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Tre cadaveri - Due omicidi diabolici - Sei sospetti per un delitto
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Tre cadaveri - Due omicidi diabolici - Sei sospetti per un delitto
E-book1.439 pagine19 ore

Tre cadaveri - Due omicidi diabolici - Sei sospetti per un delitto

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Info su questo ebook

Le indagini di Goffredo Spada

3 grandi thriller

Genova. Tre donne sono state ritrovate morte, e ogni scena del delitto è un’efferata rappresentazione. Si tratta di un serial killer o di una setta di invasati? L’ispettore capo Manzi viene incaricato di condurre le indagini, e decide di chiedere aiuto a Goffredo Spada, un ex poliziotto. Spada, però, non è per niente collaborativo. C’è qualcosa nel suo passato che lo tormenta… 

Mentre l’attenzione della città è concentrata sulla visita di papa Francesco, la Squadra Omicidi è in fermento a causa di un delitto brutale: una donna è stata sequestrata nel suo appartamento e uccisa barbaramente. Goffredo Spada viene convocato all’abbazia di Santo Stefano, dove l’abate è stato minacciato di morte. Che cosa si nasconde dietro la nuova ondata di violenza che ha colpito Genova? 

Mentre la folla defluisce dal salone nautico di Genova, un fuoristrada invade il sottopassaggio e investe decine di persone. Due uomini escono dall’abitacolo e, armati di coltelli, lasciano dietro di sé morti e feriti. Dopo due mesi dalla tragedia, viene segnalata la sparizione di Nino Barbieri, un sospetto fondamentalista. L’ispettore Manzi avrà ancora bisogno dell’aiuto dell’ex poliziotto Goffredo Spada e della giornalista Orietta Costa per impedire che il terrore si abbatta sulla città.

Uno straordinario talento del thriller italiano

«Un romanzo dal ritmo adrenalinico: scrittura essenziale, colpi di scena e personaggi dalla doppia vita.» 
La Repubblica 

«Il colpo di scena dell’epilogo spiazza il lettore.» 
Il Fatto Quotidiano

«Bello, arguto, scorrevole, teso, personaggi ben costruiti e realistici. Insomma un bell’omaggio noir alla nostra tanto bella quanto bistrattata Genova…»  

«Leggetelo. Ne vale la pena. Ben orchestrato, magistralmente dipanato. Davvero un bellissimo giallo che ti tiene inchiodato dalla prima all’ultima pagina.» 

«Una lettura scorrevole con un finale del tutto inaspettato.»
Raffaele Malavasi
È nato a Genova ed esercita la libera professione. Da sempre accanito lettore, ha una passione per i gialli. La Newton Compton ha pubblicato con successo Tre cadaveri e Due brutali delitti, con protagonista l’ex poliziotto Goffredo Spada.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2021
ISBN9788822755018
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    Anteprima del libro

    Tre cadaveri - Due omicidi diabolici - Sei sospetti per un delitto - Raffaele Malavasi

    Tre cadaveri

    Prologo

    La visibilità è scarsa. Decide di accostare.

    I lampioni gettano un tenue barlume sulle altre auto e sulle poche persone in giro. La pioggia ne distorce il riflesso, le rende opache e deformi.

    Deve tenere salde le mani sul volante perché stanno tremando. È da quando ha lasciato sua figlia in piscina che è stata colta da quel fremito. Non riesce a controllarlo. Parte dalla zona lombare della schiena e si propaga lungo le braccia.

    Non conosce granché il quartiere di Quinto, ma la strada principale, dove si trova adesso, questa sì.

    Guarda con attenzione davanti a sé. A poca distanza ci sono delle strisce pedonali, anche se le percepisce a stento come macchie biancastre sull’asfalto.

    Pensa che non passerà molto e dovrà tornare indietro, in Albaro, per prenderla all’uscita dal nuoto.

    Guarda l’orologio sul cruscotto. Lo confronta con quello da polso. La lancetta dei minuti, che si sta avvicinando al cinque, le provoca un tonfo al centro del petto.

    Ci dev’essere il mare mosso perché sente provenire dalla sua destra lo scroscio regolare e intermittente delle onde sugli scogli. Le sembra di percepirne l’odore, fragranza di sale e frutti di mare.

    Per un attimo pensa alla sabbia di Stintino, all’ultima estate, a quando la vita sembrava sotto il suo pieno controllo. Ai suoi figli che si tuffano dalla piattaforma e a suo marito che la aspetta con due Pimm’s tra le mani.

    Pensa alla crociera nel Mediterraneo, l’inverno scorso.

    Ma non deve distrarsi. Non può permetterselo. Inspira profondamente con il naso e butta fuori l’aria, tutta.

    Ecco, è venuto il momento di ripartire. I battiti aumentano.

    Ingrana la prima e schiaccia a fondo l’acceleratore. Si immette nella corsia appena prima che un’altra auto sopraggiunga. Una vettura nel senso opposto ha gli abbaglianti accesi. Per un attimo è accecata.

    Un uomo sulle strisce. Lei non riesce più a fermarsi. Prova ad accelerare e il pedone a tornare indietro, ma è troppo tardi. La testa dell’uomo picchia sul cofano, le gambe inghiottite sotto. L’auto va avanti ancora cinque metri. Ancora dieci metri. Solo adesso si ferma. La testa dell’uomo è rimbalzata due, tre volte, poi è sparita sul davanti come risucchiata da un vortice.

    Apre lo sportello ed esce con le mani sulle guance livide. Vacilla. La gente accorre, urla, indica. L’uomo giace sotto l’auto, la testa schiacciata dalla ruota anteriore.

    Arriverà tardi a prendere sua figlia.

    Una nave da crociera passa in quel momento. Proprio davanti a lei, al largo.

    1

    Manzi allargò le braccia, sbadigliò ed emise una specie di muggito; era il suo verso abituale, che suscitava sorrisi tra chi frequentava abitualmente quegli uffici e corridoi, e lasciava interdetti i nuovi arrivati.

    Non era certo la reazione più appropriata alla telefonata appena ricevuta, ma di quel sopralluogo alle undici di sera avrebbe fatto volentieri a meno. Allacciò la fondina, indossò il giubbotto ed entrò nella sala operativa. In servizio c’erano Giustini e la Weiss.

    «Orsi, ti va una gita sui monti? Andiamo».

    Manzi non aveva esitato un istante. Il sovrintendente capo Giustini avrebbe subito cominciato a menarlo con mille domande, e di cosa si tratta, e proprio a quest’ora di notte, e perché io e non la Weiss, e sarebbe andato avanti per tutto il tragitto. L’assistente capo Orsola Weiss, invece, era già al suo fianco.

    Salì con lui sulla Leon bianca senza fiatare. Manzi, al volante, si diresse a velocità sostenuta verso Circonvallazione a Monte. Una pioggerella carica di sabbia portata a Genova dall’insistente scirocco iniziò a insozzare il parabrezza.

    Per l’intero percorso la Weiss restò in silenzio, rigida e impettita come la sua corta capigliatura bionda. Non spiccava certo per brillantezza, ma era un ottimo agente, la più affidabile dell’intera Sezione Omicidi e Reati contro la persona della Squadra Mobile. E le poche volte che parlava, solo quando interpellata, non mancava mai di rivolgersi a lui iniziando o finendo la frase con ispettore.

    Dopo alcuni minuti erano in via Carso. Parcheggiarono sul ciglio della strada dietro alcune autovetture, tra le quali una della Polizia Municipale. Era stato proprio un vigile urbano ad avvisare la Squadra Mobile, vista la natura del ritrovamento.

    La pioggia era diventata più fitta. Manzi imprecò tra sé vedendo le lampade che illuminavano la piccola folla radunata in fondo al pendio, oltre il ciglio della strada. Col terreno scivoloso e la pendenza ripida, arrivare laggiù sarebbe stato tutt’altro che agevole.

    Presero le torce e iniziarono la discesa. Mentre si aggrappava agli arbusti e ai tronchi degli alberi, con le scarpe che affondavano sempre più nel fango, Manzi aveva l’impressione che la Weiss, con le sue gambe lunghe allenate dallo squat, se la cavasse molto meglio di lui.

    Quando raggiunsero la spianata in fondo, non gli sfuggì il modo in cui lei si fece da parte per permettergli di precederla di nuovo e farsi largo tra le persone disposte a semicerchio.

    «Ispettore Gabriele Manzi», fece lui per richiamare l’attenzione dei presenti.

    Tutti si voltarono, Manzi avanzò e puntò la torcia a terra, da cui si alzavano sbuffi di fumo, come se le gocce evaporassero non appena toccato il suolo. Al centro dello spiazzo, la terra rivoltata e più scura sembrava formare una toppa che spiccava rispetto al resto del terreno. C’era una buca, lì sotto, che era stata ricoperta da poco. E dalla buca emergeva un oggetto che a prima vista Manzi non riuscì a identificare.

    «Resti di animale?»

    «Non sembrano resti di un animale», disse uno dei due vigili urbani. Gli sembrò di riconoscere la voce. Aveva preso lui la telefonata, durante la quale l’uomo aveva parlato di «reperti biologici di non immediato riconoscimento, molto probabilmente di una bestia, ma non ne siamo certi».

    L’ispettore fece qualche passo in avanti e poggiò un ginocchio sulla terra umida. Poi abbassò il palmo della mano. Dal terreno proveniva un chiaro, persistente tepore.

    Restando accosciato, si voltò un attimo, come a prendere tempo o a cercare conferme inesistenti. Di colpo, l’ansia aveva iniziato ad annodargli lo stomaco.

    Puntò meglio la torcia, e prese a esaminare da vicino quella che sembrava la parte terminale di un osso. Sbucava in verticale da terra. Non si trattava di un osso integro ma presentava sulla punta una frattura obliqua, annerita da tracce di fuliggine. Intorno al moncone si scorgevano i tessuti della zampa o dell’arto al quale era appartenuto. Non risultavano visibili in modo chiaro a causa del fango e dei danni provocati da probabili bruciature.

    «Chi lo ha scoperto?»

    «Un residente qui vicino», rispose il vigile. «Un ragazzo che stava portando il cane a passeggio lungo la strada. Dice che a un certo punto l’animale è come impazzito, il guinzaglio gli è sfuggito e quello si è precipitato in mezzo agli alberi fino ad arrivare quaggiù. Quando è riuscito a raggiungerlo, lo ha trovato agitatissimo che stava scavando. Dice che ha faticato a tirarlo via per il guinzaglio. Solo dopo si è accorto dell’osso, o di che diavolo è quell’affare, e ha chiamato noi».

    Mentre ascoltava il resoconto del vigile, Manzi notò che a meno di mezzo metro dal moncone qualcos’altro sporgeva appena da terra. Anch’esso di colore biancastro con striature brunite.

    Si rialzò e digitò sul telefono il numero della centrale. Sbuffò sentendo la voce che rispondeva.

    «Giustini, qui c’è da organizzare il recupero di un cadavere», disse perentorio. «Potrebbero essere resti umani. Date le condizioni di quel poco che si vede sarà il caso di preavvertire la Procura». Parlando, usciva dalla cortina dei presenti. «No, non è decomposto, anzi sembra ben conservato. Lo ha trovato un cane».

    «Un pastore belga», specificò il vigile che l’aveva seguito.

    Manzi gli scoccò un’occhiata. «Un pastore belga», ripeté poi al telefono, «come quelli delle unità cinofile».

    Giustini stava prendendo nota all’altro capo del filo, quando la testa di Manzi scattò verso l’alto allontanandosi dal cellulare. Infilò in tasca il telefono ancora acceso e si precipitò sulla buca.

    «Weiss, aiutami, presto», urlò, e prese a scavare con le mani intorno al moncone più sporgente, col fango e i granelli di terra tiepida che gli si infilavano sotto le unghie.

    Era una possibilità che non poteva scartare, perché non ci aveva pensato subito?

    Quando il mezzo braccio portato alla luce si mosse con un sussulto ebbe la conferma della sua intuizione: lì sotto c’era una persona. Ed era ancora viva.

    2

    «È vivo o morto?».

    In effetti, visto dal divano, sembrava proprio morto.

    Goffredo Spada si stropicciò gli occhi, appoggiò sul tavolinetto il libro che già da alcuni minuti gli si era socchiuso tra le mani e, con uno sforzo titanico, si mise in piedi.

    Suo figlio Lorenzo se ne stava con il naso spiaccicato sul vetro dell’acquario, l’occhio destro in ispezione ravvicinata di Pecos, il pesce cometa che avevano comprato la settimana prima. Pecos stazionava immobile al centro della vasca, in una strana posizione obliqua, come un relitto abbattuto sul fianco sinistro.

    Anche Bill, il pesce angelo, appariva molto preoccupato e vorticava frenetico intorno all’amico.

    Per la verità, Goffredo Spada aveva sentito dire spesso da suo figlio che quei pesci non erano affatto amici. E in effetti tra i due vi era o vi era stata un’accesa rivalità, soprattutto quando arrivava l’ora di mangiare.

    Bastava che lui o Lorenzo si avvicinassero con la scatola del mangime in mano e subito i pesci si scatenavano in una specie di danza tortuosa tutta codate e spintoni, finché uno dei due non si veniva a trovare nella posizione ideale per inghiottire i bocconi più grossi. Era quasi sempre Bill a prevalere, con grande dispiacere di Lorenzo che, forse per solidarietà cromatica (era rosso pure lui), parteggiava per Pecos.

    «Il gingerismo alla fine ha trionfato?», domandò Goffredo.

    Lorenzo strabuzzò gli occhi verso il padre.

    «Papà, dài», disse Lorenzo picchiettando sul vetro, senza staccare gli occhi da Pecos. «Ti sei scordato che ho undici anni? Vuoi dire che è morto del tutto?».

    Proprio in quel momento Pecos diede un colpo di coda, si rimise in asse e prese a vagare placido per l’acquario, seguito a ruota da Bill.

    «Evvai!», urlò Lorenzo. «Niente gingerasmo, papi».

    «Gingerismo, Pongo. Ma non c’entra con essere vivo o morto. C’entra con il colore».

    Pongo era il nomignolo che la madre di Lorenzo gli aveva affibbiato verso i tre anni, quando la plastilina era diventata il suo gioco preferito.

    «Il colore? Il colore di Pecos?»

    «Esatto, il rosso. Ti ricordi quando l’altro giorno mi hai detto che spesso i tuoi compagni ti prendono in giro?». Goffredo tornò sul divano, prese Lorenzo per le spalle e lo fece sedere sulle proprie ginocchia. Era già da un po’ che voleva affrontare quel discorso, anche se non era sicuro che suo figlio avesse già l’età giusta per comprenderlo.

    «È Federico, quando mi ha fatto cadere. Sembri un pomodoro schiacciato vicino a una cacca puzzolente, mi ha detto quando ero per terra. E tutti quegli stronzi a ridere».

    «Ehi, niente parolacce», si sforzò di correggerlo, anche se la pensava esattamente come il figlio. «Tu te ne devi fregare, Lorenzo. Sai quanto hanno preso in giro me quando avevo la tua età? Crescendo, i capelli sono diventati quasi castani, ma da piccolo li avevo rossi come i tuoi, forse di più. Quasi arancioni. Non ridere, davvero. Ed ero pure pieno di lentiggini, anche se adesso si vedono meno».

    Tornato di colpo serio, Lorenzo lo guardò con la fronte aggrottata. La sua mimica facciale era irresistibile per Goffredo.

    «È questo che volevi dire con quella cosa del ginger?»

    «Più o meno. Il gingerismo è quando i ragazzi bulli prendono in giro quelli come me e come te che hanno i capelli rossi».

    «E perché non se la prendono con i biondi, allora?».

    Bella domanda. Neanche lui l’aveva mai capito. E nemmeno sua madre, la vera rossa di famiglia, era stata in grado di spiegarglielo.

    «Questo non te lo so dire. Forse siamo più… rari. E questo ad alcuni fa paura. Così c’è chi reagisce in modo stupido. Capita spesso che le diversità vengano affrontate in modo stupido, purtroppo».

    «Ok, papi. Quindi, quando succede di nuovo, glielo posso dire: perché mi stai gingerando?».

    Goffredo sorrise e con una mano gli arruffò i capelli.

    «Dài, a dormire, che domani la sveglia suona presto».

    «Uff, devo proprio andarci a scuola? La settimana dovrebbe essere più corta e finire giovedì!».

    «Fila! Te la do io la settimana corta».

    «Okay», disse Lorenzo rassegnato, trascinando le ultime vocali. «Ciao Pecos, ciao Bill. Buonanotte».

    Goffredo seguì con gli occhi il figlio che ciondolava verso la cameretta. Lo vide entrarci con un saltello a piedi uniti. Pensò che tutto sommato il gingerismo era sopportabile; sarebbe durato ancora poco, viste le spalle e la statura di suo figlio, che sembrava aumentare di giorno in giorno. Presto, anche i bulli più ostinati l’avrebbero lasciato perdere. Così era successo a lui.

    Le cose, come sempre, si sarebbero sistemate da sole. Non tutte però.

    Un fitta acuta gli morse lo stomaco, al pensiero di quell’altra faccenda che avrebbe potuto segnare la vita di suo figlio. Forse anche quella difficoltà prima o poi sarebbe stata domata, o almeno ridimensionata, fino a poterci convivere. Mai, però, avrebbe potuto superarla del tutto.

    3

    Tutto ciò che Manzi aveva dovuto vedere nel corso degli anni lo aveva temprato. Questo era ciò che gli piaceva credere. In effetti, ne aveva viste di peggio, eppure quel corpo rattrappito, che inutilmente aveva contribuito a recuperare da sottoterra, gli provocò un conato che riuscì a sopprimere a fatica.

    Il cadavere giaceva adesso sul lettino di Medicina Legale, in larga parte carbonizzato. Il volto era deformato al punto da presentare sembianze diaboliche e, rivolto verso l’ingresso, lo aveva accolto con un’espressione ghignante.

    La dottoressa Delogu stava esponendo al commissario i primi risultati delle analisi dei tessuti. L’ispettore si unì a loro, cercando di dissimulare il suo malessere.

    Gli era apparso chiaro fin da subito che la donna che avevano cavato dal sottosuolo non aveva la minima possibilità di sopravvivere.

    Lo strato di terra che la ricopriva era poco profondo, venti o trenta centimetri. Avevano visto emergere via via un corpo nudo di donna rannicchiato in una singolare posizione. Le braccia erano protese verso l’alto, la prima cosa a risultare visibile. Mancavano però entrambe le mani. La pelle era coperta di bruciature, più accentuate sulle braccia e sulla schiena, dove l’epidermide aveva assunto la consistenza del cuoio e un colore violaceo.

    La terra rimossa era calda, e il calore aumentava a mano a mano che scavavano. Per completare l’opera di disseppellimento erano stati costretti a infilare dei guanti.

    Dopo un po’ il corpo non si era più mosso. Ma al termine delle operazioni Manzi aveva accostato il viso alla bocca tumefatta della vittima, ed era riuscito a percepire un debolissimo, sorprendente refolo di vita.

    La cosa strana era che in quel momento, preso dalla concitazione degli eventi e dalla foga del salvataggio, la vista del corpo martirizzato non lo aveva turbato più di tanto. Ma adesso, complici la luce fredda delle lampade alogene e il viso deturpato rivolto su di lui, era stato raggiunto da quel sussulto alla pancia.

    «La morte è sopravvenuta per stato ipermetabolico», stava spiegando la dottoressa, «provocato dalla grande estensione delle ustioni, che hanno determinato un collasso tessutale e la perdita delle riserve proteiche. Le ustioni coprono il novanta per cento del corpo, ma solo quelle alle braccia e alla schiena sono di grado superiore al secondo».

    «Quindi è stata arsa e poi sepolta viva?», domandò il commissario Dondero, abbassando gli occhiali sulla punta del naso. Manzi notò quanto fosse pallido. Anche lui doveva essere rimasto piuttosto scosso dallo stato del cadavere.

    «Viva di sicuro, è deceduta poco dopo l’arrivo in ospedale. Ma non è chiaro se le bruciature siano state inflitte prima o dopo il seppellimento».

    «In che senso, scusi?», domandò il commissario.

    La dottoressa esitò alcuni istanti. «Nel senso che ho riscontrato due tipi di bruciature: quelle su gran parte del corpo, e in particolare sulla schiena, sembra che siano state provocate dal contatto prolungato con un agente a media temperatura, non dall’effetto intenso ma breve del fuoco o di un oggetto incandescente. Infatti le fibre muscolari risultano alterate in modo uniforme, sono sfilacciate, non destrutturate».

    Dondero e Manzi si guardarono, come se cercassero l’uno nell’altro risposte che non potevano avere. Fu l’ispettore a intervenire: «La terra tutt’intorno, specie sotto il corpo, era molto calda. La Scientifica ne ha prelevato alcuni campioni e li sta esaminando. Può essere quello l’agente che ha causato le ustioni quando il corpo era già stato sotterrato?».

    Manzi aveva già collaborato più volte con la dottoressa Caterina Delogu. Era un medico legale di notevole esperienza. Le sue analisi risultavano sempre molto precise e dettagliate, ed esposte con estrema consapevolezza. Per questo il suo turbamento cresceva nel vederla stavolta meno padrona della situazione.

    «Mah… Al momento è difficile fare delle ipotesi. Di sicuro non può essere quella la causa delle bruciature alle mani».

    «Alle mani?», esclamò Dondero. «Quali mani? Non mi risulta che siano state trovate».

    «Infatti, sono state asportate con due troncature nette di ulna e radio, poco sotto il polso. Una lama molto pesante, forse. Ma è presumibile che prima abbiano subito una gravissima ustione, viste le condizioni dell’epidermide nella zona finitima. Vi sono tracce di un’ustione di quarto grado che ha raggiunto le ossa in prossimità della troncatura».

    «Cazzo!», Manzi chiuse gli occhi e sollevò la testa verso i neon sul soffitto. Poi la riabbassò, osservò i moncherini, adagiati sul ventre della donna. Qual era stato il senso di sottoporla a una simile tremenda agonia? Immaginò per un attimo la terra che veniva scaricata sul corpo, inerme ma vigile. Provò a ricostruire: «Quindi l’assassino le ha bruciato le mani, gliel’ha tagliate e poi l’ha sepolta viva, scaldando la terra della tomba per cuocerla a fuoco lento. È così?».

    La Delogu si limitò ad annuire.

    «Era nuda. Segni di abusi?», chiese Dondero, dopo mezzo minuto di riflessioni silenziose.

    «No, abusi sessuali da escludere, per quanto sia stato possibile accertarlo. È difficile, per ora, verificare danni diversi dalle ustioni».

    «Invece cosa ci dice della donna, dottoressa?», riprese il commissario. «Che elementi ci può fornire per il riconoscimento?»

    «Be’, da quanto ho potuto appurare finora si tratta di una femmina caucasica di età compresa tra i quaranta e i cinquanta anni. Nessun segno particolare rilevabile, a parte un impianto protesico in titanio sulla testa del femore. Non conosciamo per ovvi motivi le impronte digitali. Le iridi risultano danneggiate dal calore ma abbiamo cercato di isolare una porzione di stroma per misurarne la densità di proteine. Occhi azzurri. Capelli biondi, castani naturali, di lunghezza poco sopra le spalle. Denti tutti presenti, a parte i due ottavi dell’arcata superiore, in ottimo stato di conservazione. L’incisivo superiore sinistro per larga parte ricostruito in composito».

    I due poliziotti si consultarono ancora con lo sguardo.

    «Grazie, per ora. Rimaniamo in attesa del suo rapporto come al solito».

    Dondero si diresse verso l’uscita e Manzi lo stava imitando. Ma ebbe un ripensamento.

    «Un’ultima cosa, Caterina», riprese tornando sui suoi passi. «Mentre scavavamo, sul collo della vittima, sotto il mento, abbiamo trovato un oggetto di plastica rigida a forma di semisfera, fissato con uno spago che passava dietro la nuca».

    «Sì, sì, l’ho visto. Era di sicuro fissato davanti al naso e alla bocca. È stato messo per fornire alla vittima una specie di camera d’aria, in modo che potesse continuare a respirare».

    «Dice che l’assassino lo ha messo per farla sopravvivere?», domandò incredulo Dondero.

    «No, non penso», rispose lei. «È probabile che lo abbia usato per un altro scopo: farla morire più lentamente».

    4

    Lento, sempre più lento. Ogni minuto, ogni singolo secondo scorre davanti ai suoi occhi. Li può visualizzare, i maledetti secondi, dare a ciascuno un numero progressivo e metterli in fila uno dietro l’altro. Formano una sequenza interminabile, una linea continua che parte dall’orizzonte e si snoda tra le colline, procede in mezzo alla vegetazione, si infila in una finestra socchiusa di un seminterrato, attraversa uno stanzone spoglio e striscia sotto una porta sprangata. Le passa di fronte agli occhi, quella linea, accompagnata da un rintocco metallico che scandisce ogni singolo attimo che la compone.

    Il rumore rimbomba nella sua testa. È una goccia. Tintinna da un rubinetto mal chiuso, forse lasciato così di proposito. Le fa credere di impazzire.

    I polsi e le caviglie sono scavati dalle corde. Le labbra arse, disidratate. La brocca dell’acqua a poca distanza, ma fuori dalla sua portata. Le dita delle mani martoriate, alcune forse rotte, le unghie strappate. Il naso è ormai assuefatto a quel fetore insopportabile. Odore di umido che è penetrato nelle pareti spoglie. Odore di muffa che ha imputridito il linoleum grigio del pavimento. Ma quello che prevale su tutti è il suo stesso odore. Il sudore e l’urina hanno impregnato il materasso buttato a terra, su cui giace, e i panni mezzo strappati che ha indosso. Escrementi in ogni angolo, contornati da insetti danzanti.

    Quanti giorni, settimane, forse mesi, abbia trascorso lì dentro, non è in grado di dirlo. Non può percepire l’alternanza di buio e luce. Il tempo è scandito solo dagli ingressi di lui.

    Eccolo, sta arrivando.

    Per molto tempo, ogni volta che sentiva il ticchettio dei suoi passi sugli scalini, e poi il cigolio del catenaccio esterno, veniva colta da un fremito che dal petto saliva in gola a privarla dell’ossigeno, quasi a farla svenire. Ora non più.

    Adesso l’accensione della lampadina che con un filo pende nuda dal soffitto, lo spalancarsi della porta di ferro, le procurano sollievo.

    La luce invade lo scantinato, accecandola per qualche istante.

    Lui si avvicina. Non dice una parola. In una mano ha la solita ciotola di plastica, nell’altra spunta uno degli attrezzi che ormai lei ha imparato a conoscere. Svuota la ciotola sul materasso, a poca distanza dal suo viso. Subito lei si protende, ruota il corpo e cerca di mantenere la posizione facendo leva sulle braccia, legate dietro la schiena. Riso bianco, asciutto, quasi secco. In un lampo è finito. E poi arriva l’acqua. Sul viso, uno zampillo che sgorga dalla brocca. Deve torcere il collo per raggiungerla con le labbra.

    Lui appoggia un ginocchio sul materasso e le mostra l’attrezzo: sono pinze da elettricista, con i becchi lunghi, allungati e un po’ piegati. Con l’altra mano le accarezza delicatamente il viso, prima una guancia e dopo il mento. Poi la mano scende e scosta dal petto la camicetta, ormai ridotta a uno straccio sudicio.

    Sente il freddo metallo su di sé, ma ormai la paura non la tocca più. Si irrigidisce quando le morse stringono. Addenta l’interno di una guancia per non dargli la soddisfazione di urlare. E ringrazia. Il dolore è lancinante, arriva a ondate intermittenti ogni volta che lui schiaccia, tira, ruota. Ma a quella sofferenza è grata; le si aggrappa con tutta se stessa. Perché è grazie a quel dolore che, nonostante tutto, conserva la consapevolezza di esserci ancora.

    5

    «Ancora un evviva per Giulia!».

    In mezzo agli applausi e alle voci di bambini e adulti si udì lo schiocco di una bottiglia stappata.

    Giulia ricevette la prima fetta di torta, tre dita di pan di Spagna e almeno il doppio di panna montata. Lasciò perdere il cucchiaino e provò a ficcarsela direttamente in bocca con le mani, riducendosi a una specie di pupazzo di neve. Panna sulle mani, su mezza faccia e sul collo.

    Lorenzo sghignazzò.

    «Cosa ridi, Lollo?», protestò l’amica, e gli spiaccicò sul viso i residui della fetta che le erano rimasti tra le dita.

    I genitori si erano subito ricompattati, intrecciando chiacchiere e flûte sul lato opposto del salone. Era grande quanto l’intera casa di Lorenzo, e dalle finestre si vedevano l’ingresso del porto e il palazzo della fiera del mare. Il papà di Giulia faceva un lavoro importante, architetto, ingegnere, Lorenzo non ricordava bene. Anche la loro macchina era così grande che tutti gli invitati ci sarebbero stati dentro.

    Lorenzo si pulì la faccia con la manica senza smettere di ridere. Giulia non era solo una compagna di classe. Con lei c’era un rapporto speciale da quando si erano conosciuti all’asilo. Ma negli ultimi mesi, dopo che la mamma di Lorenzo se n’era andata e il fratello di Giulia era morto, il legame si era fatto indissolubile. Non c’era Lorenzo senza Giulia, non c’era Giulia senza Lorenzo. In classe li prendevano in giro chiamandoli Giulietta e Lollomeo.

    Anche suo papà e la mamma di Giulia andavano parecchio d’accordo. Adesso erano in piedi, un po’ in disparte dal resto dei grandi, e li stavano osservando. Confabulavano fitto mantenendo gli occhi su di loro, sorridevano e ogni tanto si guardavano e annuivano con la testa. Grande e grosso com’era, suo padre la guardava dall’alto verso il basso. Vestito con la t-shirt nera fuori dai jeans sdruciti e le scarpe da ginnastica, era in netto contrasto con gli altri adulti. Tra tutti il più elegante era il papà di Giulia, con la giacca e la cravatta. Era al centro del gruppo dei padri, raccontava qualcosa e faceva larghi gesti con le braccia mentre tutti ridevano.

    «Ti è piaciuto il mio regalo?»

    «Certo, non hai visto?». Giulia tirò su la manica e mostrò il braccialetto d’argento con il ciondolo a forma di ferro di cavallo. Lorenzo lo aveva scelto con cura insieme alla zia Carola, che due pomeriggi prima lo aveva accompagnato in quel negozio di via San Vincenzo che conosceva lei.

    «Pure alla mamma è piaciuto tanto, sai? Mi ha detto lei di metterlo subito, e che è contenta che noi siamo amici».

    «Amici? Io non sono amico delle femmine, cosa credi?». Accompagnò le ultime parole con una linguaccia e scappò via, nella camera dove stavano tutti gli altri bambini, con lei dietro.

    Goffredo aveva assistito alla scena insieme a Lucia, la padrona di casa.

    Era una donna minuta e aggraziata, con il corpo proporzionato e gli occhi luminosi di un blu intenso, resi più profondi da un’ombra di malinconia che non se ne sarebbe più andata. La perdita del figlio maggiore era stato un colpo durissimo. Non ne aveva però risentito la vita sociale dei coniugi Barabino, rimasta all’apparenza immutata, forse per non creare ulteriori traumi alla piccola Giulia.

    Ma negli occhi di Lucia, Goffredo poteva leggere tutto il tormento per ciò che era accaduto, la rabbia, e un’increspatura dubbiosa. Forse non aveva fatto tutto il possibile – ecco cosa non smetteva di ripetersi, come continuava a torturarsi – e Giacomo era morto, a tredici anni, in una sala operatoria del Gaslini.

    A nulla era valso affidarlo al miglior cardiochirurgo pediatrico in circolazione. Anzi, nuove voci circolavano su una causa per negligenza intentata dai Barabino ai danni del luminare.

    Non aveva mai sentito Lucia parlare direttamente della disgrazia, nonostante avessero l’abitudine di fermarsi ogni giorno a chiacchierare all’uscita di scuola. Era quasi un appuntamento fisso, ormai: dal lunedì al giovedì, salvo impedimenti, arrivavano entrambi con un anticipo calcolato (almeno da lui) di dieci, quindici minuti. Gli piaceva parlare con Lucia, e si era accorto che nemmeno lei era indifferente a quei loro incontri. C’era dell’attrazione fisica, certo, che però non costituiva il motivo principale della loro affinità. Erano accomunati dal desiderio di dar voce l’uno al dolore dell’altra, e in questo modo accettarlo e dimenticarlo, ritrovando quanto di loro stessi c’era prima e intorno e dopo quel dolore. Goffredo si rendeva perfettamente conto che agli altri genitori la loro frequentazione poteva sembrare un po’ troppo assidua. Le occhiate indagatrici e le voci malevole non mancavano. Tuttavia se ne fotteva.

    Come lei non amava parlare del figlio, anche lui evitava ogni accenno a sua moglie Anna. Eppure quel pomeriggio, in modo del tutto inatteso, fu Lucia a tirarla in ballo.

    «Goffredo, scusa se mi permetto… È già da un po’ che ci penso ma finora non mi sentivo… insomma, non avevamo la confidenza di adesso. È un sacco che non vedo tua moglie. Prima a prendere tuo figlio veniva solo lei, poi tutt’a un tratto non si è più vista e sei spuntato tu».

    Un trenino di bambini, tra cui non figuravano né Lorenzo né Giulia, passò schiamazzando in mezzo ai due.

    Goffredo incassò e rimase in silenzio, buttando giù quel che era rimasto nel bicchiere. Tentennava, incerto per un attimo su quale versione fornire: si fidava della riservatezza di lei, ma a volte una mezza verità poteva essere peggio del silenzio o della sincerità piena, seguire chissà quale percorso e arrivare alle orecchie sbagliate.

    Fu il marito di Lucia a trarlo d’impaccio.

    «Ehi, Spada, lascia perdere le donne e unisciti a noi, forza!».

    L’architetto Gianni Barabino era passato accanto a loro per raggiungere il tavolino d’angolo e stappare un’altra bottiglia di champagne. Non era lo spirito cameratesco ad averlo spinto a quel richiamo, Goffredo ne era certo. Già da un po’ sentiva gli occhi del padrone di casa su di sé e sulla moglie.

    «Arrivo, arrivo», rispose a mezza bocca quando lui fece ritorno con la bottiglia in mano.

    Si congedò da Lucia piegando la testa e aprendo le braccia in segno di scusa e si avviò verso il gruppo degli uomini.

    Si avvicinò sorridente. Barabino, ma anche tutti gli altri, gli stavano proprio sui coglioni.

    6

    «Me’ cojoni», esclamò Manzi, tradendo le sue origini.

    Nonostante Caterina Delogu avesse anticipato il giorno prima gran parte del contenuto della relazione autoptica, leggerla nero su bianco gli provocò di nuovo quel disagio, un misto di rabbia e apprensione, che l’aveva assalito da quando si era trovato alle prese con il caso. Era il primo a restarne sorpreso, e anche infastidito. Non era molto professionale, o forse sì, lo era, a un livello più profondo. Perché ciò che provava non era soltanto collera e pietà. C’era qualcos’altro che inconfessatamente lo scuoteva. Apprensione. Per ciò che sarebbe potuto succedere ancora.

    Appoggiò i fogli sulla scrivania. I maggiori dettagli della perizia, uniti ai risultati degli esami scientifici condotti in loco e in laboratorio, fornivano un quadro piuttosto chiaro.

    Giustini e Santamaria, seduti di fronte a lui, avevano atteso in totale silenzio che lui completasse la lettura.

    «La vittima, una donna di razza europea di età compresa tra i quarantacinque e i cinquant’anni, è deceduta per i postumi di ustioni estese e profonde», iniziò a riferire l’ispettore. Ogni tanto buttava un occhio sui fogli per riportare in modo corretto i particolari. «Una modesta quantità di cianuro è stata rinvenuta nell’apparato digerente, quantità non letale ma con molta probabilità somministrata per stordire la malcapitata e trasportare più agevolmente il corpo».

    «La donna non è arrivata sul posto con le sue gambe, quindi?».

    L’agente scelto Antonio Santamaria, ventotto anni, era stato assegnato solo di recente alla Squadra Mobile. Era chiaro non vedesse l’ora di fare una domanda. Si agitava sulla sedia, eccitato per il fatto di trovarsi a partecipare alla sua prima indagine di un certo rilievo.

    Senza alzare la testa dal foglio, Manzi proseguì: «Secondo il medico legale il cianuro è stato ingerito almeno un’ora prima rispetto al momento in cui sono state inflitte le bruciature. Quindi si può ipotizzare che all’arrivo in loco fosse già narcotizzata, e che perciò vi sia stata portata. La zona della sepoltura è raggiungibile solo a piedi, dopo un percorso scosceso di almeno un centinaio di metri. Sul terreno non sono state rinvenute tracce di trascinamento. Pertanto il corpo dev’essere stato sollevato e condotto fin lì di peso da una o più persone».

    «Uno da solo doveva essere parecchio robusto», osservò ancora Santamaria. Giustini ascoltava impassibile, atteggiato nella sua posa da modello.

    «Non è detto. La donna era di corporatura minuta. Alta un metro e sessanta, non più di cinquanta chili. Forse perfino tu, Santamaria, riusciresti a portarla».

    L’agente emise una risatina forzata. Giustini non commentò.

    «La buca è stata realizzata con un’unica pala o con due pale identiche, vista la forma dei bordi e del fondo dello scavo. La terra è stata asportata per una profondità di circa cinquanta centimetri, accumulata di lato e in un secondo momento utilizzata per ricoprire il corpo. Prima di calare la donna nella buca, la terra sul fondo è stata scaldata ad alta temperatura mediante l’utilizzo di una fiamma ossidrica, come dimostrato dalla presenza di butano sul fondo della buca. Il contatto prolungato della schiena nuda e del resto del corpo con il calore ha procurato le ustioni mortali».

    «Cristo santo!», Giustini emerse finalmente dal suo stato di apatia.

    «Non è stato possibile stabilirlo con certezza perché la terra in superficie io e Weiss l’abbiamo rimossa, ma è probabile che la donna, in stato di semicoscienza, sia stata sepolta con le mani emergenti dal suolo. Una volta coperto di terra il resto del corpo, l’assassino ha bruciato le mani con un getto diretto della fiamma ossidrica, per poi asportarle praticando un taglio mediante delle grosse cesoie. Oppure, prima è stato praticato il taglio, e poi cauterizzata la ferita con la fiamma ossidrica».

    L’ispettore mostrò una fotografia che ritraeva i due moncherini. Santamaria si alzò di scatto, pallido in volto.

    «Scusatemi», brontolò, e a passo spedito uscì dall’ufficio.

    Manzi sfogliò ancora le carte, nell’attesa che il giovane tornasse. Invece entrarono la Weiss e Balduzzi.

    «Scusi il ritardo, ispettore», disse quest’ultimo. «Abbiamo ricevuto adesso il report delle ricerche nelle banche dati delle persone scomparse».

    «Cazzo, Gianluigi, devo sempre aspettarti». Manzi, un po’ sadicamente, si divertiva a tormentare il povero Gianluigi Balduzzi. Era talmente preciso e puntuale da risultare fastidioso. Paonazzo, il cinquantottenne assistente capo si mise sull’attenti. Manzi dovette trattenersi dal ridergli in faccia. Per un attimo, emerse dal cumulo di dettagli orrendi che caratterizzavano quel delitto, ma poi, tornando ad afflosciarsi sulla sedia, emise un sospiro stanco: «Ditemi di questi risultati, forza».

    «Sembra che né l’identikit né i dati antropometrici corrispondano a persone di cui sia stata denunciata la scomparsa», dichiarò la Weiss.

    Santamaria rientrò, libero dal peso che lo aveva assalito.

    «Allora, ragazzi, riepiloghiamo». Manzi si alzò e iniziò a passeggiare per la stanza, le mani intrecciate dietro la schiena. «L’identikit può non essere preciso, dato che è solo un’ipotesi di come il viso doveva essere prima. Però, al momento, siamo senza un nome da dare a quella povera donna. Cosa possiamo dire invece della modalità dell’uccisione? La relazione del medico legale ricostruisce un omicidio efferato, realizzato in modo deliberatamente tortuoso. Come se…», Manzi si soffermò di fronte alla finestra che affacciava su piazza della Vittoria.

    «…volesse trasmettere un messaggio», continuò Giustini. «È il tipico modo di agire di un serial killer».

    Che spreco, pensò Manzi, il ragazzo non sarebbe neppure scemo, se solo non gli piacesse tanto il ruolo di fighetto della Questura.

    «Proprio così, Riccardo. Si tratta quasi certamente di un assassino seriale che ha voluto lasciare il suo marchio, magari dopo aver scelto la vittima in modo casuale. Potrebbe trattarsi di una donna senza fissa dimora, di cui nessuno ha denunciato la sparizione. Quindi, come procediamo?».

    I quattro agenti si scambiarono sguardi frenetici.

    «Cerchiamo se in passato si sono verificati omicidi con le stesse modalità», propose Balduzzi.

    «O con modalità analoghe», aggiunse Orsola Weiss.

    «Bene. Balduzzi, Weiss, voi vi occuperete di questo. Cercate negli archivi degli ultimi dieci anni. Magari non limitatevi a una zona geografica ristretta», Manzi portò gli indici sulle proprie tempie e poi li allontanò a formare un ipotetico cerchio intorno a sé. «Cercate di ragionare in modo ampio. E completate velocemente l’esame delle telecamere nei dintorni. Santamaria, tu invece verifica negli ambienti dei clochard se di recente c’è stata qualche improvvisa defezione. Direi in zona, o comunque nel circondario. Non credo che l’assassino abbia prelevato la sua vittima chissà dove. E magari prenditi prima un Maalox, visto che mi sembri un po’ debole di stomaco».

    «C-certo, ispettore».

    «Giustini. Per te da fare non c’è rimasto un cazzo. Togliti dalle palle».

    «Va bene, va bene…». Giustini si raddrizzò sulla sedia, passando nervosamente una mano tra i capelli unti di gel. Poi fece per avviarsi dietro gli altri.

    «Dove stai andando? Aspetta. Pensavi di cavartela così?». Manzi si avvicinò all’agente davanti alla porta. «Mi è venuto in mente cosa puoi fare: sembra che il nostro amico non abbia lasciato tracce sul luogo. Niente capelli, niente impronte digitali. Nessun reperto biologico sul corpo della vittima. Solo l’impronta di una scarpa che non sembra appartenere a nessuno degli intervenuti, e che però al momento non ci serve a un tubo».

    «Un professionista».

    «Già. O forse solo uno molto prudente. Abbiamo però un elemento certo, l’arma del delitto. Dovresti provare a capire se dai residui di butano si può risalire alla provenienza. Il negozio, la fabbrica, la miniera. Insomma, vedi un po’ tu cosa riesci a cavarci fuori, ok?».

    Gli diede una manata su una spalla e si voltò.

    «Va bene, ispettore, farò quello che riesco».

    Eh, ti pareva.

    Rimasto solo, tornò alla scrivania e riprese in mano la perizia. Era quasi ora di cena, ma di tornare a casa non gli andava proprio.

    Un bel cazzo di rompicapo. Senza generalità della vittima. Senza un possibile movente: l’unico obiettivo di un assassino di quel tipo era destare clamore per le sue gesta o dare sfogo alle sue pulsioni. Senza uno straccio di indizio, a parte il vago reperto affidato con eccessiva malignità a Giustini.

    E senza la persona che avrebbe potuto aiutarlo, come aveva fatto in passato su altri casi all’apparenza impossibili.

    Fissò per quasi un minuto il cellulare. Poi passò in rassegna i numeri sulla rubrica fino ad arrivare a quello che ormai non componeva da almeno sei mesi. Esitò ancora per alcuni istanti. Alla fine superò ogni remora e sfiorò con il pollice il contatto sul display, corrispondente al nome dell’ex agente Red Spada.

    7

    «La spada darà sollievo alla vostra sete di conoscenza».

    Il gruppo dei cinque ascoltò il suggerimento diffuso attraverso le casse. La ragazza rotonda, quella che da subito era apparsa la più sveglia, si diresse verso il baule delle armi ed estrasse la sciabola di legno. I cinque confabularono per un po’, finché il ragazzo alto ebbe l’intuizione risolutiva e si avvicinò al bassorilievo della fontana al cui centro era raffigurata una bocca aperta. Si fece luce con la torcia, la esaminò da vicino e poi osò infilarci dentro alcune dita. Dopodiché impugnò la sciabola e la inserì deciso nella fenditura.

    Si udì un ronzio e i cinque si guardarono tutt’intorno alla ricerca della fonte del rumore.

    Fu il ragazzo con i capelli da moicano a individuare la porta nascosta che, grazie alla pressione della spada sul fondo del foro, si era leggermente socchiusa. Spinse ed entrò nella stanza successiva, seguito dai compagni di squadra.

    Ogni volta che si giungeva a questo punto della partita e Goffredo vedeva i giocatori gioire, sorpresi dalla scoperta e soddisfatti per la possibilità di avanzare, veniva colto da un senso di gratificazione che lo ripagava dell’impegno dedicato al progetto. La stessa sensazione che, in passato, gli era capitato di provare superando gli esami di Medicina.

    Riprese a masticare il reganisso, che aveva appoggiato sulla scrivania.

    Il cellulare lì accanto, impostato in modalità silenziosa, vibrò.

    «Ciao papi, quando arrivi? La zia Carola è già andata via».

    «Arrivo tra poco, Lollo», disse a bassa voce Goffredo, soffiando nel telefono. «Un quarto d’ora e la partita è finita. Accendi la tele, semmai».

    «È già accesa. Ma vieni presto che ho fame. E poi mi devi spiegare una cosa di mate che non l’ho mica capita».

    «Sì, sì, va bene. Apparecchia che arrivo tra poco. Bravo».

    «Okay, ciao».

    Riprese a seguire i giocatori inquadrati da una delle telecamere interne, ma ormai si era distratto, e le solite domande iniziarono a inseguirsi nella sua testa.

    Era giusto lasciare Lorenzo da solo in casa alla sua età? Non gli andava molto e, nei limiti del possibile, cercava di evitarlo. Ma quel progetto non aveva ancora ingranato come doveva e, finché questo non fosse successo, non avrebbe potuto delegare l’attività ai collaboratori più di quanto già non facesse.

    Quella di aprire un’escape room era stata un’idea pazza venuta a lui e ad Anna durante un viaggio a Firenze, folgorati dal gioco di fuga conosciuto casualmente per le vie del centro e subito sperimentato.

    Un’ora, un gruppo di giocatori da due a sei, un obiettivo: trovare il modo di uscire da una stanza nella quale si viene chiusi, risolvendo enigmi in successione fino alla soluzione finale.

    Appena rientrati a Genova avevano iniziato a scrivere a quattro mani la sceneggiatura della loro stanza, l’ambientazione e le singole prove da superare. Poi era successo quel che era successo e, giocoforza, il progetto era rimasto chiuso nell’ultimo cassetto della credenza della sala. Finché Goffredo aveva dovuto scegliere un nuovo lavoro.

    Cosa poteva inventarsi un ex poliziotto di quarant’anni? Tanto più che era senza un titolo di studio (anche se di corsi di laurea ne aveva iniziati parecchi), senz’altra esperienza di lavoro a parte quello svolto presso la Questura di Genova (ma non l’aveva mai considerato un lavoro vero e proprio) e, soprattutto, senza avere la minima idea di come guardarsi intorno (a causa dell’assenza improvvisa di Anna, che lo aveva lasciato come un cieco a cui hanno rubato il bastone).

    Dopo un paio di mesi trascorsi a prosciugare la liquidazione della Polizia di Stato, aveva deciso di presentare la domanda per ottenere la licenza da investigatore privato. Si trattava di una scelta quasi obbligata per un ex agente di polizia, ne conosceva a decine che avevano intrapreso quella strada. Ma in realtà riteneva di non avere le caratteristiche adatte a svolgere in modo adeguato la professione. Sì, qualche deduzione brillante a volte era in grado di tirarla fuori, ma sapeva che non era quello l’aspetto più importante. Occorrevano precisione, tenacia, puntualità. Sarebbero state necessarie doti da uomo d’azione, pronto ad affrontare le situazioni più imprevedibili durante un pedinamento o un’indagine. Soprattutto, avrebbe fatto comodo la capacità di attrarre clienti, di intessere rapporti e pubbliche relazioni. E in tutti questi aspetti si sentiva profondamente carente.

    Una sera, quando già aveva compilato il modulo per la richiesta della licenza, mentre ciondolava per casa in cerca di ispirazione, aveva aperto quel cassetto e si era trovato tra le mani il plico delle carte dell’escape room. Gli aveva dato una scorsa veloce, e in fretta, cercando di tenere a bada i ricordi e pur sapendo che era troppo tardi, lo aveva rimesso dove l’aveva trovato.

    Le ore successive le aveva trascorse a rimuginarci sopra.

    Quella sì che era un’attività che gli sarebbe piaciuta. Una sfida. Aveva acceso il computer e iniziato a inserire su un foglio Excel l’elenco delle spese da affrontare, sia per l’investimento iniziale che per la gestione del primo periodo, da finanziare anch’esso nell’attesa che le entrate iniziassero a coprire i costi. Ne era scaturita una somma fuori dalla sua portata e quella notte era andato a dormire con la spiacevole convinzione di dover accantonare il progetto.

    Nei giorni successivi aveva fatto di tutto per rintuzzare l’idea che tornava a bussare alla sua testa, ravvisando ogni genere di impedimento, e costringendosi a presentare l’istanza per la licenza di investigazioni, un bel plico tutto da compilare che era transitato dal tavolo della sala al trumò della camera, per poi finire sul sedile posteriore dell’auto, dov’era rimasto a decantare per alcuni giorni tra gli oggetti più vari.

    Poi il caso aveva voluto che, mentre passeggiava per il Quadrilatero, incontrasse Luca Podestà. Buon amico ai tempi in cui giocavano a pallanuoto, avevano anche frequentato insieme il primo anno di Filosofia. Ma da allora si erano persi di vista. Cosa fai, cosa non fai, era venuto fuori che Podestà gestiva un fondo di investimenti specializzato in start up. Goffredo non aveva avuto nemmeno bisogno di insistere: visto il materiale e il piano finanziario che il giorno successivo gli aveva illustrato, Podestà aveva subito messo a disposizione tutta la somma necessaria per partire e per i primi sei mesi di attività e aveva ricevuto in cambio il cinquanta per cento della proprietà dell’iniziativa.

    Di lì a una settimana nasceva la Mysterium S.r.l. e dopo un mese veniva inaugurata la stanza per il gioco di fuga. La domanda per la licenza da detective era finita nel bagagliaio dell’auto.

    Ciò che Goffredo aveva trascurato era che l’impegno avrebbe riguardato orari poco compatibili con le esigenze di suo figlio.

    Mentre il conto alla rovescia segnava quattro minuti e tre secondi, si rese conto di essersi estraniato dai progressi del gruppo. Comprese che era già da un po’ che i cinque stavano vagando in quell’ultima stanza senza cavarci nulla. Ma ormai mancava poco al gong finale, e decise di abbandonarli a loro stessi.

    Su questa considerazione il cellulare riprese a vibrare.

    Stava già per ripetere le rassicurazioni del caso a Lorenzo, quando diede un’occhiata al display. La telefonata non veniva da casa. Depose il telefono sulla scrivania e si incantò a fissare il cognome che appariva lampeggiando, deciso a scoprire quanto coraggio avrebbe avuto a insistere. Certo che era forte, fortissima la tentazione di sapere che cosa cazzo volesse da lui, ma altrettanto forte era la sua risolutezza a non avere più niente a che fare con quell’individuo e con il suo mondo. Sbirciò ancora per un istante il display e poi, con un gesto brusco, capovolse il telefono in modo che Manzi smettesse di balenargli davanti agli occhi.

    8

    «Dai un’occhiata qua». Dondero tirò fuori dalla valigetta un quotidiano spiegazzato e lo scagliò sulla scrivania.

    I dettagli sconvolgenti del delitto del Righi, titolava la prima pagina de «Il Secolo

    XIX

    ».

    «Vorrei sapere chi è quel belinone che è andato a raccontare certi particolari. E dire che ero stato chiaro: che non trapeli questo e quest’altro. Invece siamo riusciti a far contento il pazzo che ha combinato ’sto massacro».

    «Nessuno dei nostri, questo glielo garantisco», rispose Manzi mentre scorreva velocemente l’articolo. Non c’era scritto tutto, in realtà. Solo che la vittima era stata bruciata e che al momento del ritrovamento era ancora viva. Ma era anche riportato un elemento di cui nemmeno lui era a conoscenza, almeno non ancora. Ammesso che fosse una notizia attendibile.

    La donna, di cui non sono ancora state declinate le generalità, è stata condotta sul luogo in cui è stata uccisa a bordo di un furgone bianco.

    «Ma che minchiata è questa del furgone?», esclamò.

    «A me lo chiedi? O il giornalista è abelinato, anzi abelinata, e si è inventata tutto, oppure l’avrà ben sentito da qualcuno. L’articolo non cita le fonti, parla solo di certe voci che circolano. Ecco, vorrei sapere di chi è ’sta voce così la faccio smettere subito di circolare».

    Manzi lesse la firma in fondo: Orietta Costa. La conosceva, una cronista di nera esperta, non una che sparava le notizie a caso. Certo, a volte tendeva a ingigantire, a creare il caso anche quando non c’era, ma quale giornalista non lo faceva? Però inventare da zero un dettaglio come quello del furgone non era da lei.

    «Manzi, cerca di tenere a bada i tuoi, non sei un pivello e non mi sembra il caso di dovertelo dire. E cerchiamo di darci una mossa: dopo quest’articolo abbiamo gli occhi di tutta la città addosso. Stamattina mi ha già chiamato il Questore».

    Il tono era quello del congedo.

    «Faremo del nostro meglio, commissario».

    Uscì nel corridoio, nervoso. Non gli andava proprio di essere rampognato in quel modo. Si diresse dritto verso la stanza operativa per riversare su qualcuno la rabbia accumulata, in applicazione di una specie di catena gerarchica del cazziatone. Spalancò la porta sperando, per una volta, di trovarsi di fronte Giustini.

    «Guardi, ispettore: questo è il fotogramma che abbiamo isolato da una telecamera di sicurezza posta fuori dalla residenza protetta Villa Rosa», si affrettò a riferire Balduzzi appena Manzi fu entrato nella stanza. Al suo fianco c’era il solo Santamaria.

    Il video mostrava un

    FIAT

    Doblò bianco che stava transitando nella corsia in salita. Il punto di vista della telecamera era dal lato del passeggero. Si intuiva la sagoma del guidatore, mentre il sedile di fianco era vuoto.

    «Ebbene?», commentò Manzi spazientito. «Cosa vuol dire?»

    «Ho ingrandito l’immagine per capire cosa fosse questa macchia sul vetro laterale del vano di carico. Ho usato un filtro per evidenziare le parti scure, in modo che si potesse cogliere…».

    «Sì, sì, e allora?»

    «Ecco quello che ho ottenuto», annunciò Balduzzi, tronfio malgrado lo scarso incoraggiamento. Il finestrino sabbiato era opaco, e la zona inquadrata dalla videocamera risultava poco illuminata. Ciononostante Manzi colse in modo chiaro, al di là del vetro, una sagoma scura che assumeva il contorno inconfondibile di una mano.

    «Mortacci!».

    «Esatto, ispettore», Balduzzi sorrise. «Non è detto che sia il nostro uomo, ma non è normale portare una persona nel vano merci se il sedile anteriore è libero».

    Santamaria, seduto al suo fianco, annuì vistosamente.

    «Bezêugna piggiâ a balla a-o botto, come diceva mio nonno», aggiunse Balduzzi. Di fronte allo sguardo interrogativo di Manzi, tradusse: «Bisogna cogliere la palla al balzo».

    «Giusto. La targa?»

    «Abbiamo analizzato ogni singolo fotogramma. Purtroppo l’angolo di inquadratura ci ha permesso di identificare solo le prime due lettere:

    DL

    ».

    «Segni particolari? Che so, ammaccature, adesivi…».

    «Soltanto una riga qui, vede, proprio sotto lo specchietto».

    «Ho provato a incrociare i due dati che abbiamo», intervenne Santamaria, «il tipo del mezzo e le iniziali della targa, ma sono venuti fuori un migliaio di veicoli. Restringendo l’esame alle immatricolazioni della provincia di Genova siamo a circa cinquanta».

    Manzi si rischiarò subito e, avvicinandosi da dietro, appoggiò le mani sulle spalle dei due agenti.

    «Bene, bel lavoro. Cinquanta non è un numero impossibile. Santa, potresti approfondire. Magari comincia dal Comune di Genova e poi da qui ti allarghi. Balduzzi, sul fronte omicidi simili come siamo messi?»

    «Ci sta lavorando la Orsi, ispettore. Che sappia io, niente di fatto».

    «Ok, ok, bene così. Stasera rifacciamo il punto tutti insieme».

    Uscì con la ferma intenzione di chiarire subito una faccenda che gli era rimasta sul gozzo.

    «La signora Costa? Orietta Costa?».

    All’altro capo del telefono una voce rispose diffidente: «Chi parla, scusi?»

    «Ispettore Manzi, Polizia di Stato. Se si ricorda ci siamo conosciuti qualche tempo fa, per il caso Arvigo».

    «Certo, ispettore, mi ricordo di lei. Mi dica, qual è il motivo della telefonata?»

    «Davvero non lo immagina? Sto seguendo con molta curiosità le notizie che state pubblicando in merito al delitto del Righi. Notizie che addirittura nemmeno noi abbiamo…».

    Dopo un attimo di silenzio la voce calda e leggermente rauca della giornalista riprese: «Le notizie che pubblichiamo sono sempre verificate e attendibili, se intendeva metterlo in dubbio, ispettore».

    Quel tono controllato ed esageratamente cordiale cominciava a dargli sui nervi.

    «Sono di certo attendibili. Il mio dubbio è su come le siano pervenute, queste notizie. Ovvio che lei abbia i suoi canali…».

    «Se mi sta chiedendo di rivelarle le mie fonti, ispettore, se lo può scordare. Sarebbe come se la Ferrero svelasse la ricetta della Nutella, le pare?».

    Manzi deglutì amaro.

    «Capisco. Non pretendo tanto. Non violerò i suoi segreti industriali. Ma badi bene: si sta muovendo sul ciglio di un burrone ed è un attimo cascare di sotto».

    «Non si preoccupi, nei miei anni al giornale ho maturato un certo senso dell’equilibrio. Se non c’è altro, la saluto».

    «Arrivederci».

    Manzi schiacciò con forza il pulsante rosso per chiudere la conversazione e lanciò il telefono sulla scrivania. Che giornata di merda.

    Dopo alcuni istanti ci ripensò. Riprese il telefono e compose il numero di Spada. Negli ultimi due giorni era la quarta volta.

    9

    Una volta o l’altra dovrò decidermi a sostituirlo, questo servizio, pensò Goffredo mentre passava l’indice sulla sbeccatura della tazza piena di caffellatte.

    Inzuppò la focaccia ancora calda mentre disponeva il giornale di fronte a sé.

    Anche quella mattina, dopo aver accompagnato Lorenzo a scuola, stava compiendo il rito divenuto ormai abituale.

    La metà inferiore della prima pagina de «Il Secolo

    XIX

    » era dedicata a quello che era stato battezzato il delitto del Righi. La giornalista si pavoneggiava affermando che alcuni particolari venivano pubblicati in esclusiva dal suo giornale, particolari definiti dal titolo inquietanti. In effetti, risultava che il corpo era stato trovato ancora in vita, sotterrato e in parte carbonizzato.

    Si trattava con molta probabilità di enfasi giornalistica, perché le condizioni riferite alla stessa persona (in vita, sotterrata e carbonizzata) mal si conciliavano tra loro. Oppure la vicenda era realmente contorta e questo spiegava l’insistenza di Manzi nel rompergli il belino a ripetizione.

    Ripiegò il quotidiano e lo fece atterrare in cima alla torre di altri giornali in un angolo della cucina.

    Ora doveva occuparsi della contabilità.

    In corridoio vide la sua figura riflessa nello specchio. I capelli arruffati, la barba rossiccia incolta. La pancia un po’ troppo prominente per uno che era stato uno sportivo, camuffata dalla maglia abbondante.

    Gli occhi segnati come se avesse fatto sesso tutta la notte, quando invece erano nove mesi che non toccava una donna.

    Si passò dieci dita tra i capelli e proseguì.

    Tirò fuori dal mobile della sala il registro sul quale annotava i conti dell’attività e accese il computer per consultare i movimenti bancari. Il raffronto delle due serie di numeri non era affatto rincuorante. L’affluenza del pubblico risultava ben al di sotto delle sue stime, che peraltro gli erano parse realistiche se non addirittura pessimistiche. La risposta da parte dei genovesi era stata, per usare un eufemismo, piuttosto tiepida. I genovesi, persone diffidenti, abituate a sospettare di tutto e di tutti, anche della propria madre. Cosa poteva aspettarsi in una città popolata da gente simile?

    Tuttavia quella era la sua città e lì aveva aperto la sua escape room. Doveva trovare una soluzione. Per prima cosa avrebbe dovuto incrementare la pubblicità sui social media. Ma qui subentrava un problema di risorse: al momento, non solo i conti non gli permettevano il prelievo del compenso preventivato, ma richiedevano ulteriori versamenti. E la liquidazione della Polizia era ormai ridotta a meno della metà; di questo passo avrebbe avuto sì e no tre o quattro mesi di autonomia. Di certo non poteva permettersi di investire altri soldi suoi nell’attività, per cui l’unica strada percorribile era quella di bussare alla porta del socio finanziatore.

    La sua analisi fu interrotta dal suono simultaneo di telefono e citofono. Guardò lo schermo del cellulare: ancora Manzi. Silenziò la suoneria e si precipitò al citofono.

    «Sì?»

    «Sono Lucia».

    «Lucia…?»

    «Lucia Barabino, la mamma di Giulia. Passavo da qui e mi sono chiesta: chissà se Goffredo è in casa».

    «Sì, sì… ci sono…».

    Valutò all’istante le opzioni. La più interessante era poco elegante e molto rischiosa: la dovette scartare.

    «Solo un secondo, Lucia, scendo subito».

    Si sfilò la maglia e si spruzzò il deodorante sotto le ascelle. Raccolse con un dito un po’ di dentifricio, lo passò sui denti e si sciacquò la bocca. Si riavviò i capelli con le mani umide e indossò una camicia bianca.

    Aveva già aperto la porta per uscire ma ci ripensò. Recuperò l’eau de toilette che giaceva da alcuni anni nel mobiletto del bagno, ne versò alcune gocce su una mano e le spalmò sul collo.

    Quindi scese gli scalini a tre a tre.

    Aprì il portone tenendo in dentro la pancia.

    «Ciao», lo accolse lei.

    «Ciao. Vieni, c’è un bar qui dietro. Ti offro un caffè».

    10

    «Cattivo questo caffè», disse Manzi scostando verso l’agente Orsola Weiss il bicchierino di plastica ancora mezzo pieno.

    Lei lo raccolse con una mano e con l’altra gli porse i documenti che aveva portato con sé.

    «Sono questi i due casi di cui mi parlavi?», disse lui sparpagliando i fogli sulla scrivania. Rimase seduto, i dieci centimetri buoni che gli mancavano rispetto alla statura della Weiss gli procuravano parecchio fastidio.

    «In realtà solo uno dei due mi sembra interessante. Il primo riguarda l’assassinio di una donna nel Savonese che è stata bruciata all’interno della sua auto. È stato giudicato colpevole il marito, morto a sua volta tre anni fa in carcere per malattia. Invece il secondo è un cold case, nel senso che vi sono degli elementi ancora non chiari».

    «Lo so che cos’è un cold case. Ti riferisci a quello accaduto nell’entroterra di Genova?»

    «Esatto. Per la precisione a Uscio, sopra Recco. La vittima in questo caso è un anziano che è stato trovato impiccato e parzialmente ustionato da un rogo appiccato ai suoi piedi».

    «Nessun sospetto? Movente? Un cazzo di niente?»

    «Be’, c’è stato un indagato, un vicino di casa con il quale la vittima aveva avuto dei contrasti per la proprietà di un terreno, ma è stato prosciolto con formula piena».

    «E quindi è ancora a piede libero. Sì, interessante. Bene, Orsi, procurati l’intero fascicolo e vediamo cosa ne è stato di questo stinco di santo».

    «Subito, ispettore».

    «Ah, un’altra cosa. Mentre vai di là, ti spiace portarmi un caffè decente?».

    Mezz’ora più tardi Manzi parcheggiava con due ruote sul marciapiede dinanzi a Villa Rosa. Sceso dall’auto, indugiò qualche minuto studiando l’edificio di quattro piani. Era stato ristrutturato di recente, e dipinto a bande orizzontali rosa e grigie. Una cancellata delimitava il giardino che circondava la struttura per tutto il suo perimetro. Notò un paio di ospiti della casa di riposo che dalle finestre guardavano nella sua direzione. Il luogo dell’esecuzione, perché di questo si era trattato, si trovava più su, oltre un successivo tornante.

    Santamaria, inviato in avanscoperta, gli aveva chiesto di raggiungerlo perché c’era qualche sviluppo. Gli venne incontro lungo il vialetto della villa ancor prima che Manzi suonasse il campanello. Inconfondibile la sua testa grossa e rotonda sul corpo filiforme.

    «Eccomi, Antonio. Allora?»

    «Sì, ispettore, ecco…».

    Prese dalla tasca interna del giubbotto un taccuino riempito con una grafia disordinata. Cominciò a relazionare mentre i due si muovevano lentamente lungo il vialetto in direzione dell’ingresso della villa.

    «Dunque, la telecamera che ha ripreso il furgone è proprio all’esterno del cancello. Però, prima di tutto, ho visto quegli anziani affacciati alle finestre e mi sono detto: dev’essere un’abitudine quella di starsene lì a guardare il mondo di fuori. Anche loro, oltre alla videocamera, possono aver visto qualcosa. Oltretutto la visibilità sulla strada è molto buona».

    «È molto buona adesso, Antonio. Ma quella sera era buio e piovoso», osservò Manzi.

    «Giusto. Infatti tutti gli ospiti che ho interrogato, mi sono limitato ai più arzilli, hanno riferito di non ricordare nulla di speciale».

    «Bene. E allora?»

    «Allora ho interrogato il custode. Ce ne sono tre e si alternano per coprire le ventiquattr’ore. Quello di turno adesso è proprio quello che era di guardia quella sera. Ma anche lui, purtroppo, non ha notato nulla di particolare».

    Manzi cominciava a spazientirsi ma cercò di dominarsi e non infierire sul pivello.

    «Quindi nessuno, né gli ospiti né i custodi, ha visto qualcosa. Mi stai dicendo questo?».

    Il viso di Santamaria stava progressivamente cambiando colore: rosso acceso, adesso, sulle orecchie e sulle guance.

    «Ispettore, stavo ormai per venir via quando mi è venuto lo scrupolo di dare un’occhiata al monitor della telecamera situato nel gabbiotto del custode. E ho notato che la telecamera è rivolta verso l’esterno».

    «Ovvio che è così, visto che deve inquadrare chi arriva da fuori».

    «È proprio questo il punto. Venga con me». Gli fece strada fino al cancello e indicò il punto in alto dove si trovava la videocamera. «Dato che è posizionata sopra e a sinistra del cancello, per riprendere chi arriva dovrebbe essere orientata verso il basso e verso destra. Invece è proprio dritta. Infatti ho chiesto al custode di fare una prova: uscire, avvicinarsi dall’esterno del cancello e suonare il campanello, mentre io controllavo sullo schermo. Quello così ha fatto, col risultato che quando suonava era fuori inquadratura».

    Sotto lo sguardo eloquente di Manzi, Santamaria si affrettò a proseguire: «Vede, ispettore, ho valutato anche un’altra cosa. Se la videocamera fosse puntata come dovrebbe, inclinata, riuscirebbe a riprendere in pieno le targhe delle auto che passano sulla strada qui davanti. In salita, si intende. Le inquadrerebbe proprio da dietro. Così, invece…».

    «Le piglia in perpendicolare, di sbieco. E quindi risultano illeggibili», completò Manzi, che finalmente stava comprendendo dove l’agente volesse andare a parare.

    «Esatto! La camera è stata messa per vedere chi si avvicina al cancello e suona, non per ammirare il paesaggio. E così era. Il custode mi ha confermato che è sempre stata inclinata, e se si è spostata dev’essere successo di recente».

    «Se si è spostata

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