held si riprese. «Ciao, Kat, ti ho portato una cosina dal mercato. Com’è andata la giornata? La mia è stata interessante».

    Kat seguì Held lungo il corridoio, in cucina, osservandolo mentre metteva dei pezzetti di pesce in una ciotola e si preparava una tazza di tè.

    Guardò l’orologio sul muro della cucina. «È quasi ora», disse a Kat. «Mi chiedo di che si tratterà stasera».

    Aprì le pesanti persiane e spalancò la finestra sopra il lavello della cucina. Metodicamente, iniziò il suo rituale notturno. Per prima cosa, sistemò con cura una sedia in modo che fosse rivolta verso la finestra, poi si sedette, si coprì le ginocchia con una semplice coperta di lana e, con il tè in mano, si mise in attesa.

    Il gatto gli saltò in grembo. Gli ultimi, deboli raggi della luce serale entravano nella stanza buia e gli scorrevano sul viso. All’improvviso l’evento tanto atteso ebbe inizio. Dalla casa accanto la deliziosa musica di un pianoforte danzò attraverso la finestra aperta.

    Mentre accarezzava il corpo snello di Kat, lo istruiva: «Ah, è Chopin, uno dei notturni».

    Chiuse gli occhi e inspirò profondamente.

    Capitolo due

    Michael abbassò lo sguardo su Elke; aveva gli occhi chiusi e le morbide ciglia marroni erano immobili. I lunghi capelli castani, umidi di sudore, le ricadevano pesanti sul petto, mascherandone la nudità. Si chinò e le baciò le labbra. Mentre lui si tirava indietro, coprendola fino al mento con il lenzuolo, lei gemette.

    «Basta, Michael, sono stanca».

    Muovendo le mani sotto le lenzuola, iniziò ad accarezzarle tutto il corpo solo con i polpastrelli.

    «Smettila». Gli occhi di lei lampeggiarono provocatori. «Non sai che c’è una guerra? Dobbiamo conservare le nostre energie».

    Michael si sollevò delicatamente su di lei, godendosi la sensazione e il peso dei loro corpi nudi premuti l’uno sull’altro mentre le sussurrava tra i capelli: «Questo è esattamente il motivo per cui dovremmo fare l’amore. Chissà quanto tempo ci rimane».

    Lei lo spinse via scherzosamente e si rimise il lenzuolo sul petto. Poi si tirò su a sedere e si passò una mano tra i capelli disordinati. «Vuoi un po’ di caffè?».

    Michael sospirò, si rotolò sulla schiena e annuì. «Se è il meglio che puoi offrirmi».

    Ridacchiando, la ragazza balzò in piedi, prese il lenzuolo e se lo avvolse intorno come una toga.

    Si spostò verso la parte anteriore della casa galleggiante, e lo osservò mentre, allungato sul letto, fingeva di non curarsi di essere nudo e senza lenzuolo.

    «Resterò qui finché non sarai sopraffatta dal mio incredibile corpo e mi supplicherai di fare di nuovo l’amore con te», la informò.

    Lei scosse la testa poi andò in cucina a fare il caffè e, aspettando che il bollitore si scaldasse, guardò con occhio autocritico il suo ultimo dipinto, un vaso di girasoli incompiuto al quale stava lavorando. Michael la vide rabbrividire: il corpo reagiva alle temperature notturne che erano scese di nuovo tarandosi su un freddo pungente. Quando sentì il rumore dell’acqua che bolliva, si alzò e indossò la vestaglia arancione di lei che aveva trovato appesa sul retro della porta della camera da letto. Prese dal comodino il libro di poesie, quello che gli aveva regalato il professor Held, e la raggiunse nella piccola cucina.

    Elke sorrise vedendo come era vestito, ma il suo sguardo si caricò di preoccupazione quando notò cosa aveva in mano. «Devi stare attento. Sai che non dovresti avere libri».

    Michael sbuffò mentre sfogliava le pagine. «Che ci provino, a portarmelo via. Possono prendermi la libertà, ma non possono sopprimere i miei pensieri o la mia mente. Mi rifiuto di darglieli».

    La preoccupazione si insinuò nella voce di lei. «Ma cosa farai adesso? Queste nuove leggi stabiliscono che non puoi uscire dopo le 21:00, non puoi leggere libri e non puoi studiare…».

    Michael chiuse il libro con aria pensierosa. «Non ci ho pensato molto, ma forse resterò qui, scriverò poesie e cucinerò per te tutto il giorno. Immagina che lusso sarebbe nascondersi scrivendo poesie giorno dopo giorno».

    «No, sul serio. Hai pensato di partire? Non so quanto sarebbe difficile, ma forse dovresti provarci».

    «E per andare dove? Sono ebreo. Anche se non pratico la mia fede da quando è morta mia nonna, è così che mi vedono i nostri nuovi ospiti tedeschi. Non c’è un posto in cui potrei andare adesso. E poi, non lascerei mai la mia adorata Amsterdam, né te».

    Lei sorrise e intrecciò le dita a quelle di lui. «Questa è la prima volta che ti sento davvero parlare della tua fede. Ti preoccupa il fatto che io non sia ebrea?».

    La guardò sorpreso. «Mi sento a malapena ebreo io stesso. Sì, è il mio sangue. E sì, quando ero giovane andavo alla sinagoga. E suppongo che mi piacesse il modo in cui il rabbino recitava la Torah, ma ho smesso di credere in Dio quando mi ha portato via tutta la mia famiglia». Gli era difficile mascherare il dolore nella voce mentre continuava: «Come sai, mio padre combatté nella Grande Guerra, quindi non fu esattamente uno shock quando morì a causa delle ferite riportate; ma quando un anno dopo mia madre fu colpita dalla tubercolosi e fui costretto a guardarla mentre lottava per riuscire a respirare – e mia nonna morì poche settimane dopo – capii che non avrei mai più potuto credere in un Dio giusto e buono. Tanto meno adesso, mentre questa guerra continua, e il mio popolo è perseguitato».

    La sua voce si spense, con l’emozione che ancora si agitava in lui, mentre ancora una volta si sentiva sommerso dall’isolamento e dalla solitudine che aveva provato

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