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I segreti di Rachel Jordan
I segreti di Rachel Jordan
I segreti di Rachel Jordan
E-book345 pagine5 ore

I segreti di Rachel Jordan

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Ormai sommersa dai debiti, la gio­vane Rachel non crede alla sua fortuna quando le viene offerto un lavoro presso un’azienda di successo.
L’edificio che ospita la società ha però una storia tragica, cosa che inizial­mente la incuriosisce, almeno fino a che quel senso costante di inquietudi­ne non comincia a perseguitarla.
Il lavoro di ogni giorno si trasforma ben presto in un incubo, ma Rachel non ha scelta, e se non vuole finire in mezzo a una strada deve tenere duro senza farsi suggestionare da stupide storie. In fondo, ormai è acqua passata, no?
Ne è quasi convinta, quando una ter­ribile scoperta le fa comprendere il pericolo che sta correndo e il presen­te e il passato si fondono improvvi­samente in un affresco dai contorni agghiaccianti.
Di che cosa si occupa davvero la so­cietà per cui lavora?

Dall’autrice di La stanza degli ospiti
Un’autrice bestseller internazionale
Ai primi posti delle classifiche inglesi per oltre otto mesi

Hanno scritto di lei:

«Il thriller psicologico più spaventoso, più entusiasmante e più bello che leggerai quest’anno.»
Lee Child

«Una voce davvero originale.»
Peter James

«Da brividi. Il libro dell’anno.»
Sunday Express

«Una storia avvincente da una scrittrice di talento.»
Sun
Dreda Say Mitchell
È un’autrice bestseller pluripremia­ta, conduttrice, attivista e giornali­sta. Ha scritto undici romanzi e ha ricevuto il prestigioso premio CWA Dagger John Creasey. Alcuni dei suoi libri diventeranno serie televisi­ve. È nata e cresciuta nell’East End di Londra, dove vive tuttora. Già col­laboratrice di «The Guardian», «The Independent» e «The Observer», con La stanza degli ospiti, pubblicato dalla Newton Compton è arrivata al successo internazionale. 
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2020
ISBN9788822748935
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    Anteprima del libro

    I segreti di Rachel Jordan - Dreda Say Mitchell

    Prologo

    Come si fa a ripulire la scena di un omicidio?

    Fu questo che pensò l’assassino non appena distolse lo sguardo dal corpo. Tremava per lo spavento e la paura. L’orrore per quello che era successo gli aveva lasciato un sapore acido in bocca.

    Erano trascorsi trenta minuti da quando aveva attraversato la soglia di fuoco che divide coloro che hanno strappato la vita a un essere umano da chi non l’ha fatto. In quel breve lasso di tempo aveva già capito tutto: poteva trattarsi di un incidente, di un atto sconsiderato, o di un gesto di cui ti saresti pentito tutta la vita, in ogni caso ormai eri dall’altra parte. A nulla serviva ripercorrere ogni singolo attimo, sperare che non fosse mai accaduto, supplicare. Se solo non avessi fatto… se solo non avessi pensato…

    Troppo tardi per i rimpianti. Era impossibile tornare indietro, una volta varcata quella soglia.

    Il corpo era accasciato sul sedile del conducente di una berlina tedesca Nash del 1929. Una delle tante auto d’epoca parcheggiate fianco a fianco in quel garage adibito a spazio d’esposizione. Le ex mogli e fidanzate affermavano che la vittima teneva più ai suoi giocattoli luccicanti che alle persone. Di certo non aveva badato a spese per preservare le auto.

    Gli ingranaggi della mente dell’assassino giravano furiosamente, e alla fine mise insieme i pezzi del puzzle per rispondere alla terribile domanda che si era posto. Per ironia della sorte, fu proprio l’ossessione della vittima a suggerirgli il modo più adatto per coprire l’atto indicibile che aveva commesso. Tutt’intorno c’erano serbatoi sigillati pieni di una miscela speciale di carburante che la vittima pompava nei suoi amatissimi veicoli. Il che portava a una facile soluzione: non appena il garage avesse preso fuoco, si sarebbe messo a eruttare come un vulcano pronto a distruggere tutto ciò che trova sul suo cammino. Ma come capire quanti minuti aveva a diposizione? Come calcolare il tempo necessario per fuggire senza farsi divorare dalle fiamme?

    L’assassino tornò alla macchina. Sbirciò all’interno. Il morto aveva un volto sereno e disteso, come se stesse facendo un sonnellino tranquillo. A riposo, la testa inclinata di lato. Dalla ferita mortale sulla tempia grondava qualcosa di nauseante, insieme al sangue rappreso. Se avesse assestato il colpo in qualsiasi altra parte del corpo, quell’uomo sarebbe stato ancora vivo, forse furibondo e inviperito. Ma la tempia è la parte più sottile e vulnerabile del cranio. Basta un colpo secco per spaccarla.

    L’assassino spruzzò benzina sul cadavere fino a inzuppargli i vestiti. Fece lo stesso per gli interni e la carrozzeria dell’auto. Ne versò ancora di più sul pavimento, sugli infissi e gli arredi. Ora che la benzina era ovunque, il salone puzzava da morire. Immerse uno dei tanti cartelli con su scritto VIETATO FUMARE nel liquido oleoso della tanica. Naturalmente in quell’edificio era severamente proibito fumare, quindi come si sarebbe potuto spiegare l’inferno che era in procinto di scatenarsi? Posò la tanica e tornò di corsa nella casa.

    C’era così tanto da ricordare. Ed era così facile dimenticare.

    In una scrivania dell’ufficio trovò quello che cercava: una scatola di sigari avana. Ne prese uno. Avvicinò la fiamma dell’accendino, ma non si accese a causa delle sue dita maldestre. Ritentò una volta, e un’altra ancora. Tremava così tanto, stava cadendo a pezzi. Alla fine, finalmente, la punta del sigaro prese a brillare di un rosso caldo e venato d’arancione. Si portò il sigaro alle labbra e inspirò. Una tosse secca e borbottante gli esplose dal petto. Ma del resto, pensò, si cambiano subito abitudini dopo che hai fracassato il cranio a qualcuno.

    Anche se stava soffocando, fumò imperterrito il sigaro fino a consumarne una buona metà. Buttò l’avana non troppo lontano da una delle finestre aperte del garage. Gli investigatori l’avrebbero trovato facilmente. L’assassino aveva già imbastito una storiella. Il morto stava fumando un sigaro in garage e l’aveva gettato dalla finestra. Che idiota. Caso chiuso.

    O forse il caso non sarebbe stato chiuso proprio per niente. Forse avrebbe dovuto mettere un fazzoletto attorno all’estremità del sigaro prima di posarci sopra la bocca? Aveva visto i documentari televisivi e i programmi polizieschi più macabri, dove la scientifica sembrava avere occhi a raggi X.

    C’era così tanto da ricordare. Ed era così facile dimenticare.

    Accanto alla porta, trovò un dépliant di una mostra di auto d’epoca e lo arrotolò. Lo immerse nella benzina. Prese l’accendino dalla tasca. Controllò un’ultima volta il garage, diede fuoco al dépliant e poi lo gettò sul pavimento intriso di carburante. Le fiamme saltavano e danzavano verso la berlina come un bambino che corre su una spiaggia. L’auto venne presto divorata dal fuoco, il viso del cadavere si riempì di vesciche e si contrasse tra le fiamme. Doveva andarsene prima che l’incendio si propagasse.

    Corse fuori dalla porta, attraversò il giardino, inspirando con avidità l’aria fresca di campagna, e ripassò la versione dei fatti che avrebbe fornito alla polizia.

    «Quando ho sentito odore di fumo, mi sono precipitato davanti alla casa e ho visto il garage in fiamme. Ho provato a entrare per salvarlo, ma il calore era così intenso che non ce l’ho fatta. Ecco perché ho tagli e lividi sulla faccia. Gli ho detto mille volte di non fumare lì dentro, ma non mi ha dato retta, non mi ascoltava».

    D’un tratto si fermò. Rovistò nelle tasche, frenetico. Dov’era l’accendino? Dietro di lui, baluginavano già le tremolanti fiamme arancioni e gialle dalle finestre del garage. Nella sua testa, sentì con chiarezza la voce di un poliziotto: «La nostra squadra ha recuperato dalla scena i resti carbonizzati di un accendino di ottone. Abbiamo stabilito che c’era il suo nome inciso sopra, insieme alle parole LAS VEGAS. Ci risulta che è stato in vacanza lì l’anno scorso. Ha una qualche idea di come sia arrivato quell’oggetto nel garage?».

    Tornò indietro di corsa. Aprì la porta, venne travolto dalla furia del calore e dalle fiamme che sprigionavano l’odore della benzina. Cadde. A fatica si rialzò, si coprì la testa con la giacca e si tuffò nell’inferno verso il punto in cui aveva appiccato il fuoco. Dopo un secondo trovò l’accendino. Il sudore che gli inzuppava la camicia mise in risalto una sagoma di ottone nella tasca. Non l’aveva mai lasciato da nessuna parte. L’aveva sempre avuto con sé.

    Non sentì l’esplosione. Vide solo blu, bianco, un lampo che squarciò il garage da una parte all’altra. Venne sballottato in aria come una foglia trasportata via da una folata di vento, si schiantò contro una parete in fiamme prima di scivolare sul pavimento. Gocce incandescenti di benzina gli piovvero addosso, bruciandolo, bucandogli i vestiti e la carne. Ma non sentì dolore, era solo incredulo e intorpidito quando il suo corpo iniziò a fumare e ardere. Era a pochi centimetri dalla porta che l’esplosione aveva chiuso di colpo, e riuscì ad alzare il braccio e appoggiare la mano sulla maniglia. Ma non aveva più forze per aprirla e strisciare fuori. Lentamente, il braccio scivolò e ricadde giù.

    In un momento di lucidità disarmante, mentre la morte incombeva su di lui, provò un sollievo innaturale. Era la fine che si meritava. Perché sapeva che a lungo andare non sarebbe mai stato in grado di affrontare la vita da questo lato della soglia che divide coloro che hanno ucciso da coloro che non l’hanno fatto.

    E nella morte non c’è nulla da ricordare e nulla da dimenticare.

    1

    Farò qualsiasi cosa. QUALSIASI COSA. Non ho molta scelta, devo affrontare l’abisso. Ecco perché mi trovo paralizzata dalla disperazione in questo bar alla moda, come un’isola nel mare di londinesi che sciamano agitati intorno a me. In attesa di uno sconosciuto che ha il potere di riportare la mia vita in carreggiata. O di spingermi ancora più a fondo nell’inferno in cui mi trovo.

    «Rachel?».

    La voce esitante, ma allo stesso tempo autoritaria, mi prende alla sprovvista, anche se lo stavo aspettando. Mi alzo dalla sedia così di fretta che il mio latte macchiato schizza sul tavolo. Idiota! Idiota! Idiota! Bel modo di iniziare un colloquio di lavoro.

    Allungo la mano verso il tovagliolo solitario, ma lui ci arriva per primo: pulisce tutto con scatti efficienti e secchi del polso e risistema il tavolo in un attimo. Mi sento come una scolaretta. La cosa più onorevole da fare sarebbe lanciarsi verso l’uscita e filare via senza voltarsi indietro. Ma chi si trova nella mia situazione non ha diritto a ideali cavallereschi come l’onore. Gli ideali sono opinabili, i fatti sono inoppugnabili. E il punto è che ho bisogno di questo lavoro. Di brutto.

    «Mi dispiace tanto». La scusa doverosa ha un tono acuto, troppo affannato. Che fine ha fatto l’aplomb che ho provato e riprovato stamattina davanti allo specchio della mia stanza per un’ora intera? Svanito come il caffè, risucchiato dall’oblio.

    «No, sono io che dovrei scusarmi», dice lui con un sorriso disinvolto, «per averti chiesto di fare un colloquio in un bar. Il fatto è che mi rifiuto di farti vedere il mio ufficio con l’idraulico che ripara la perdita. Non vorrei che pensassi di entrare a far parte di una società disorganizzata».

    Michael Barrington tende la mano, che stringo alla svelta, pregando che non noti il sudore appiccicoso sul mio palmo. È l’amministratore delegato di una piccola società di consulenza manageriale. Un aspirante Steve Jobs con il dolcevita e i pantaloni neri, i capelli lucidi e pettinati all’indietro con precisione, il viso curato e ben idratato. Ho il sospetto che sia più vicino ai trentacinque anni che ai miei ventotto. Di sicuro invecchierà bene.

    Ma non è questo il punto. La priorità numero uno è accaparrarsi il lavoro. Devo ottenerlo. Altrimenti, mi troverò di fronte a una catastrofe con la C maiuscola. La mia vita è un castello di carte in bilico sull’orlo del precipizio. Ti prego, aiutami, supplico in silenzio quest’uomo perfetto che ha il potere di salvarmi.

    Una volta tolti di mezzo i convenevoli, lui tira fuori e studia attentamente il mio CV o résumé o qualunque sia il termine in voga oggigiorno, e i miei nervi si attorcigliano manco fossero finiti in mezzo a uno strumento di tortura medievale. È colpito o no? Non riesco a capirlo. Se la sua espressione facciale fosse il motore di una macchina, adesso avrebbe appena messo in folle. La verità è che la mia storia lavorativa è stata ritoccata e riempita di frottole ed esagerazioni. Lo facciamo tutti. Fingiamo che quella volta in cui abbiamo aiutato la mamma a organizzare il capanno in giardino sia stato il nostro primo tentativo di start up. Ed ecco un’altra verità: non sono proprio qualificata per fare la consulente manageriale. Correzione: proprio. Non sono qualificata per fare la consulente manageriale. Non faccio la modesta, non mi sto sminuendo come fanno molte donne. Mano sul cuore, non ho mai fatto questo lavoro e nemmeno uno simile. Ho allungato di parecchio il brodo, nella speranza che il mio futuro (forse) datore di lavoro si annoi prima di rendersi conto che tra le mie esperienze lavorative annovero un impiego da barista a chiamata, uno da fattorina porta pizze e persino quello da fastidiosa voce robotica e invadente del tipo: «Le vorrei esporre la nostra offerta». Sì, ho lavorato in un call center.

    Michael non alza lo sguardo dal CV quando mi chiede: «Dimmi, Rachel, come sta Jed?».

    Mi coglie alla sprovvista. È l’ultima cosa che mi aspettavo da lui. Non dovrebbe mitragliarmi di domande? I cari, vecchi quesiti da colloquio?

    Perché vuoi questo lavoro?

    Che esperienza hai?

    Cosa sai di questa società?

    Ma del resto, è stato Jed a raccomandarmi, perciò… Tra tutti gli amici a cui avevo chiesto aiuto per trovare un impiego decente con una paga degna, Jed compariva senz’altro sulla lista dei Non alzerà un dito. Quando Michael Barrington mi ha chiamata di punto in bianco e ha detto che Jed gli aveva parlato di me, all’inizio ho pensato che fosse uno scherzo di pessimo gusto. Poi Michael mi ha invitata per un caffè e una chiacchierata, ed eccoci qui.

    Mi stampo un sorriso in faccia. Spero che non faccia di me la copia sputata di un pagliaccio un po’ macabro. Inspiro profondamente. Espiro. «Jed sta bene. Che ragazzo fantastico. Un santo».

    Michael continua a leggere. «Suona ancora in quella band indie?»

    «Ho sentito dire che sono piuttosto bravi». Mi trema la voce e perdo il fragile filo di aplomb a cui mi aggrappavo disperatamente.

    Sobbalzo, Michael è scoppiato a ridere. Quasi sprofondo nella sedia. La coppia al tavolo accanto ci guarda come se la risata fosse un qualche tipo di farmaco miracoloso di cui si farebbero volentieri un’iniezione. «Scherzi, spero. Sono dei dilettanti allo sbaraglio. Li ho visti in un pub infimo e sembravano delle galline schiamazzanti. Avevano una tizia strafatta con le mèche blu al basso. Non azzeccava una nota, anche se Jed aveva messo sopra alle corde delle linguette colorate per farle vedere dove dovevano andare le dita».

    Mi unisco alle risate, i miei ah-ah-ah intermittenti sembrano artefatti. Ovviamente non sottolineo che sono io la tizia strafatta con le extension blu chiamata a sostituire il bassista abituale di Jed, assente per colpa di un’intossicazione alimentare.

    Le ciocche blu sono belle che andate. Ora indosso uno dei due soli completi eleganti che possiedo. Ho perso peso, quindi l’abito mi inghiotte, restituendo l’immagine di una ragazzina triste che gioca a travestirsi. Mi sono rimboccata le maniche della camicetta, così Michael non può vedere i polsini logori. Che è un buon aggettivo per descrivere come mi sento. Logora.

    Michael sospira, piega a metà le pagine del mio CV e continua a piegare e piegare fino a ridurlo alle dimensioni di una cartolina. Lo fa cadere nello zaino aperto. Anche il mio cuore pieno di speranza precipita nello stesso istante.

    I suoi occhi magnetici perforano i miei. «Secondo me, non dobbiamo lasciare che quel guazzabuglio di dati ci intralci ancora».

    È finita. Ho chiuso. Vorrei mettermi a piangere. La mia ultima speranza… e ho mandato tutto all’aria. La mia vita è finita. Finita.

    Michael sembra perplesso. «Dove vai?».

    Sono in piedi, vacillante. Di sicuro inciamperò e finirò gambe all’aria. Sapevo che era un tentativo disperato, ma era pur sempre un tentativo, e quando ti trovi in una situazione come la mia, è tutto ciò che ti rimane.

    Michael mi fa cenno di riprendere il mio posto. Ma ne ho avuto abbastanza. Voglio andarmene. Sono stufa marcia. Se avessi ancora la mia auto, che ho venduto qualche mese fa, andrei a sbattere contro un muro di mattoni a tutta birra. Farei un piacere a tutti.

    Ma lui ripete il gesto di poco prima e io mi ributto sulla sedia.

    Michael si risistema. «Rachel, è il momento della verità».

    Verità? Se sapesse qual è la verità in cui mi dibatto io, ho il sospetto che mi direbbe di lanciarmi dalla finestra.

    «Non sono le qualifiche e l’esperienza a fare colpo su di me», continua, con tono misurato e piatto. «Tanto possono essere tutte inventate. Ho assunto ragazzi super qualificati che non riuscivano neanche ad allacciarsi le scarpe. D’altra parte, ho collaborato con giovani che sono entrati nel mondo della consulenza senza esperienze pregresse. Il punto è che non si può mai sapere».

    Intreccia le dita mentre si china in avanti, i suoi occhi incontrano i miei. «Sei affidabile e leale? Perché è l’unica cosa che conta. Mi capita spesso di svolgere incarichi confidenziali e delicati per conto dei miei clienti. Non posso permettermi di assumere persone sleali e inaffidabili. Non posso rischiare di assumere qualcuno che deluda l’azienda».

    «Sono leale. Affidabile», dichiaro con estrema sicurezza. Non sto mentendo. Ma non sto nemmeno dicendo tutta la verità. C’è stata quell’estate… Non pensarci nemmeno. Mi catapulto fuori dal mio passato maledetto.

    Uno scintillio addolcisce lo sguardo determinato di Michael. «E diciamocelo, esagerare con la sincerità è l’unico mantra aziendale. Gestisco un’attività, non l’Esercito della Salvezza. A volte bisogna prendere qualche scorciatoia se si vuole andare avanti… mi capisci?». Un sorriso danza sulle sue labbra e fa risaltare le profonde fossette sulle guance.

    Prendo il caffè tiepido e lo bevo tutto d’un fiato, placando la gola secca.

    Michael mi studia per qualche secondo. «Jed ha fatto bene a parlarmi di te. Mi piaci, Rachel. Ho un buon presentimento e mi fido del mio istinto. Ecco cosa farò. Inizieremo con un contratto di un mese. Vieni in ufficio domattina e se nelle prossime quattro settimane riuscirai a prendere dimestichezza con le basi, faremo un’altra chiacchierata per trovare un inquadramento più a lungo termine. In caso contrario, ne avrai comunque ricavato qualche migliaio di sterline, più un bel bonus. Può andare?».

    Sono sbalordita. Non riesco a rispondere. Migliaio? Bonus? Michael è come un albero dalle foglie multicolori: banconote da dieci marroni, da venti viola e da cinquanta rosse che soffiano nella brezza dei suoi rami. Cavolo, sì che mi va bene. Posso dare spettacolo twerkando con gioia per i tavoli? Non riesco a crederci. Ma una vocina insistente nella mia testa mi ammonisce: Se è troppo bello per essere vero…

    Quindi, dico in modo cupo: «Ma la mia carriera non si adatta esattamente al lavoro che mi viene offerto». Deglutisco nonostante il groppo in gola. «Non voglio deluderti».

    Tutto ciò che ottengo in cambio è uno sguardo fisso che aumenta la tensione. Mi fa venire voglia di rimangiarmi le mie parole sincere, premere RIAVVOLGI e ricominciare tutto da capo.

    «È qui che non siamo d’accordo», replica alla fine. «Hai lavorato nei call center, il che significa che sai come parlare al telefono con i clienti. Non solo, ma avrai imparato l’arte della persuasione. E se lavorare in un bar non ti ha insegnato a gestire lo stress…». Il suo sguardo si fa più profondo. «Questo è il tipo di competenze di cui ho bisogno nella mia organizzazione. Se sei pronta per la sfida, il lavoro è tuo».

    Una calda e inebriante sensazione di riconoscenza mi travolge. Sono stordita. Rachel Jordan, che a diciotto anni aveva deciso di conquistare il mondo, ma che invece è finita nel dimenticatoio insieme ai rifiuti della società, ha finalmente avuto un’altra occasione. Questo lavoro non solo mi farà uscire dalla mia situazione a dir poco complicata, ma mi darà anche l’opportunità di riscattarmi. Due piccioni con una fava.

    «Vorrei entrare a far parte della tua azienda».

    Michael annuisce soddisfatto mentre tira fuori dallo zaino una serie di fogli spillati. Me li passa. «È un contratto a breve termine. Termini e condizioni standard. Prendilo e leggilo. Non vorrei che temessi di essere incatenata a vita».

    Incatenata a vita? Se solo sapesse che mi sta rimettendo in vita.

    Si alza in piedi, il segno che il colloquio è giunto al termine. «Allora ci vediamo domattina, di buon’ora, e spero con un contratto firmato». Si infila lo zaino in spalla e si volta. Poi esita. Oh, diamine, forse avrei dovuto offrirgli un caffè. Sto per scusarmi – di nuovo – ma l’espressione che assume quando si rigira mi paralizza. I suoi bei lineamenti hanno un’intensità scolpita che mi suggerisce che quello che sta per dire è davvero importante per lui.

    «Siamo come una famiglia».

    Tutto qua. Nient’altro. Poi se ne va, lasciandomi aggrappata all’ancora di salvezza del contratto. Mi scrollo di dosso tutte le preoccupazioni. Lentamente, e con una pace che non provo da secoli, sorrido.

    Ho ottenuto il lavoro. Ora niente può andare storto.

    2

    Non appena entro in camera mia, la finestra mi richiama a sé in silenzio, come sempre. Inizio il rituale. Mi avvicino. Guardo il giardino incolto. Abbasso il mento per vedere meglio quello che c’è sotto di me. Un patio di cemento ormai fatiscente, che le erbacce e la mancanza d’affetto hanno spaccato e frantumato. È una caduta di nove metri circa. Se mi buttassi, probabilmente morirei. Diventerei un groviglio immobile e contorto di membra e sangue. Mi lascio la finestra alle spalle, il rituale è finito.

    Dopo il colloquio, felice come una pasqua per aver fatto centro con il lavoro, sono tornata subito qui, in una casa che condivido con altre sei persone. Ma una volta chiusa la porta d’ingresso, il corridoio squallido e trascurato mi ha subito strappato via l’allegria. Odio questo posto. Mi stanno antipatiche quasi tutte le persone che ci vivono. Come la donna che, non appena mi ha visto entrare nella cucina in comune, ha girato la testa per fissarmi come un avvoltoio che fiuta la preda. Non ho potuto fare a meno di notare la sua bocca arricciata in un’espressione acida. L’odore che mi arrivava al naso sapeva più della sua ostilità che del cibo piccante in pentola. Fin qui niente di nuovo: gli altri coinquilini non si interessano minimamente a me. Guarda che neanch’io voglio stare in questo tugurio, carina, stavo per gridare. Oppure avrei potuta sfidarla con un fatti sotto fissandola torva. E invece no. La straziante verità è che non ho nessun altro posto dove andare.

    Così ho fatto buon viso a cattivo gioco e mi sono diretta verso le scale, stringendo forte il corrimano malfermo e traballante. Prima o poi qualche povera anima sfortunata ci rimetterà la pelle e si romperà l’osso del collo. È quel tipo di casa. Chi sia il proprietario non lo sa nessuno, quindi gli inquilini hanno il numero dell’agenzia immobiliare tra le chiamate rapide. Ci sarebbe una lunga lista di riparazioni, che però vengono effettuate di rado. Gli affittuari cercano di porre rimedio ai vari disastri come meglio possono. Come il termosifone, butterato dalla ruggine, davanti al quale sono passata sul pianerottolo del primo piano, che pende vistosamente nonostante il blocco di legno incastrato sotto. O le chiazze mortali di parquet marcio che i miei piedi hanno evitato con attenzione mentre attraversavo il corridoio al piano di sopra per entrare in camera.

    La mia camera. Con il respiro corto, studio la stanza che è diventata la mia tana. Non è né troppo grande, né troppo piccola. C’è spazio a sufficienza per me e per tutto ciò che possiedo. In un angolo c’è un letto stretto spinto contro una parete bianca e vuota; i miei vestiti e gli altri beni di prima necessità riposano in uno zaino di media grandezza, sistemato su un tappeto che una volta era color crema ma che ora ha una tonalità attenuata dagli eccessi della vita.

    È stato Jed a correre in mio soccorso quando sono stata buttata fuori dall’appartamento dove vivevo. Un’amica mi aveva permesso di stare da lei sul divano per qualche settimana. Ma quando le settimane si sono trasformate in un paio di mesi, la sua pazienza si è esaurita e alla fine mi ha rivelato il suo lato peggiore, il che mi ha fatto capire che dovevo andarmene. Un’altra amicizia buttata nel secchio della spazzatura. Jed mi ha aiutata e mi ha trovato una sistemazione temporanea dove alloggia anche lui. Ancora una volta, sono sulla buona strada per trasformare poche settimane in mesi.

    La cosa peggiore è che potrei risolvere tutti i miei problemi con una sola telefonata. E far sparire ogni preoccupazione. Ma è una telefonata che non potrò mai fare. Al mio cellulare saranno fischiate le orecchie perché si mette a squillare. È mio padre. Il mio cuore si innalza e sprofonda in un unico movimento fluido.

    «Ciao, papà!».

    «Ciao, tesoro». Intuisco l’ampio sorriso che di solito illumina il suo viso anche se non riesco a vederlo. «Come sta la mia principessina? E perché Sua Altezza Reale Rachel non chiama più il suo povero vecchio papone solo soletto?».

    Faccio un respiro profondo. «Lo so, lo so, sono una figlia terribile, ma ho così tante cose da fare adesso che non ho un secondo per me stessa».

    Come sempre, capisce, non mi dà mai del filo da torcere. «Non devi scusarti con me. Non c’è bisogno che mi parli di quanti sacrifici richiede salire la scala del successo». Le sue parole mi turbano un po’, percepisco vecchi rimpianti che non riesce a mascherare. Non gliene faccio una colpa per essere stato un padre assente, perché ha lavorato come un forsennato per dare una vita migliore a me e alla mamma.

    Continua: «Ma se di tanto in tanto potessi trovare un buchetto di cinque minuti nella tua agenda fitta di appuntamenti per fare una chiacchierata con il tuo vecchio, sai quanto sarebbe importante per me».

    Mi sento malissimo perché lo so eccome. Lo so perfettamente. Papà non solo mi ha regalato tutto ciò che una figlia può desiderare, ma soprattutto mi ha voluto bene, mi ha adorata. Mi avvicino alla foto delle vacanze incorniciata che occupa il posto d’onore sulla mensola del camino. Io e lui. Sorride nonostante il sole che brilla nel cielo spagnolo lo accechi, con il braccio sulla mia spalla come se non volesse lasciarmi andare mai più. La mia espressione è più una smorfia che un sorriso. Tipico di un’adolescente. Nessuna foto di mamma. È ancora troppo doloroso, anche dopo tutti questi anni.

    Mi volto e dico: «Avevo davvero intenzione di chiamarti, ma ho appena cambiato lavoro e sono entrata a far parte di una società di consulenza manageriale, quindi sono molto, molto impegnata».

    «Bene! Un settore niente male». Nasconde la sua disapprovazione nei confronti dei consulenti manageriali. A suo parere, non si fa consulenza negli affari, ci si rimboccano le maniche e ci si rompe la schiena. «Che azienda è? Forse li conosco».

    «Non credo, non sono nel settore edile». Con mio grande sollievo, sento tre forti colpi sulla porta. È Jed, gli altri si tengono alla larga da me. «Devo scappare, papà, c’è

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