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Morte sul vulcano
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E-book474 pagine6 ore

Morte sul vulcano

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Info su questo ebook

Un grande giallo

Un bambino. Un’isola. Un mistero.

Liam ha undici anni quando i genitori decidono di lasciare Londra e trascorrere l’estate a Ginostra. A condurli a Stromboli è un seminario dei coniugi Mason, famosi in Inghilterra per gli esperimenti di psicoterapia di gruppo e i corsi di autocoscienza. Liam è un bambino dalla fervida immaginazione, ancora con la passione per i dinosauri, improvvisamente catapultato in un mondo primordiale fatto di mare profondo, lava, sentieri bui e scoscesi. Ben presto stringe amicizia con i ragazzini del luogo, in particolare Pietro, figlio di un pescatore dai modi bruschi e violenti. Superate alcune prove viene ammesso ufficialmente nella banda e subito coinvolto in una “missione” che sembra di vitale importanza per Pietro. Ramon Vallejo è un ragazzino scomparso a Ginostra qualche anno prima, il cui corpo non è stato mai ritrovato: Pietro è convinto che sia stato ucciso e crede anche di conoscere il suo assassino. I due s’impegnano allora in una caccia al colpevole ossessiva e pericolosa, che li spinge verso un terribile segreto che pare coinvolgere sia gli abitanti dell’isola, dal carattere sanguigno e arcaico, che la comunità di stranieri che vive immersa nelle utopie hippy degli anni Settanta. Liam sarà costretto a fare i conti con le ombre e le storture del mondo degli adulti che lui, ingenuo e attaccato agli ultimi scampoli d’infanzia, ignora. Sarà un’estate che lascerà cicatrici profonde. E non soltanto in Liam.

Un’estate violenta può trasformare un ragazzino in un adulto. 
Una profonda e originale fusione di thriller e romanzo di formazione.

Hanno scritto dei suoi libri: 

«Il ritmo è serrato già dalle prime pagine, e fino all’ultima non c’è un attimo di tregua.» 

«Questo scrittore è un unicum nel panorama letterario italiano!» 

«Un autore che strega dalla prima all’ultima pagina, cupo, tenebroso ed epico.»
Vincent Spasaro
Nato a Roma nel 1972, è da anni copywriter e tiene corsi di tecniche di scrittura e web writing nell’alta formazione per laureati. È insegnante di arti marziali. Ha pubblicato il thriller Assedio (2011) e il dark fantasy Il demone sterminatore (2013).
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2021
ISBN9788822744296
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    Anteprima del libro

    Morte sul vulcano - Vincent Spasaro

    2899

    Published by arrangement with Agenzia Letteraria Martin Eden

    Prima edizione ebook: giugno 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4429-6

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    Vincent Spasaro

    Morte sul vulcano

    Newton Compton editori

    A mio padre

    Indice

    prologo

    1

    2

    parte prima. pellegrini nella casa del vento

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    parte seconda. il cuore del vulcano

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    Prologo

    immagine

    L’isola di Stromboli.

    1

    È strano riandare con la memoria all’estate in cui scoprii la morte. È strano perché di quell’estate conservo da qualche parte il ricordo accanto al cuore ma non dentro al cuore. Diciamo che lo tengo in una cantina lì vicino, un sottoscala umido e maleodorante che contrasta coi colori e i profumi di quel luogo a quel tempo. Meno apro la porta di quel sottoscala, meglio è.

    Se devo, non mi tiro indietro. I cardini sono arrugginiti ma la porta si apre e sento di nuovo quell’odore.

    La notte in cui trovammo il corpo la ricordo come una faticaccia d’inferno.

    Prima di tutto non fu affatto semplice entrare. Pietro aveva portato la torcia, il piede di porco e altri attrezzi sottratti al padre ma non fu semplice lo stesso. Il lucchetto era duro e grosso e noi non eravamo così forti, sebbene Pietro fosse il ragazzino più forte che avessi mai visto. Impiegammo un sacco di tempo. In quei giorni faceva un caldo esagerato e nelle notti non tirava un filo d’aria. La bonaccia ci aveva aiutato perché pareva di remare in piscina. Era la prima volta che attraversavo da solo il mare nero della notte. Trovammo facilmente l’approdo oltre le immense scogliere di detriti e rocce. «Questa cosa che non sai nuotare dev’essere risolta», ricordo che disse Pietro. Comunque tirammo la barca a riva senza troppi problemi, nonostante i sassi a pelo d’acqua e sul bagnasciuga, perché Pietro conosceva quella zona palmo a palmo. Il monte incombeva coi suoi orridi e vegliava incupito sulla nostra missione. Per qualche motivo pensai di non star facendo la cosa giusta perché sentivo che lui non era affatto d’accordo. Come per rimarcare i miei dubbi, lui borbottò, e ne percepii le vibrazioni sotto i piedi. Ma andammo avanti perché è dovere degli uomini sfidare gli dèi, e dei bambini l’autorità costituita. Traemmo la barca a riva e la sistemammo in mezzo alle canne. «Se mio padre mi scopre», esclamò Pietro, «vieni a portarmi qualche fiore al cimitero». Ridemmo, ma anche in quel caso non fui affatto sicuro che fosse un’iperbole.

    Sarebbe stato facile prendere una storta sui sassi irregolari, neri più della notte, che spuntavano dalle prime sterpaglie, eppure saltammo come grilli. Il capanno era poco distante dalla riva. Pietro si mise d’impegno col piede di porco, sbuffò e tirò, e alla fine ebbe ragione del lucchetto. Aprì la porta e si produsse in un inchino scherzoso indicandomi l’ingresso.

    Entrai. «Non si vede niente. E poi…». Non riuscii ad andare avanti.

    «Aspetta». Entrò dopo di me e si accorse subito della puzza. «Cazzo. L’ha nascosto qua dentro».

    «Esco». Stavo boccheggiando.

    «Riprenditi un attimo e torna qui. Io comincio a cercare». Armeggiò con la torcia che emetteva una luce debole.

    Uscii e mi appoggiai al muro esterno. Quel posto doveva essere rimasto chiuso per anni. Mi guardai intorno. L’assassino poteva benissimo essere sulle nostre tracce. «Pietro», sussurrai. «Tutto bene?»

    «Vieni invece di parlare. Dev’esserci un corpo. Una puzza infernale».

    Aspirai i trentacinque gradi centigradi come fosse aria fredda di montagna e tornai dentro a malincuore. La puzza era forte come prima, forse appena più clemente, ma ebbi conati di vomito. «Su», fece Pietro, «aiutami a cercare. Tanto è uno spazio piccolo». Pietro si muoveva facilmente. Io rimasi vicino alla porta per approfittare del refolo d’aria esterna e notai che gli occhi si abituavano al buio. A sinistra, attrezzi. Falci, zappe, vanghe. Delle reti da pesca. Appesi sulla parete di fondo, galleggianti e pezzi di ricambio per la barca. Forse lattine di vernice per terra. A destra, vino. Varie bottiglie disposte su vecchie mensole. Pietro mosse degli oggetti da quella parte e qualcosa di grosso fuggì via su tante zampe. «Prendo del vino», decise.

    «Se ne accorge». Come faceva a bere con quella puzza?

    «Abbiamo rotto il lucchetto. Non ha bisogno di contare le bottiglie per immaginare uno scasso. Almeno questa ce la godiamo». Mi passò davanti e poggiò fuori la bottiglia. Tornò dentro. «Aiutami».

    Cercammo a tentoni fra gli attrezzi. Non trovammo altro che grossi ragni. Il pavimento era in cemento. Spazzammo con la scopa ma non c’erano botole. «Niente. Qui non c’è niente».

    «Quei giornali?».

    Diresse il fascio luminoso sulle copertine. «Forse sono dei porno. Portali fuori e dacci un’occhiata». Non capii se li avrebbe considerati prove o bottino. Li poggiai accanto al vino. Erano vecchi. «Novella 2000», «Oggi», «Gente». In copertina regine tristi e soubrette in bikini abbracciate ad amanti. «Come il "Sun"».

    «Cos’è il Sun?», chiese Pietro da dentro. Stava armeggiando con del materiale pesante, a giudicare dai rumori.

    «Roba scandalistica».

    «Forse è frocio».

    «Che faccio coi giornali?»

    «Mah. Riportali dentro».

    Ulteriori ricerche non diedero esito. «Cazzo», fece Pietro, frustrato. «Da dove proviene quella puzza?»

    «Forse l’ha seppellito dietro il capanno», risposi senza pensarci.

    «Ehi, inglese», mi apostrofò. «Forse non sei cazzone come sembri». Sedette accanto a me. «Vino?»

    «Io passo». Avevo bevuto vino con l’assassino in quel punto esatto, un mezzogiorno di molti giorni prima. Mi ero ubriacato.

    «Come vuoi. Alla salute!» Alzò la bottiglia appena stappata e tracannò.

    Ne bevve metà prima di mormorare: «Questo vino fa schifo!», e gettarla lontano. «Andiamo, su!». Prese due pale e mi precedette dietro il capanno. «È qui», constatò. «Puzza quasi come là dentro e la terra è stata smossa».

    «Dici?»

    «Scava, inglese».

    2

    La notte in cui trovammo il corpo scavai come un dannato.

    Non c’era terra ma sassi. Tanti sassi. E sabbia bagnata, dura, nera e maleodorante. A mano a mano che scendevamo, la sabbia era sempre più bagnata e compatta. Mentre scavavo mi si rizzavano i peli. Il mio corpo mi diceva di fuggire lontano. L’odore non aveva a che vedere con niente che avessi percepito nella mia giovane vita.

    Nemmeno Pietro stava bene. Ormai iniziavo ad accorgermi delle sue debolezze, proprio quelle che non voleva mostrare e che si sprigionavano quando la tensione era al culmine. Pietro era ossessionato dal desiderio di essere forte, forte quanto pretendeva il padre, il che significava in gran parte sembrare forte. Ecco, quella notte non era impavido per nulla. Determinato, sì.

    Arricciavamo le labbra per lo schifo. Forse Pietro sapeva. Di sicuro aveva già visto qualcosa di simile in precedenza, ma non così forte e non a quel modo.

    Alla fine non ne potei più e chiesi: «Cos’è?»

    «Una tomba».

    La parola tomba nel mio vocabolario significava semplicemente quel che si vedeva quando il migliore amico del protagonista moriva nei film e nei fumetti, con tanta gente che lacrimava compunta sulla collina di un giardino alberato.

    Quello che sentivo era invece il bisogno di essere in mezzo a Londra, a Piccadilly Circus a guardare i punk con mio padre, a Hyde Park per ascoltare le baggianate di predicatori improvvisati. Ovunque ma non lì, non sotto quel vulcano orribile, le pareti di polvere lavica incombenti e il mare profondo davanti a me. Ero prigioniero. Fu la prima volta che me ne resi conto. Stavo in una prigione a cielo aperto.

    Allora Pietro mise la pala da parte e mi fissò intensamente. «Fatti coraggio. È il momento», disse, più mimandolo che parlando davvero, perché non voleva aprire la bocca, e sembrò mia madre quando parlava nel sonno.

    Dovevo essere sul punto di svenire e Pietro se ne accorse. «Aspetta». Sparì oltre il capanno degli attrezzi e mi sentii solo. Immagino che sarei svenuto se Pietro non fosse tornato con un altro fiasco di quell’aceto ad alta gradazione. «Scoliamocelo». Mi levò la pala di mano e mi portò qualche passo più su, in mezzo agli sterpi. Ci sedemmo e m’infilò letteralmente il collo della bottiglia in bocca. Il primo sorso mi andò di traverso. Tossii e sputai e divenni paonazzo. Gli strappai la bottiglia e l’allontanai dal viso prendendo boccate d’aria profonde. «Faccio io». Sistemai il fiasco e tracannai. Dovevo averne bevuto metà quando Pietro me la levò a forza. «Ora io».

    Anche la seconda bottiglia finì fra le rocce.

    «Come va?»

    «Insomma».

    «Non l’hai mai visto prima?»

    «No».

    «Sei fortunato. È una bella scuola, la mia».

    «Vaffanculo». Avevo imparato le parolacce. Ci avevo messo quasi due mesi, ma avevo imparato le parolacce. Sperai che mia madre non lo venisse mai a sapere.

    «Ora mi piaci».

    Lo mandai di nuovo a quel paese. Faceva un caldo terribile. Non poteva fare così caldo a quell’ora. Desiderai levarmi la pelle.

    «Inglese, dico davvero. Un uomo deve accettare tutto. E, più di ogni altra cosa, la morte. Tu cresci nella città e non sai niente della morte».

    Era vero. E mi piaceva così.

    «La morte è la tua costante compagna».

    «Sono stanco di ascoltare tuo padre».

    Non se la prese. Era un buon segno. «La morte ci accompagna tutti. Noi diventeremo esattamente come quello che vedrai ora».

    «Chi ti dice che lì sotto…?»

    «Smettila di fare il bambino. Apri gli occhi. Cosa credi che ci sia?»

    «Una fogna. Spazzatura».

    «In un certo senso è così. Ma quella fogna un tempo pensava, voleva bene. Cercava dinosauri».

    «Credi davvero che sia Ramon?».

    Mi fissò duro.

    Sostenni lo sguardo mentre cercavo la risposta giusta ma poi abbassai gli occhi.

    «Esatto, inglese». Si alzò. «Qui è all’opera un pervertito. Uno che ha fatto molto male a un ragazzo come te e me. Voglio vendicarmi».

    «Ma se quasi non lo conoscevi!».

    «Tu non sai un cazzo».

    «Rispondi sempre così quando ti mettono alle strette. Mi hai raccontato che era più grande di te e giocava coi ragazzi della sua età. Non lo conoscevi».

    «Non molto, è vero. Ma mi stava simpatico. Inglese, non conosco bene nemmeno te e tu non conosci me. Eppure, se qualcuno di noi due sparisse, l’altro farebbe qualcosa. Almeno io vorrei che tu facessi qualcosa per fargliela pagare».

    Riflettei.

    «Caruso», riprese Pietro. «Non sapevi nemmeno cosa fossero prima d’ora pensieri del genere, ed è per questo che dico che sei fortunato. Hai una guida, finalmente. Hai me».

    «La tua guida invece è tuo padre?», chiesi sprezzante.

    «No», rispose asciutto. «Non ho avuto una guida. Non ce l’ho nemmeno ora. Sono meno fortunato di te».

    Non seppi cosa rispondere. Fui solo grato che l’odore lì si sentisse molto meno.

    «Ascoltami», cambiò tono mentre mi stavo alzando. «Io l’ho visto».

    «Chi? Ramon? Morto?».

    Scosse la testa. «Vivo. La sera in cui Ramon scomparve, l’ho visto parlare col calabrese. Erano sugli scogli e stavano litigando. C’era tempesta».

    «E allora?»

    «Allora andiamo a terminare il lavoro».

    Ero confuso. Forse ubriaco. Sicuramente ubriaco. Mi girava la testa ma, come per miracolo, non avevo più alcuna paura, e anche lo schifo era diminuito. Mi sentivo quasi allegro. Lo guardai negli occhi. «Ok».

    Riprendemmo le pale. Mi pareva che facesse più fresco. Ricominciammo a scavare. A un certo punto mi parve che la puzza aumentasse esponenzialmente. «Ci siamo», mormorò Pietro. «Ora bisogna fare piano. Si può rompere».

    «Rompere

    «Non sarà bello né in buono stato. Un colpo troppo forte e lo roviniamo. La famiglia vorrà riavere qualcosa indietro. Giusto?».

    Mi resi conto che non capivo. Nonostante le spiegazioni di Pietro, non capivo affatto cosa stesse accadendo. La portata delle nostre azioni, il motivo. Era un’avventura. L’avventura era eccitante. Si vince sempre. Tutto qui. I miei pensieri, fino ad allora, non andavano oltre.

    «Levati la maglietta».

    «Cosa?»

    «Ci serve. Ai tuoi puoi dire che l’hai persa. Tanto non se ne accorgeranno nemmeno. Se lo faccio io, mio padre mi picchia a sangue».

    «A cosa serve?»

    «A evitare di sentirci troppo male e prenderci una malattia».

    Feci quel che mi aveva detto. Era una maglietta blu dell’Adidas e aveva lo stemma a tre foglie sul cuore. La ridusse a strisce e me ne legò un paio intorno alla bocca e al naso, e fece un nodo sulla nuca. «Sembro un bandito», risi.

    «Dammi una mano».

    Feci lo stesso con lui.

    Riprendemmo a scavare. La maglietta era troppo spessa e non respiravo. Me la tolsi dal naso ma fui contento che proteggesse la bocca.

    Pietro aveva iniziato a scavare con la punta della pala. Mi ricordava mia madre quando rifiniva col pennello.

    Lo imitai. Il sudore mi colava sugli occhi, annebbiandoli, e dagli occhi al naso, e dalla punta del naso cadeva nella fossa. Sentivo scivolare le gocce sul collo e appiccicarvisi la sabbia sollevata dalla pala. Germi, avrebbe detto mia madre. Batteri. Schifo.

    Iniziava ad affiorare qualcosa. A Londra avevo visto un kit per dissotterrare un dinosauro giocattolo. Era una specie di mattoncino di gesso e dentro era nascosto un modellino in plastica dello scheletro di un brontosauro. Ti davano anche uno scalpellino. Fu allora che ebbi una specie di illuminazione. Lì sotto doveva esserci un dinosauro. Magari l’ultimo della sua specie. Forse il calabrese l’aveva seppellito per pietà oppure l’aveva ucciso per difendersi o voleva rivenderne le ossa. Lì sotto c’era un dinosauro.

    «Oh, cazzo», esclamò Pietro.

    Quello che affiorava non aveva scaglie.

    Peli. Aveva ragione Pietro. Peli corti. Dovevano essere i capelli. Non si capiva molto di quello che stava là sotto, perché era nero come la sabbia e i sassi che tiravamo via. C’erano dei muscoli, muscoli di braccia, rinsecchiti e crepati. L’unica immagine che ricordo abbastanza bene è quella degli insetti. Mentre toglievamo il pietrisco, si levavano in volo nugoli d’insetti. Volavano irritati intorno e mi si posavano dappertutto lasciando la loro sozzeria sul mio corpo sudato. Me li scrollavo via e quelli tornavano. Avevo sentito parlare delle larve di mosca. La mosca depone le uova nella cacca e nella carne morta. Per me la carne erano hamburger e hot dog, roast beef roseo e profumato e bistecche al sangue. Mi voltai e vomitai il vino. Le mosche sembrarono molto contente. Pietro non mi rimproverò. Attese appoggiandosi al manico della pala e detergendo mosche e sudore dalla fronte. Stetti meglio.

    «Tutto ok?».

    Non risposi.

    «Fammi luce con la torcia».

    Pietro riprese a scavare e io a guardare. Credo che fosse riuscito a individuare la testa. I capelli erano caduti tutto intorno al corpo e non si capiva bene cosa fosse cosa, ma a un certo punto venne fuori un occhio e non c’era più da discutere. L’occhio era infossato nell’orbita. Le sopracciglia erano spesse. Fra i peli si muovevano cose.

    «Aiutami».

    Pulimmo come fu possibile con le punte metalliche delle pale. Parte del viso era nascosto dalla terra. Attaccammo col naso e la bocca. Quando furono fuori, credo che esclamammo qualcosa entrambi, e non ricordo affatto cosa.

    Guardai Pietro e Pietro guardò la bocca di quello che stava là sotto.

    «Somiglia a un…», iniziai.

    «No». Pietro l’osservò a lungo. «È lui».

    «Com’è possibile?»

    «La morte fa brutti scherzi».

    Credo che stessi per bagnare le mutande. «Non ha le labbra!».

    «Te l’avevo detto che non sarebbe stato bello da vedere».

    «Quello non è umano!», sbottai, ma Pietro udì solo una specie di sospiro. Quasi mi strangolai per il fetore. Richiusi immediatamente la bocca.

    Là sotto c’era della pelle marcia ma di sicuro non labbra. I denti erano scoperti e digrignati ed erano tanti, tantissimi, e i canini lunghi e aguzzi. Era orribile.

    «Cosa significa?», sospirai a labbra strette.

    Pietro alzò la testa e mi guardò cupo. «Significa che Ramon era un lupo mannaro».

    parte prima

    Pellegrini nella casa del vento

    1

    «Pellegrini nella casa del vento! Dio, com’è eccitante», ricordo che esclamò mia madre quel giorno all’inizio dell’estate.

    Allora non sapevo cosa significasse. Non lo seppi per anni. Non m’interessava. Ascoltavo tutto con orecchie avide e guardavo le cose con occhi spalancati, ma di molto che assorbii allora non conobbi il significato che decenni dopo.

    Mio padre era contento del viaggio ma non quanto mia madre. Lei era assolutamente innamorata di quei tizi. Pure a me piacevano, seppure per motivi del tutto differenti. Più tardi compresi il perché di quell’infatuazione, ma allora ero attratto da particolari che ai miei genitori non parevano così interessanti.

    La casa londinese dei Mason era una specie di mostra di mirabilia. Arredata con quel gusto del periodo che all’epoca mi pareva futuribile, le linee morbide e bombate dei mobili e dei divani e i colori netti delle pareti su cui si accendevano quadri coloratissimi, a me sembrava la dimora di un esploratore. Il signor Mason la chiamava la Caverna, o l’Utero. Non avevo idea di cosa fosse un utero ma in effetti quell’appartamento poteva somigliare a una caverna in cui qualcuno avesse installato delle luci stroboscopiche da discoteca. Noi bambini avevamo libero accesso alla Caverna, ma la vera stanza dei mirabilia era chiusa a chiave perché, mi spiegò papà, le statuette e i reperti che vi erano sistemati valevano un sacco di sterline. Si trattava di feticci sudamericani e sculture funerarie africane, bassorilievi classici trafugati da chissà quale isola greca e anche animali impagliati fra cui il mio preferito, un cucciolo di coccodrillo mummificato che proveniva da una tomba egizia. E poi c’erano lance per la caccia nella savana, scimitarre berbere e spade antiche, e punte di selce degli uomini primitivi e crani di animali estinti. Quella, secondo me, era la mia caverna, non la caverna del signor Mason, e sapevo che io l’avrei tenuta molto meglio di lui che non aveva alcun interesse a giocare con lance e scimitarre e non sceneggiava storie d’avventura con i reperti preziosi in mano. Però nessuno mi ci lasciava mai entrare a lungo e sempre dando la mano a un adulto. Per la maggior parte del tempo, quando mi portavano nella caverna del signor Mason, ce ne stavamo sprofondati sui divani e i cuscini sparsi sulla moquette ad assistere a esperimenti di psicoterapia di gruppo, psicodrammi, esperienze di rebirthing o particolari forme di respirazione con un sottofondo musicale ipnotico e luci basse. Una volta venne George Harrison a suonare il sitar e l’unico ricordo che ho della serata è il mio desiderio irrefrenabile di rompere il sitar sulla testa di George Harrison. Per me quelle sedute, passata l’eccitazione iniziale per il luogo e i cinque minuti nella mia caverna, erano noiosissime. Di solito mi portavo un fumetto o un libro illustrato e finivo regolarmente per addormentarmi. Alle volte i miei preferivano lasciarmi a casa con una baby sitter perché, da quel che avevo modo di capire, le sedute potevano toccare argomenti troppo profondi o spaventosi per un bambino della mia età. Esistenze pregresse, fantasmi della mente o della casa: ricordo queste espressioni ma in effetti non ne ho mai compreso il significato.

    Il signor Mason era un famoso psicoterapeuta e maestro di yoga. Aveva occhi verdissimi e profondi e indossava solo vestaglie colorate. Sfoggiava questa barba bianca lunga e mia madre sosteneva fosse Osho sputato ma a me sembrava Babbo Natale. Mia madre adorava i Mason che avevano anche acquistato un suo dipinto poi sistemato nella loro cucina, e questo la faceva sentire particolarmente orgogliosa. Secondo me il quadro di mia madre era uno dei più brutti della casa dei Mason e gliel’avevo anche detto, e in ogni caso non c’era paragone con le scimitarre o il coccodrillo. E poi non mi pareva molto rispettoso prendere il quadro di qualcuno e piazzarlo in cucina vicino ai fornelli. Lei adorava i Mason e pareva che i Mason adorassero tutti.

    L’idea del viaggio la eccitava. «Capisci, Mick? Un seminario su Leland in Sicilia!».

    Quando chiesi chi fosse Leland, mi rispose qualcosa come: «Colui che ci ha risvegliati alla consapevolezza della vecchia religione!». Quando chiesi cosa fosse la Sicilia, la risposta fu: «Liam, la Sicilia è tutto! Tutto è partito da lì». L’anno prima eravamo stati in Spagna e credo che mia madre avesse detto la stessa cosa.

    Viaggiammo in aereo fino a Roma e poi a Fiumicino prendemmo un volo per Catania. All’aeroporto di Catania mio padre mi comprò un pacchetto di dinosauri di plastica in miniatura molto più brutti e appena abbozzati rispetto a quelli che si potevano reperire a Londra. Fu solo a Catania che mi resi conto della differenza con l’Inghilterra. Tutti parlavano a voce alta in una lingua cantilenante e intorno a noi pareva fosse stato appena domato un incendio epocale tanto erano aridi i campi e nera la terra. Mio padre m’indicò un’alta montagna che troneggiava oltre la città. «Quello è un vulcano, Liam. È l’Etna».

    Era il periodo in cui impazzivo per ogni cosa riguardasse la natura, per cui sapevo tutto quello che un bambino di undici anni può sapere sui vulcani. Non appena ero stato messo a parte del viaggio, avevo iniziato a documentarmi ed ero divenuto un appassionato di vulcanologia creativa: adoravo i vulcani per quello che erano e per quello che avrebbero potuto essere. Leggevo e rileggevo Viaggio al centro della terra di Verne, per cui ero abbastanza certo che dentro la pancia di un vulcano, accanto alla lava, esistessero mari in tempesta dove creature antidiluviane si sbranavano vicendevolmente. L’Etna era immenso, sembrava svettare fuori dell’atmosfera e fumava. Ero pronto.

    Non era quella la meta del nostro viaggio. Da Catania prendemmo un autobus malandato che attraversò una città nera e sciatta e poi s’incuneò per strade costiere che si libravano alte su scogliere scure e traversò piane verdeggianti cariche d’alberi esotici. Quando una terra che pareva un’isola di là dal mare si avvicinò pericolosamente quasi a scontrarsi coi suoi alti monti contro la Sicilia, svoltammo e ce ne allontanammo per seguire strisce di sabbia e ciottoli confinanti con un mare blu. L’autobus era sprovvisto d’aria condizionata e il caldo opprimente. Giungemmo nella cittadina di Milazzo di cui ricordo il porto ingombro di piccole automobili strombazzanti e la puzza di pesce. A Milazzo per la prima volta in vita mia vidi un uomo senza denti. Quando il traghetto partì, eravamo stremati e non mi godetti affatto la traversata, anche perché ormai si era fatto buio. Attraccammo a Scari. La notte era scura come la pece e io avevo il mal di mare. Non vidi niente. Dormimmo in una pensione polverosa su un mare nero: mi sembrava di essere circondato dal petrolio. Non ricordo nulla di quella prima notte e sono convinto che il sonno pesante mi avesse fagocitato appena poggiato la testa sul cuscino dopo una lunghissima giornata iniziata al mattino presto a East London.

    Quando venne il mattino mi ricordai di quel pomposo titolo di seminario. Pellegrini nella casa del vento. Quelle erano le isole del vento, le Eolie, e sarebbero state la nostra casa per qualche mese. E sopra di me stava un vulcano.

    Un vulcano vero, come nei libri, conico e senza orpelli di foreste, pianure e strade. C’era solo questo vulcano gigantesco circondato da miglia e miglia di mare blu in ogni direzione.

    Ero eccitatissimo e già programmavo scalate e scoperte mirabolanti quando mio padre tornò dalla spiaggia e parlò concitato con mia madre. «Aiutaci a portare i bagagli, Liam», mi sorrise lei. C’era una barca che ci attendeva giù al porto. Ci avrebbe accompagnato a remi il padrone della barca, un tizio dai capelli lunghi e la pelle quasi nera, muscoloso quanto un culturista, vestito solo di un costume striminzito, che mi venne presentato come Salvo. Salvo era taciturno e sprezzante. Rispondeva a monosillabi alle domande dei miei. Mio padre e mia madre parevano non farci caso ma a me Salvo non piacque per nulla. Costeggiammo il vulcano tenendolo sulla destra. Non avevo mai visto un mare così blu e profondo. Salvo disse, in un inglese che solo a me fece venire da ridere, che il fondo lì sotto si trovava a più di un miglio dalla superficie, e i miei per un attimo abbandonarono la giovialità di quel mattino per tentare di misurarsi con una tale immensità. Le rocce si stagliavano a poche decine di metri alla nostra destra – Salvo si esprimeva in metri e in chilometri, non in iarde e miglia –, aguzze sotto scogliere che parevano toccare il cielo. Ogni tanto si aprivano spiagge desolate, nere e grigie, ingombre di detriti portati dal mare che erano rami ma a me parevano ossa spolpate, forse perché mi ero appassionato all’Odissea su una riduzione a fumetti e papà sosteneva che da quelle parti abitassero le sirene. La vegetazione era lussureggiante, verde e marrone, ma alle volte attraversavamo immense colate di sabbia nera che defluivano dalla cima del monte, senza nulla a trattenerle nel loro tragitto verso il mare. Superammo alcune punte boscose dove la montagna si era allungata nel mare come a volersi riposare dopo tanta pendenza in un accenno di placido pianoro naturale, ma le rocce e la sabbia verticali prendevano subito dopo il sopravvento. In direzione Sud-Est, sul lato sinistro della barca, dove il mare era una tavola infinita, s’intravedevano a volte all’orizzonte delle masse più scure, lontane nel terso cielo azzurro: Salvo borbottò che fosse la Calabria. Organizzai subito un’esplorazione della Calabria in solitaria da tenersi una di quelle notti rubando la barca di Salvo, ma dopo qualche minuto dimenticai il progetto.

    L’intera zona era disabitata, proprio come l’Isola del Tesoro. Le prime case apparvero solo dopo che l’isola piegò a Nord-Ovest, ed erano poche, come atterrite dalla vegetazione tropicale che le inghiottiva e dalle pareti immense che si stagliavano sopra. A differenza del villaggio di Stromboli che si adagiava tranquillo ai piedi del vulcano, qui tutto pareva più selvaggio. I nomi che Salvo dava ai luoghi erano così esotici da chiamare immediatamente all’avventura. Feci scalate su pareti verticali, mi aprii la strada a colpi di machete nella vegetazione e tentai immersioni fra piovre stritolatrici quasi a ogni colpo di remo. Dopo un’ulteriore svolta al largo per superare delle secche, apparve la scogliera altissima dove le case si raggruppavano a cento e più metri sul livello del mare: il paese di Ginostra.

    Avremmo vissuto là sopra per i successivi tre mesi. Pellegrini nella casa del vento.

    2

    Quando tornammo a casa da Ginostra, per un lungo periodo non parlai coi miei. Risposi a monosillabi per giorni.

    In realtà nessuno dei tre parlò veramente con l’altro. I miei non si fecero troppe domande sui silenzi perché l’ultima notte, approfittando della mia assenza, dovevano aver avuto un litigio dirompente. La mattina presto una nave per Napoli ci attendeva a duecento metri dalla riva, e un pescatore che non conoscevamo ci accompagnò in barca a remi, facendosi carico a spalla di tutti i nostri bagagli per la discesa della stradina sulla scogliera fino al Pertuso, e poi a forza di braccia li caricò dalla barca sulla nave. Non ebbi molta voglia di guardare l’isola che si allontanava, un’isola più vicina al romanzo di Stevenson di quanto avessi creduto. La storia delle conchiglie mi sembra ora un sogno, la fantasia di un bambino. Eppure ricordo che di notte mia madre aveva preso a lamentarsi della puzza che esalava dal bagno della cabina. Sentivo anche io già da tempo l’odore e pensavo fosse la mia coscienza, per cui, quando notai che un adulto se n’era accorto, saltai sul letto e mi precipitai in bagno. Dentro al lavandino trovai delle conchiglie incrostate d’alghe e sedimenti immerse in una pozza marrone. Nel bagno l’odore era insopportabile. Credo che urlai e corsi fuori. Mio padre si precipitò dentro, spaventato dalla mia fuga, ma presto la tensione lasciò il posto alla rabbia. Imprecò contro gli italiani incapaci e truffatori per il gabinetto otturato. Uscì alla ricerca di un inserviente e riuscì a farci cambiare cabina. Non parlò mai delle conchiglie e non seppi se le avesse viste anche lui. Non ebbi il coraggio di sollevare l’argomento. Mia madre invece mi rimproverò per la mia reazione esagerata. Io tenni la testa bassa e non risposi. Vomitai tutto il tempo che passammo in mare e i miei diedero la colpa a un Tirreno poco mosso.

    Di Napoli ricordo vagamente degli uomini pelosi in maglietta e mutande che sui moli, mentre scendevamo dalla nave, volevano venderci a tutti i costi stecche di sigarette di contrabbando, e poi una valigia di mia madre rubata sotto i nostri occhi alla stazione delle corriere. Non facemmo nemmeno la denuncia alla polizia italiana: prendemmo quell’aereo più velocemente che potemmo e in cuor nostro, separatamente, giurammo di non tornare più in Italia.

    Quell’autunno cambiai molto, anche se un bambino di undici anni non si accorge dei suoi cambiamenti e i genitori sono così abituati a vedere i figli piccoli mutare di mese in mese che nessuno si fece domande.

    Quello che so adesso è che avrei voluto parlare di più con mio padre. Si era allontanato da tutti, irraggiungibile, e questo mi faceva infuriare e faceva infuriare mia madre, per cui entrambi lo assaltavamo come si fa con un nemico e ne provocavamo una fuga ancora più rapida nei luoghi bui della mente. Avrei voluto che venisse da me com’era prima di quell’estate, che mi parlasse, imploravo silenziosamente di essere ancora il suo piccolo genio. Ma eravamo due statue incastonate in giardini invernali, separati da muri spessi di silenzio. Io e mia madre non esistevamo più, non come avremmo voluto esistere nel suo cuore, come moglie e figlio.

    Con mia madre infine ripresi a parlare perché forse dei tre era l’unica che non aveva davvero cambiato sé stessa. Indurita, impaurita, ma alla fine sempre lei: la donna che dipingeva il magma di un vulcano seduta davanti a un cavalletto sopra le bocche di fuoco.

    Forse, di tutto quello che è successo, è l’immagine di mia madre che dipinge quadri magnifici nei punti più remoti dell’isola a tornarmi alla memoria più spesso e nitidamente. Mia madre rincasò dal mare con una nuova giovinezza in tasca. Era sempre stata il vero capofamiglia, ma nei mesi successivi al viaggio mi accorsi di come si fosse rafforzata. Lo si comprendeva soprattutto ammirando il suo nuovo stile pittorico. Prima di Ginostra mia madre dipingeva delle vere croste, mentre nel periodo successivo i suoi quadri divennero meravigliosi, ammirati da tutti. Quell’autunno il materiale precedente finì in cantina sostituito da dipinti accostabili a un realismo magico di sapore messicano dove pastosi colori a olio mescolavano tragicamente lava, acqua e cielo dietro a volti e corpi di pescatori e contadine. Iniziai ad apprezzare e poi amare i quadri di mia madre. Fu allora che nacque in me la passione per la pittura.

    3

    Di mattina persisteva ancora una temperatura accettabile, per cui, nel mio primo giorno a Ginostra, dopo colazione, chiesi il permesso di fare una passeggiata e mi fu accordata un’ora libera prima di andare a salutare i Mason che si erano già sistemati da una decina di giorni. In un’ora non si poteva fare molto e mia madre mi aveva impartito una tale quantità di proibizioni e limitazioni di movimento in direzione del mare che poco mancò che rimanessi in terrazzo tutto il tempo. Però verso il monte mia madre non aveva steso fili spinati e decisi di affrontare di petto la salita. Era un’idea di una stupidità disarmante e infatti non mi riuscì di percorrere più di trecento metri, ma fu sufficiente per raggiungere il cimitero del paese. Le tombe erano coperte in gran parte da erbacce dissanguate dal sole, ed era minuscolo. Il sole picchiava già a quell’ora, per cui ero sudatissimo quando mi diressi all’unica tomba davvero candida e pulita, sistemata in un angolo vicino all’ingresso. Era una lastra di marmo che recava una frase

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