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Serial killer
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E-book858 pagine11 ore

Serial killer

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Info su questo ebook

Da Jack lo Squartatore ai mostri di Rostov e di Foligno, una lunga linea di sangue attraversa l’Europa

Prefazione di Roberta Bruzzone

L’omicidio seriale esiste fin dalla preistoria, ma i serial killer, definiti come tali, esistono da meno di cinquant’anni e sono entrati nell’immaginario collettivo grazie a personaggi di fantasia come Hannibal Lecter e Norman Bates, il protagonista di Psycho. Questo libro racconta gli iniziali studi del fenomeno, negli Stati Uniti, grazie al lavoro pionieristico dell’FBI e di altri studiosi, per poi concentrare l’attenzione sull’Europa, attraverso l’analisi della Banca Dati dei Serial Killer in Europa, l’unico archivio esistente che contiene storie di vita, analisi del modus operandi e profili psicologici di più di 2200 assassini seriali identificati dal 1801 a oggi. Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Russia, ma anche Polonia, Spagna, Svizzera: ogni nazione ha le sue tipologie di serial killer e i numerosi casi descritti permettono di comprendere le caratteristiche dell’omicidio seriale in ogni Paese, grazie anche alla partecipazione di esperti europei che hanno arricchito il testo con i loro contributi originali. L’ultima parte del libro è dedicata all’approfondimento di temi specifici: la donna serial killer, gli Angeli della Morte, il caso del Mostro di Firenze e molti altri ancora. 
Un libro che rappresenta una guida indispensabile per compiere un viaggio attraverso il cuore nero dell’Europa. Un manuale imperdibile per le polizie europee, per gli studiosi e per gli appassionati che non si perdono un episodio di Dexter, Criminal Minds o di altre serie crime.

Quali sono gli elementi per classificare un serial killer? 

L’identificazione dell’assassino: questione di vita o di morte

• c’è correlazione tra l’industrializzazione e gli omicidi seriali? 
• che età hanno i serial killer? 
• c’è sempre un quadro familiare difficile? 
• esistono donne serial killer? 
• operano in piccole città o grandi metropoli? 
• il fenomeno degli innocenti che confessano 
• il mostro di Firenze: un caso ancora poco chiaro
Ruben De Luca
Psicologo, criminologo, scrittore, è autore di circa 100 pubblicazioni di criminologia, in particolare sull’omicidio seriale, di cui è considerato uno dei massimi esperti a livello europeo. Nel 2001 ha creato ESKIDAB, la Banca Dati dei Serial Killer in Europa, un archivio in costante aggiornamento sugli assassini seriali identificati in Europa. Formatore presso master e corsi di specializzazione in tutta Italia, consulente e opinionista di programmi RAI, dal 2009 si dedica anche allo studio dello stalking e alla realizzazione di corsi rivolti alle donne per la prevenzione del femminicidio. Tra le sue pubblicazioni più importanti: Anatomia del serial killer 2000 (2001); Omicida e Artista: le due facce del serial killer (2006); Amare uno stalker. Guida pratica per prevenire il femminicidio (2015).
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2021
ISBN9788822752949
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    Anteprima del libro

    Serial killer - Ruben De Luca

    Prefazione

    Ci sono testi che non possono mancare nella biblioteca di uno studioso di Criminologia Investigativa. Il libro scritto dal collega e amico Ruben De Luca è sicuramente uno di questi. Il lavoro di ricerca che ha portato alla stesura di questo manuale, prezioso e documentatissimo, è durato più di venti anni, e l’approfondimento scientifico colpisce proprio per la sistematica attività di validazione di ogni singola informazione. La ricostruzione analitica della storia del delitto seriale nel contesto europeo non era mai stata fatta sino a ora, così come la comparazione tra modus operandi e firma comportamentale di soggetti che uccidono all’interno di scenari socioculturali molto diversi, anche se all’interno di un territorio condiviso. L’Autore ci accompagna, con uno stile espressivo estremamente godibile e fruibile anche per i non addetti ai lavori, in un viaggio affascinante attraverso i casi maggiormente rappresentativi che hanno interessato tutti i Paesi europei e fornisce al lettore una lettura moderna e aggiornata di un fenomeno, quello del crimine seriale, che da sempre suscita un enorme interesse nell’opinione pubblica, contribuendo a sfatare una serie di miti e leggende metropolitane che sono stati ampiamente divulgati in questi anni e che non hanno risparmiato neppure il nostro Paese. Come testimoniano ormai da anni le pagine di cronaca giudiziaria, anche l’Italia ha i propri mostri, capaci di mietere vite per semplice rivalsa nei confronti della frustrazione causata da una perdita al casinò o come scomoda conseguenza di un modo perverso di vivere la propria sessualità.

    Per riferirsi a questa figura criminale da circa cinquant’anni si è adottato il termine serial killer. Questa terminologia entra prepotentemente in campo all’epoca dei crimini del cosiddetto Son of Sam («il figlio di Sam») David Berkowitz, autore di diversi omicidi nella New York degli anni Settanta. In quel periodo probabilmente negli Stati Uniti erano già attivi almeno una dozzina di predatori seriali mentre, negli ultimi anni, il loro numero sembra essere decisamente aumentato. Le stime ufficiali calcolano che siano da attribuire a tale tipologia di assassini circa il 10% degli omicidi complessivi che avvengono negli Stati Uniti e in Canada: a oggi, tuttavia, risulta pressoché impossibile stabilire con buona approssimazione il numero effettivo di serial killer in azione nel panorama internazionale. Secondo alcune stime, la presenza di tali predatori sembra essere distribuita geograficamente nel modo seguente: circa il 76% di tali assassini risiederebbe all’interno del territorio dell’America del Nord (in prevalenza Canada e Stati Uniti) mentre soltanto il 19% agirebbe all’interno del territorio Europeo nel suo complesso… in questi casi il condizionale è d’obbligo.

    Sembra comunque che l’omicidio di matrice seriale sia un fenomeno molto più antico di quanto si immagini comunemente. Sfogliando le riviste specializzate in materia, è piuttosto facile imbattersi nelle descrizioni di molti casi di brutali uccisioni che rientrano nella definizione di omicidio seriale fornita dal Crime Classification Manual (J.E. Douglas, A.W. Burgess, A.G. Burgess e R.K. Ressler., 1992), una tra le più accreditate a livello internazionale. Secondo questa classificazione tali omicidi comportano l’esistenza di almeno tre vittime e la presenza di una pausa temporale (il cosiddetto periodo di cooling off o «raffreddamento») tra un omicidio e il successivo. Naturalmente gli individui che nel passato si sono macchiati di tali delitti non furono definiti serial killer e nemmeno mostri, ma piuttosto eccezionali e unici per il loro tempo. Cesare Lombroso, per molti versi il padre della Criminologia moderna, più di cento anni fa raccoglie in una sua perizia quello che è di fatto il primo resoconto completo che un pluriomicida fa di sé stesso. Mi riferisco al caso Verzeni, noto come lo Strangolatore di Donne, che tra il 1867 e il 1871 uccide due donne e ne aggredisce sessualmente altre sei. Nell’Ottocento, comunque, ci sono molti altri casi di questa stessa matrice. Su tutti, quattro che all’epoca hanno destato grande interesse investigativo e allarme sociale sono sicuramente i seguenti: Jack lo Squartatore, il sergente Bertrand, Vacher e il dottor Thomas Cream. All’epoca della cattura, erano persone considerate al di sopra di ogni sospetto e, solo una volta identificati (tranne Jack lo Squartatore, i cui delitti si sono interrotti inspiegabilmente nel novembre del 1888), sono diventati clamorosi esempi di comportamento efferato e perverso.

    Ma è possibile trovare traccia dell’operato di tale tipologia di assassini non solo all’interno delle più datate riviste specialistiche, ma anche all’interno della favolistica dei fratelli Grimm o di Perrault, ad esempio. Soprattutto nei racconti di Hansel e Gretel e di Barbablù, infatti, sembra riecheggiare il ricordo del conte Gilles de Rais, compagno d’armi di Giovanna d’Arco, che nel 1440 viene processato a Nantes per aver orrendamente ucciso circa un centinaio di bambini. Questa vicenda diviene ben presto leggenda e poi persino favola. In questo genere di favole, la componente sessuale viene solitamente schermata, ma nella leggendaria figura del mostro che si ciba di carne umana si può leggere una chiara trasposizione metaforica del movente alla base dell’operato di molti serial killer: la letale fusione di piacere sessualizzato e bramosia di uccidere in un’apoteosi di ferocia gratuita.

    Nell’immaginario collettivo, grazie al corposo intervento di una certa filmografia e letteratura noir, si è diffusa l’idea che il serial killer sia un soggetto affascinante, di intelligenza superiore, una sorta di genio del male a caccia di sfide, che entra in competizione intellettiva con gli inquirenti che si impegnano spasmodicamente, e spesso invano, per catturarlo. Purtroppo, anche molti criminologi sembrano aver subìto il fascino di tale figura criminale, sull’onda del successo di film del calibro de Il silenzio degli innocenti, nel vano tentativo di rubare un po’ del fascino da eroina della bella e coraggiosa Clarice Starling (l’agente speciale dell’

    FBI

    che riesce a entrare in contatto con l’impenetrabile Hannibal Lecter e a salvare l’ultima vittima), per cercare morbosamente di irrobustire e spettacolarizzare la loro immagine professionale.

    In verità, il motivo alla base della grande difficoltà sin ora emersa nel tentare di catturare tali predatori non è da ricondurre alla loro sovrumana intelligenza e competenza criminale nel saper dominare tutti gli eventi della loro erratica esistenza terrena, ma è dovuta molto spesso alla impossibilità di stabilire una connessione fra i tre elementi fondamentali di un’investigazione: autore del crimine, movente e vittima. La possibilità di stabilire tale connessione rappresenta la base di partenza di ogni indagine, dal momento che consente di creare la cosiddetta lista dei sospettati. Molto spesso, infatti, tali soggetti selezionano vittime che potremmo definire occasionali, ossia drammaticamente al posto sbagliato nel momento sbagliato, e con cui non hanno mai avuto un contatto in precedenza.

    Sostanzialmente, tutti i serial killer catturati hanno mostrato poi un quoziente intellettivo assolutamente nella norma e conducevano un’esistenza piuttosto misera e priva di qualsiasi appeal di matrice cinematografica. Le loro fantasie omicide si sono sviluppate a partire da un’interminabile serie di frustrazioni sociali e affettive, e sembrano avere radici molto lontane nel tempo, già nella prima infanzia.

    È sicuramente piuttosto complesso tentare di comprendere questo genere di assassini, dal momento che il loro operato spesso non sembra avere nulla a che fare con le motivazioni che innescano i comportamenti criminali ordinari. Tale complessità a livello motivazionale sembra intricare ulteriormente anche il modo in cui pensano e agiscono, in una parola quello che i criminologi definiscono modello comportamentale. C’è chi, come John Douglas, ancora oggi il più noto cacciatore di serial killer dell’

    FBI

    , afferma che l’unico modo per individuarli risiede implacabilmente nell’imparare a pensare come loro, entrando nella loro mente. Non bisogna però dimenticare ciò che Sir Arthur Conan Doyle, il creatore del celebre e infallibile detective londinese Sherlock Holmes, afferma in uno dei suoi romanzi: «L’eccezionalità costituisce sempre un indizio, più anonimo e comune è un delitto, più diventa difficile risolverlo».

    Non possiamo stabilire con assoluta precisione quante vittime arriverà a uccidere o quanto durerà il periodo di pausa (tecnicamente «raffreddamento») tra un omicidio e l’altro. Sappiamo solo che uccide ripetutamente a intervalli di tempo variabili e la coazione a ripetere sembra non potersi fermare in maniera spontanea. I serial killer non uccidono ogni notte di luna piena, essi uccidono quando avvertono il bisogno di sperimentare la sensazione inebriante che solo il completo controllo e potere sulla vita di un’altra persona è in grado di fornire loro. Come e quando arrivano a tale punto sembra essere il frutto di un percorso del tutto soggettivo. La vittima è in genere una persona sconosciuta, o di cui l’omicida ha una conoscenza solo superficiale, che si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato. Per procurarsi una vittima, l’omicida mette in mostra sovente un comportamento predatorio talvolta ben organizzato, altre volte più casuale e scomposto. Per lo più, questo genere di individui tende a ricercare le prede all’interno del proprio gruppo etnico e sembra mostrare una predilezione per l’azione isolata (anche se proprio in merito a tale aspetto esistono debite eccezioni alla regola). Questo genere di assassini non sembra ricercare dei partner con cui relazionarsi dal punto di vista sessuale, ma piuttosto degli oggetti con cui masturbarsi. È il dominio totale sulla preda l’obiettivo principale. L’attività sessuale, quando presente, sembra rappresentare una sorta di strumento privilegiato per degradare e distruggere la vittima, arrivando così a esercitare su di essa un controllo pressoché assoluto.

    Solo in pochissimi casi si è rilevato che le vittime di uno stesso serial killer avessero importanti caratteristiche somatiche in comune (ad esempio, Ted Bundy, uno dei più feroci e prolifici serial killer americani, preferiva ragazze con lunghi capelli castani pettinati con la riga in mezzo).

    La maggior parte delle ricerche scientifiche condotte su tali soggetti ha messo in luce che, come gruppo, manifestano una serie di caratteristiche piuttosto significative. Naturalmente parliamo di indicazioni di massima. In primo luogo, essi tendono a commettere il loro primo omicidio tra i 23 e i 35 anni, anche se esistono importanti eccezioni alla regola, come ad esempio nel caso di Donato «Walter» Bilancia, il serial killer della Liguria, che ha commesso il suo primo omicidio conosciuto ben più avanti negli anni rispetto al range medio. Nella maggioranza dei casi, si tratta di maschi bianchi di intelligenza media. La maggior parte di questi assassini è sostanzialmente invisibile da un punto di vista sociale. Si tratta per lo più di soggetti comuni, e quindi indistinguibili rispetto al resto della popolazione. Lupi travestiti da agnelli, in grado di mimetizzarsi facilmente sotto le spoglie del tipo della porta accanto. Le loro letali fantasie omicide sorgono già durante l’infanzia e l’adolescenza, ed essi tendono a mostrare uno spiccato interesse proprio per l’universo della fantasia, dal momento che il mondo reale spesso sa riservare solo frustrazioni e delusioni. Proprio il disagio che deriva dagli accadimenti del mondo reale sembra spingerli patologicamente a rifugiarsi sempre più frequentemente all’interno del loro mondo di fantasie, che diventa così il palcoscenico ideale per rovesciare, in chiave compensatoria, il proprio vissuto di impotenza e umiliazione, alimentato dagli accadimenti della vita reale. Tendono a essere piuttosto solitari sin da bambini, hanno poche amicizie, vivono spesso ai margini del gruppo dei pari. Alcuni di loro sono figli illegittimi. In alcuni casi, si tratta di figli di prostitute. La figura materna è spesso vissuta in maniera negativa e problematica. Sin dalla tenera età, non sembrano nutrire alcuna considerazione per gli altri bambini e il loro modo di giocare non ha nulla di gioioso e tende a seguire schemi ripetitivi in cui spicca una dilagante carica aggressiva. La profonda svalutazione di sé stessi, che i serial killer trasferiscono sulle vittime, sembra essere la chiave in grado di permettere la messa in atto delle loro letali fantasie. Con ogni probabilità, solo arrivando a dominare totalmente le vittime riescono a liberarsi per qualche momento del profondo disprezzo che sembrano provare in primis proprio per sé stessi. Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, era convinto che fosse impossibile per lui ottenere un partner sessuale consensuale, perché si percepiva come un essere disgustoso, deriso ed evitato da tutti, indegno di essere amato. Molte ricerche hanno dimostrato che i bambini vittima di abuso e/o maltrattamento infantile tendono a giustificare il comportamento dell’abusatore attraverso l’attribuzione della colpa a sé stessi. Ciò sembra essere alla base del profondo disprezzo che questi bambini tendono a sviluppare, non tanto nei confronti della fonte del maltrattamento, ma piuttosto nei confronti di sé. La gravità di tale scenario può determinare la cosiddetta morte emotiva, in cui proprio tale disprezzo contamina tutto e tutti. E questo naturalmente rappresenta un terreno fertile per molte manifestazioni devianti di gravità variabile. Durante l’adolescenza, questi soggetti spesso appiccano incendi, si comportano in maniera crudele nei confronti degli animali e commettono piccoli furti. Nella maggior parte dei casi giunti all’attenzione degli inquirenti, l’escalation criminale ha inizio con crimini differenti, tra cui aggressioni (sessuali e non), furti, rapimenti, omicidi non sessualizzati, ecc.

    Una caratteristica che sembra contraddistinguere tale tipologia di omicidi è l’assenza di un movente convenzionale come la vendetta, il lucro, la passione, l’ira o l’abbandono. Gli omicidi di questo genere non sembrano commessi per ottenere un guadagno materiale, ma si tratta piuttosto di atti che mirano alla soddisfazione di bisogni sviluppati attraverso la fantasia. Proprio la gratificazione di tali bisogni tende a improntare il nucleo centrale del rituale esecutivo, ossia quella serie di comportamenti che non sono strettamente necessari a determinare l’evento-morte, ma che consentono all’assassino di mettere in scena le proprie fantasie in tutta la loro ferocia. Tale rituale tende a rimanere sufficientemente stabile nel tempo, fornendo agli investigatori la cosiddetta firma del serial killer. A differenza della firma, il modus operandi, ossia il modo in cui un determinato crimine viene compiuto, invece tende a modificarsi in maniera dinamica a seconda dei casi, essendo maggiormente soggetto a fattori contestuali. Naturalmente, secondo quanto affermano gli esperti statunitensi, è la firma a rappresentare l’unico elemento indiziario solido in grado di collegare tra loro una serie di omicidi.

    Esaminando le informazioni rese note dalle più accreditate agenzie investigative a livello internazionale, e dal National Center for the Analysis of Violent Crime dell’

    FBI

    , risulta piuttosto evidente l’attenzione rivolta al ruolo svolto dall’immaginazione all’interno dell’operato criminale di tali soggetti. In effetti, tutti noi nutriamo delle fantasie e ci riserviamo gelosamente il diritto di poter sognare ma, allo stesso modo, sappiamo bene quali sono i confini attuativi di tali fantasie attraverso quello che è comunemente chiamato dagli psicologi principio di realtà. Per gli assassini seriali non è così. All’interno del loro universo psichico, la fantasia evolve spesso in qualcosa di decisamente meno governabile, che viola il confine con la realtà arrivando a contaminarla in maniera letale… per le loro vittime.

    Sembra oggi riscuotere un certo successo la tesi che considera questo genere di assassini il prodotto di una combinazione letale tra caratteri congeniti e acquisiti. Ma c’è anche chi, come il noto psichiatra forense americano Park Dietz, ritiene invece che essi non siano altro che una miscela esplosiva tra «geni giusti e genitori sbagliati». Sempre secondo il professor Dietz, il salto dalla fantasia alla realtà dipende in larga parte dal carattere e dalle vicissitudini della vita e non sembra avere molto a che fare con quelli che diverranno poi gli oggetti del desiderio, per quanto macabri essi siano. Con ogni probabilità, sarebbe tutt’altro che semplice rendere perversa o criminale una persona che altrimenti si comporterebbe in maniera socialmente accettabile, soltanto esponendola (per quanto su una base regolare e sistematica) a una visione di immagini profondamente aberranti. Ciò sta a significare che l’origine della pulsione deviante di tali individui va ricercata ben più in profondità.

    E questo testo rappresenta sicuramente un’occasione preziosa per comprendere i passaggi fondamentali nella genesi di questi predatori di esseri umani.

    Roberta Bruzzone

    Psicologa Forense e Criminologa Investigativa

    Presidente Accademia Internazionale delle Scienze Forensi

    www.accademiascienzeforensi.it

    Introduzione

    10 miti da sfatare sui serial killer

    Serial killer in inglese.

    Tueur en série in francese.

    Serienmörder in tedesco.

    Asesino en serie in spagnolo.

    Seriynyy ubiytsa in russo.

    C’è un termine specifico in ogni nazione e non esiste Paese in Europa che non abbia avuto almeno un caso di omicidio seriale, a parte Città del Vaticano, San Marino, Principato di Monaco e Lussemburgo. Se non conoscete i nomi della maggior parte dei serial killer europei, è perché ci sono le barriere linguistiche, e questa ricerca ha lo scopo di superare i confini e le limitazioni imposte dalle difficoltà di comunicazione per scoprire il mondo nascosto degli assassini seriali in Europa.

    L’idea di approfondire questo argomento mi ronza nella testa da vent’anni, ma i tempi non erano maturi. Adesso è arrivata l’ora. Adesso che, più di prima, ci rendiamo conto che condividiamo tutti un destino simile e che, affrontando i problemi con una visione comune, può essere più facile trovare una soluzione.

    Non esiste uno studio specifico sui serial killer europei precedente a quello che tenete fra le mani in questo momento: non è mai stato tentato né, forse, immaginato, perché le difficoltà per realizzarlo erano (e sono state) enormi. Ho scovato un paio di libri che hanno come titolo Omicidio seriale in Europa o qualcosa di simile, ma contengono semplicemente storie di vita di assassini senza alcun tipo di analisi complessiva del fenomeno. Poi ci sono le enciclopedie dei serial killer nelle quali c’è sempre una sezione dedicata all’Europa, ma si tratta di semplici raccolte di biografie degli assassini seriali più famosi. La mia ricerca non è esaustiva perché il lavoro è solo all’inizio e ho fatto tutto da solo, senza assistenti né collaboratori. Esisteranno casi che non sono riuscito a trovare e informazioni mancanti su quelli inseriti ma, a oggi, la mia Banca Dati dei Serial Killer in Europa è, di sicuro, la più completa mai realizzata.

    Tre anni fa, ho iniziato ad apprendere i rudimenti di altre lingue, allo scopo di leggere i testi scritti da criminologi di cui non conoscevo neanche l’esistenza, ho consultato le banche dati nazionali laddove disponibili, ho contattato professori, giornalisti investigativi e studiosi di ogni singolo Paese europeo per renderli partecipi del mio lavoro: alcuni hanno risposto con entusiasmo, colpiti dall’originalità dell’idea, e mi hanno inviato un contributo scritto, altri hanno semplicemente risposto ad alcune domande via mail, qualcuno ha declinato l’invito. A ognuno dei professionisti che mi ha dedicato anche solo una piccola parte del suo tempo, accettando di far parte di questo progetto, va il mio più sincero ringraziamento. Il libro che avete tra le mani è solo la prima pietra sulla quale fondare una collaborazione europea volta a migliorare la comprensione delle dinamiche dell’omicidio seriale, un tipo di crimine sul quale si hanno ancora conoscenze parziali e convinzioni spesso errate.

    Negli ultimi decenni, il serial killer è diventato una figura popolare, talvolta affascinante, e questo fa sì che, spesso, sia rappresentato confondendo verità e finzione.

    L’immagine degli assassini cinematografici e televisivi si è sovrapposta a quella reale, portando molte persone a ritenere che i serial killer in carne e ossa abbiano la faccia e la personalità di Norman Bates, Hannibal Lecter o Dexter Morgan. Prima di concentrarmi sull’analisi dell’omicidio seriale in Europa, mi sento in dovere di sfatare una serie di miti che sono piuttosto radicati nell’immaginario collettivo, miti generati da un processo di suggestione che non ha influenzato solo i profani dell’argomento, ma anche molti cosiddetti esperti che circolano nel campo della criminologia.

    Mito n° 1: Il termine serial killer è stato usato per la prima volta dall’

    FBI

    alla fine degli anni Settanta.

    Avete sempre creduto che questa affermazione fosse esatta, vero?

    E come avreste potuto pensare diversamente, visto che in qualsiasi libro, sito o serie televisiva che parli di serial killer è costantemente narrata questa origin story (per usare una definizione cara agli appassionati di supereroi)?

    Gli agenti speciali del Federal Bureau of Investigation (

    FBI

    ) sono stati i primi a studiare in maniera sistematica il fenomeno dell’omicidio seriale e hanno avuto il merito di attrarre i riflettori dei mass media sul personaggio del serial killer, ma non hanno inventato loro il termine. L’inglese David Canter lo chiama effetto Hollywood: alcune impressioni soggettive sono trasportate dentro dei copioni che, recitati più volte, vengono considerati reali da chi li ascolta.

    La verità è che il primo utilizzo della definizione di assassino seriale (Serienmörder) compare in Germania, in un articolo scientifico del 1930 scritto dal criminologo tedesco Ernst Gennat, direttore della polizia criminale di Berlino, in riferimento al caso di Peter Kürten, il vampiro di Düsseldorf (Die Düsseldorfer Sexualverbrechen). Quindi, il termine serial killer nasce in Europa e molti decenni prima di quando vi hanno sempre raccontato.

    Mito n° 2: I serial killer sono tutti solitari disfunzionali.

    Il primo assassino seriale cinematografico entrato nell’immaginario collettivo è Norman Bates, il complessato proprietario di un isolato motel in Psycho (1960), il capolavoro di Alfred Hitchcock. Molte persone credono che i serial killer reali siano tutti così: tipi strani e introversi, che vivono in una casa inquietante, magari col cadavere impagliato della madre in salotto.

    Certamente esistono soggetti che rientrano in questo profilo, ma non sono la maggioranza.

    Per quanto scomoda possa essere, la realtà è che la maggior parte dei serial killer non hanno caratteristiche somatiche o comportamentali che li rendano immediatamente riconoscibili. L’appellativo di mostro usato dai mass media è un meccanismo di difesa adottato da noi esseri umani normali, nella speranza di poter etichettare e riconoscere il Male a prima vista.

    Molti assassini seriali sono sposati e interagiscono con gli altri, conducendo una normale vita sociale. Anche il predatore più feroce non pensa sempre a uccidere e può coltivare passatempi e interessi innocui o, addirittura, essere impegnato in attività altruistiche e filantropiche.

    Mito n° 3: I serial killer sono maschi bianchi, presenti soprattutto negli Stati Uniti, e le donne sono una rarità statistica.

    Quasi tutti gli assassini seriali cinematografici sono maschi bianchi: Monster (2003) è l’unica pellicola di successo in cui la protagonista (Aileen Wuornos) è una donna serial killer (interpretata da Charlize Theron). Esistono altri film incentrati sulle vicende di un’assassina seriale (o di un serial killer di colore, o di una coppia di assassini), ma hanno avuto scarsa risonanza mediatica e bassa visibilità.

    Nella realtà, esistono assassini seriali di tutte le razze: bianchi, neri, asiatici, ispanici. Forse, l’unico che manca è un serial killer eschimese. E, di sicuro, ci sono molte più assassine di quelle elencate nelle statistiche internazionali, che commettono sempre l’errore di sottovalutarne il numero.

    Mito n° 4: I serial killer sono motivati solo dal sesso.

    Questa percezione dipende dal fatto che i predatori sessuali trovano più spazio sui mass media perché il sesso attira e attiva la curiosità morbosa del pubblico. La sovraesposizione mediatica ha generato la falsa convinzione che tutti gli assassini seriali siano spinti a uccidere da un complesso di pulsioni sessuali.

    Niente di più sbagliato. Nella realtà, la maggior parte dei serial killer utilizza il sesso come mezzo per ottenere il Controllo delle vittime ed esercitare Potere su di loro. I moventi di superficie che spingono a uccidere sono diversi, ad esempio rabbia, guadagno economico, ricerca di attenzione. Ovviamente c’è anche il sesso, ma non sempre.

    L’altro motivo per cui esiste questa errata convinzione è che c’è ancora molta confusione nello stabilire quale sia la definizione più precisa di serial killer, e molti considerano tale solo chi uccide spinto da una pulsione sessuale.

    Mito n° 5: I serial killer non riescono a smettere di uccidere e vogliono essere catturati.

    È una delle credenze più consolidate: il serial killer rappresentato come un automa in balia di pulsioni incontrollabili.

    Molti assassini seriali vivono l’omicidio come una forma di tossicodipendenza, per cui devono uccidere a intervalli di tempo sempre più ravvicinati e non si fermano finché non vengono catturati (soprattutto quelli i cui omicidi sono legati alla soddisfazione di bisogni sessuali perversi), ma ci sono anche quelli che interrompono la serie omicida prima di essere presi.

    I motivi dell’interruzione possono essere vari: alcuni sono arrestati per crimini differenti, oppure muoiono all’improvviso, ma altri si fermano volontariamente dopo il verificarsi di eventi che rivestono una funzione inibitoria, oppure perché riescono a ottenere una gratificazione sostitutiva, grazie a una vita familiare positiva o sperimentando pratiche sessuali coercitive, senza però arrivare all’omicidio.

    Alcuni serial killer sentono il bisogno di stabilire un canale di comunicazione con gli investigatori o con i mass media, perché avvertono la necessità di una sfida che aumenti il livello di eccitazione, ma questo non significa che vogliano essere catturati. A partire da Jack lo Squartatore, passando per Zodiac e il Mostro di Firenze, i casi in cui un assassino comunica col mondo sono quelli più pubblicizzati, per cui nella gente comune (e, spesso, anche in alcuni esperti) si è formata la convinzione che tutti gli assassini seriali abbiano l’urgenza di comunicare.

    A volte un serial killer dà l’impressione di voler essere catturato perché commette errori che conducono effettivamente al suo arresto, ma ciò non è tanto dovuto a un desiderio inconscio di essere fermato, quanto a un eccesso di sicurezza (soprattutto in una serie omicida lunga) che gli fa credere di essere invincibile.

    Mito n° 6: Tutti i serial killer sono insani e con un aspetto mostruoso, oppure geni del male affascinanti.

    Quando si parla di serial killer, a molti viene subito in mente il ghigno di Hannibal Lecter interpretato magistralmente da Anthony Hopkins ne Il silenzio degli innocenti (1991). Per esigenze di scrittura cinematografica, gli assassini dei film sfidano gli investigatori e sono super intelligenti oppure completamente pazzi. Uno sceneggiatore deve creare un personaggio che attragga gli spettatori, quindi eviterà di descrivere una personalità banale, ma farà in modo di renderlo affascinante per intensificare il contrasto tra bellezza esteriore e mostruosità interiore: anche quando un film racconta le vicende di un assassino realmente esistito, di solito l’attore che lo interpreta è più fotogenico della controparte reale. In altre pellicole, l’assassino viene rappresentato in maniera ripugnante per suscitare un sentimento di orrore: in questo caso, l’obiettivo è scuotere, scioccare e far scattare la curiosità morbosa del pubblico.

    Nella realtà, i geni del male sono una rarità e l’intelligenza degli assassini seriali rispecchia, più o meno, quella della popolazione generale. La maggior parte di loro è perfettamente capace d’intendere e di volere: è vero che soffrono di vari disturbi di personalità, soprattutto la psicopatia (o disturbo antisociale di personalità), ma sono giuridicamente sani di mente e consapevoli delle loro azioni.

    Mito n° 7: I serial killer sono organizzati o disorganizzati, lasciano sempre una firma e prelevano feticci.

    La distinzione fra organizzati e disorganizzati operata dall’Unità di Analisi Comportamentale dell’

    FBI

    è stata indubbiamente fondamentale per iniziare a comprendere il modo di agire degli assassini seriali, ma si tratta di una classificazione troppo schematica perché la maggior parte di essi mostra comportamenti misti: selezione pianificata della vittima e casualità dell’arma usata oppure organizzazione del modus operandi e improvvisazione nella scelta di chi uccidere. Nella realtà, è un evento raro trovare un soggetto totalmente organizzato o uno del tutto disorganizzato.

    Un discorso simile si può fare per la firma, cioè l’elemento caratteristico e distintivo che rimane uguale nella serie: non tutti i serial killer la usano, ma quelli immortalati dal cinema, dalla televisione e dai mass media ne lasciano sempre una che permetta di attribuire a loro gli omicidi. Si tratta di un elemento irresistibile in una trama, ma che riguarda solo una parte degli assassini seriali nella realtà. Lo stesso discorso vale per il prelievo di feticci dalla scena del crimine: non è un’abitudine universale e diversi serial killer rivivono gli omicidi senza bisogno dei trofei.

    Mito n° 8: Tutti i serial killer hanno subìto abusi durante l’infanzia.

    Ecco un altro elemento narrativo davvero efficace per rendere interessanti i protagonisti delle fiction. La realtà, però, ci dice che non tutti i serial killer hanno un padre alcolizzato e violento e una madre prostituta, anche se è vero che, nella maggior parte dei casi, si verifica una serie di problemi e traumi durante il periodo evolutivo, ma spesso si tratta di eventi simili a quelli che accadono nelle vite di tanti individui che non diventeranno mai assassini seriali.

    Quando l’infanzia è più o meno nella norma, il fattore chiave per spiegare la genesi degli assassini sembra essere un deficit nella capacità di resilienza: bambini che vivono in maniera catastrofica anche i traumi più lievi perché hanno una scarsa capacità di metabolizzazione delle difficoltà.

    Mito n° 9: I serial killer commettono sempre il primo omicidio tra i 20 e i 40 anni.

    È vero che la maggior parte degli assassini inizia a uccidere proprio in quest’arco temporale, ma si tratta banalmente della normalità statistica evidenziata nei crimini violenti: in questa fascia d’età, soprattutto fra i maschi, si registra la maggiore propensione all’uso della forza, ma ci sono delle significative eccezioni.

    Esistono serial killer che commettono il primo omicidio da bambini.

    Esistono serial killer che commettono il primo omicidio nella mezza età o, addirittura, da anziani.

    Raramente, però, questi casi vengono pubblicizzati, perché sono particolarmente disturbanti: il bambino rappresenta l’innocenza, l’anziano la fragilità e la memoria storica. Descrivere la mostruosità che può celarsi dietro queste due figure frantuma gli stereotipi positivi presenti nella mente delle persone e mina le certezze fondamentali sulle quali è costruita la società.

    Mito n° 10: I serial killer uccidono le prostitute perché vogliono ripulire il mondo dal Peccato e punire il sesso sporco.

    È una convinzione molto diffusa anche tra i cosiddetti esperti che, spesso, tendono a psicologizzare troppo le motivazioni degli assassini seriali per cui, quando si trovano davanti a una serie di omicidi di prostitute, hanno la tentazione di descrivere il responsabile come un missionario che si è imbarcato in una crociata per punire il sesso peccaminoso.

    In alcuni casi, questa interpretazione è corretta, ma spesso la scelta di uccidere le prostitute è una faccenda di pura opportunità. Per definizione, avvicinare una vittima simile è molto facile anche per un uomo dotato di scarse capacità relazionali: non è necessario padroneggiare le tecniche di seduzione e gli scambi verbali sono orientati esclusivamente alla transazione. La prostituta lavora in luoghi isolati ed è disponibile in orari notturni, per cui il serial killer è avvantaggiato nella fase di cattura. Inoltre, l’omicidio di una prostituta non scatena lo stesso allarme sociale provocato da quello di una madre di famiglia (anche perché, spesso, non ci sono parenti che esercitano pressione sugli investigatori per la scoperta del colpevole) e quindi capita che le indagini siano condotte con minore impegno.

    Prendere di mira una prostituta è l’opzione migliore per un serial killer inesperto che desidera minimizzare i rischi, al di là dell’esistenza o meno di una particolare motivazione psicologica.

    E adesso, prima di addentrarmi nella descrizione di quanti sono i serial killer in Europa, come pensano e perché uccidono, voglio ringraziare tutti i fantastici professionisti che hanno lasciato una traccia in questo libro, con la certezza che si tratti del primo seme di una preziosa collaborazione anche in futuro: Michael G. Aamodt (Stati Uniti), Stephan Harbort e Maria Tatar (Germania), Jarosław Stukan (Polonia), Andreas Frei (Svizzera), Alberto Pintado Alcázar (Spagna), Dimitar Stevchev (Macedonia), Thomas Müller (Austria), Robert Webb (Irlanda), Garry deGrood (Russia), Ruslan Sushko (Ucraina), Ercan Akbay e Sevinc Yavuz (Turchia), Andrej Drbohlav (Repubblica Ceca), Paul Britton (Inghilterra), Nedelcho Stoychev e Hristo Hinkov (Bulgaria), Yannis Panousis (Grecia), Andreas Kapardis (Cipro).

    Un ringraziamento speciale va a Roberta Bruzzone, che ha scritto la prefazione di questo libro.

    Dedico una menzione particolare a Niels Peter Nielsen (Danimarca) e Olivier Clerc (Svizzera), le cui teorie sono state un faro illuminante per spingermi a ipotizzare nuovi schemi di pensiero e di azione applicabili ai serial killer.

    E, per finire, un grazie di cuore va anche a Nela Ciobanu (Romania), Nadejda Avrionova (Bulgaria) e Joana Aires (Grecia), che mi hanno supportato dandomi informazioni su serial killer dei loro Paesi che non conoscevo.

    Parte prima

    Anatomia dell’omicidio seriale

    1

    Gli Stati Uniti e lo studio dei serial killer

    Oggi il termine serial killer è familiare più o meno a tutti ma, se ci fermiamo a riflettere, dobbiamo considerare il fatto che questo tipo di criminale viene studiato come entità autonoma solo dall’inizio degli anni Ottanta. Prima di allora, esisteva un enorme contenitore onnicomprensivo che andava sotto il nome di omicidio multiplo e che racchiudeva, indistintamente, ogni caso in cui un assassino uccideva più di una vittima.

    Più che nel profilo psicologico, il futuro dell’investigazione nell’omicidio seriale sembra trovare le migliori prospettive fra algoritmi e software di analisi, ma è un settore in cui lo sviluppo è solo agli inizi. Thomas K. Hargrove è un giornalista investigativo in pensione che ha lavorato per anni a Washington

    D.C

    . e che è stato anche corrispondente per la Casa Bianca. Nel 2015, ha fondato un’organizzazione no profit, il Murder Accountability Project (

    MAP

    ), per analizzare omicidi irrisolti in tutti gli Stati Uniti. Negli anni, Hargrove ha sviluppato un algoritmo che utilizza i dati sui delitti in possesso dell’

    FBI

    per identificare gruppi di omicidi che hanno un’elevata probabilità di contenere degli omicidi seriali. Già nel 2010, le autorità di Youngstown (Ohio) e Gary (Indiana) hanno riaperto i casi di diversi omicidi utilizzando le ricerche di Hargrove. L’identificazione di quindici casi di strangolamento irrisolti a Gary grazie all’algoritmo ha prodotto, nel 2014, l’arresto di Darren Deon Vann, che ha confessato di aver ucciso donne per decenni e ha condotto la polizia in varie proprietà abbandonate dove sono stati trovati i cadaveri di sei vittime strangolate.

    Tutto cominciò così: le prime analisi dell’

    FBI

    Alla fine degli anni Settanta, gli agenti speciali Robert Ressler e John Douglas (facenti parte del Dipartimento di Scienze Comportamentali dell’

    FBI

    con sede a Quantico in Virginia) condussero una serie di interviste con 36 criminali sessuali rinchiusi nelle prigioni degli Stati Uniti, per entrare nelle loro menti e comprenderne il modo di pensare e di agire.

    Da questo innovativo studio sul campo, nel 1979 derivò la definizione di tre tipologie di assassini multipli:

    1. Mass Murderer («assassino di massa»): uccide quattro o più vittime nello stesso luogo e in un unico evento; di solito, il soggetto non conosce le proprie vittime e la scelta è generalmente casuale.

    2. Spree Killer («assassino compulsivo»): uccide due o più vittime in luoghi diversi e in uno spazio di tempo molto breve; questi delitti, spesso, hanno un’unica causa scatenante e sono tra loro concatenati in un certo periodo; anche in questo caso, il soggetto non conosce le vittime e, dato che non nasconde le tracce, viene catturato facilmente.

    3. Serial Killer («assassino seriale»): uccide tre o più vittime in luoghi diversi e con un periodo di intervallo emotivo (cooling-off time) fra un omicidio e l’altro; in ciascun evento delittuoso, il soggetto può uccidere più di una vittima; può colpire a caso oppure scegliere accuratamente la vittima; spesso, ritiene di essere invincibile e che non verrà mai catturato.

    L’indubbio merito dell’

    FBI

    è stato quello di introdurre nuove categorie descrittive nell’indistinto e monolitico universo dell’omicidio multiplo, facendo emergere il bisogno di diversificare i tipi di delitto e studiarli con metodiche appropriate. Ma, col passare del tempo, è saltato all’occhio un limite molto evidente: le definizioni dell’

    FBI

    si basano su un campione ristretto comprendente 36 assassini a movente sessuale (e, fra questi, solo venticinque erano effettivamente assassini seriali) che sono stati intervistati nelle prigioni americane in cui erano rinchiusi. Un campione scelto senza rispettare le regole della casualità, ma solo in base alla partecipazione volontaria dei singoli soggetti, e che qualsiasi statistico considererebbe inattendibile perché non rappresentativo dell’insieme della popolazione considerata. Le interviste si basavano su questionari non strutturati e non è mai stata presentata un’analisi dettagliata del materiale impiegato, né tantomeno i nomi di tutti gli assassini coinvolti nel progetto: Ressler e colleghi si sono limitati a mostrare alcune tabelle riassuntive con le risposte dei soggetti.

    Un po’ di teoria: tipi e stili di serial killer

    Dopo quella dell’

    FBI

    , diversi studiosi americani hanno elaborato definizioni di serial killer, alcune focalizzate sulla personalità, altre su aspetti specifici della serie di omicidi. Vediamo quali sono quelle principali.

    Steven Egger (1984).

    Fornisce una definizione operativa di omicidio seriale, individuando sei caratteristiche principali:

    1. Ci sono almeno due omicidi.

    2. Non ci sono relazioni di nessun tipo fra l’omicida e la sua vittima.

    3. Gli omicidi sono commessi in tempi diversi e non hanno una connessione diretta con quelli precedenti o con i successivi.

    4. Spesso, gli omicidi sono compiuti in luoghi diversi.

    5. Gli omicidi non sono commessi per ottenere un guadagno materiale ma sono, di solito, atti compulsivi; a volte, mirano al raggiungimento della gratificazione di bisogni che si sono sviluppati attraverso la fantasia.

    6. Ogni vittima presenta caratteristiche in comune con quelle che l’hanno preceduta e con quelle che la seguiranno.

    Park Dietz e Richard Rappaport (1986, 1988).

    Questi due psichiatri forensi individuano cinque categorie di assassino seriale:

    1. Crime Spree Killers («assassini compulsivi nell’atto di compiere un crimine»): soggetti che possono agire da soli, in coppia o in gruppo; gli omicidi sono collegati alla commissione di altri reati, come rapine, furti o traffico di droga.

    2. Functionaries of Organized Criminal Operations («esecutori di operazioni criminali organizzate»): soggetti che commettono gli omicidi per ricavare un guadagno personale o su commissione; di solito, sono collegati alla criminalità organizzata; molti assassini seriali di questo tipo fanno parte dei cartelli internazionali del traffico di droga.

    3. Custodial Poisoners and Asphyxiators («avvelenatori e soffocatori di persone assistite»): questi soggetti, spesso, svolgono una professione medica e uccidono i pazienti per ragioni finanziarie o per sollevare sé stessi dalla fatica di assistere persone invalide, malate o, comunque, dipendenti.

    4. Psychotics («psicotici»): soggetti che agiscono secondo un comportamento pericoloso spinti da pensieri irrazionali. Dicono di uccidere perché sentono delle voci nella loro testa che li obbligano a farlo; molti psicotici sono preda di conflitti religiosi e credono di agire su comando di Dio o del Diavolo.

    5. Sexual Sadists (sadici sessuali): soggetti che torturano le vittime prima di ucciderle; lo scopo primario è infliggere dolore alle vittime e utilizzano il sesso per tale scopo.

    Michael Newton (1990, 1992, 1993).

    Definisce i serial killer in base alla mobilità e al raggio d’azione, distinguendo tre tipologie:

    1. Assassino seriale territoriale: elegge come terreno di caccia un’area determinata (una città, un paese, a volte un particolare quartiere, una strada, un parco) e, raramente, sconfina dalla zona che conosce bene. Alcuni assassini seriali scelgono un territorio estremamente specifico, creando un panico diffuso nella comunità, alterando i rapporti sociali e le modalità comportamentali in un quartiere, e non commettono mai omicidi in località differenti.

    2. Assassino seriale nomadico: si sposta da una città all’altra (e anche fra Stati diversi sul territorio americano) in cerca della vittima perfetta. Alcuni assassini sono vagabondi abituali, sempre alla ricerca di un lavoro part-time e di una facile preda, altri viaggiano deliberatamente allo scopo di far perdere le proprie tracce e rendere più difficile il lavoro d’investigazione.

    3. Assassino seriale stazionario: commette gli omicidi a casa propria o sul posto di lavoro (ospedali, case di riposo, cliniche). Indossa una maschera di normalità ed è capace di uccidere per anni senza destare il minimo sospetto nella comunità in cui è ben inserito e stimato. Di solito, pianifica con cura gli omicidi e la maggior parte delle assassine seriali fa parte di questa categoria.

    Non c’è molta omogeneità fra le varie definizioni di omicidio seriale e, soprattutto, quasi nessuno degli studiosi che si è occupato del fenomeno indica la numerosità del campione di riferimento. Quanti casi di omicidio seriale sono stati analizzati da ognuno di essi per arrivare a un certo tipo di definizione? Non ci è dato saperlo e, quindi, non è possibile fare confronti adeguati di tipo scientifico.

    Il serial killer organizzato e disorganizzato

    Nel 1988, gli agenti speciali dell’

    FBI

    Robert Ressler, Ann Burgess e John Douglas introducono la distinzione fra comportamento organizzato e disorganizzato:

    1. Organized Serial Killer («assassino seriale organizzato»): pianifica con cura i delitti, scegliendo un tipo particolare di vittima con il quale sente di avere un legame simbolico.

    2. Disorganized Serial Killer («assassino seriale disorganizzato»): agisce per un impulso improvviso che lo porta a uccidere vittime scelte casualmente, senza preoccuparsi di coprire tutte le tracce, per cui è più facile catturarlo perché è più probabile che lasci indizi sulla scena del crimine.

    Le caratteristiche principali del criminale organizzato sono: crimine pianificato, vittima selezionata, personalizzazione della vittima, conversazione articolata con la vittima, scena del crimine ordinata, vittima sottomessa, uso di costrizione fisica sulla vittima, presenza di azioni aggressive (sadismo), spostamento del cadavere, uso premeditato di un’arma e sua rimozione, tracce fisiche assenti o scarse.

    Le caratteristiche principali del criminale disorganizzato sono: crimine impulsivo, vittima scelta a caso, depersonalizzazione (vittima come oggetto), scambio verbale minimo, scena del crimine disordinata e confusa, scoppio di violenza improvviso, assenza di costrizione fisica, atti sessuali post mortem (necrofilia), coincidenza tra luogo del delitto e di abbandono del cadavere, scelta d’impeto dell’arma lasciata sulla scena, numerose tracce fisiche.

    Nella realtà dei casi, la distinzione tra organizzato e disorganizzato non è così netta. La maggior parte degli assassini seriali, così come gli esseri umani in generale, presentano elementi di organizzazione e disorganizzazione miscelati in una gradazione variabile da soggetto a soggetto. Sembra più corretto parlare di un continuum fra disorganizzazione e organizzazione, perché il comportamento di molti criminali violenti presenta caratteristiche di entrambe le categorie. Elementi considerati tipici della personalità disorganizzata non sembrano essere un’esclusiva di questo genere di criminale: un serial killer organizzato può scegliere una vittima a caso, ma pianificare tutte le fasi dell’aggressione; può operare il processo di depersonalizzazione sulla vittima come meccanismo di difesa dalle angosce; può attuare uno scambio verbale minimo con la vittima perché gli interessa osservare le sue sofferenze piuttosto che comunicare qualcosa; può evitare di usare mezzi di costrizione fisica, perché agisce con rapidità ed efficacia uccidendo subito la vittima; e può lasciare il cadavere nello stesso posto in cui ha commesso l’omicidio, per ragioni di praticità e di risparmio di tempo.

    In definitiva, le uniche caratteristiche davvero peculiari di un crimine disorganizzato sono:

    - è un crimine impulsivo dovuto all’influsso di particolari stimoli momentanei;

    - la mancanza di pianificazione fa sì che la scena del crimine possa essere disordinata e confusa, probabilmente a causa di una colluttazione fra l’aggressore e la vittima, laddove il primo non ha avuto tempo (oppure si è fatto prendere dal panico) per rimettere in ordine la scena;

    - stimoli momentanei provocano uno scoppio di violenza improvviso che genera il crimine;

    - lo scoppio improvviso della violenza comporta che l’arma scelta dall’assassino sia un’arma di opportunità reperita sul momento;

    - nel crimine impulsivo, la scena è disordinata ed è probabile la presenza di numerose tracce fisiche che parlano dell’assassino.

    Il profiling: dagli Stati Uniti al resto del mondo

    Il profilo psicologico (psychological profiling) nasce, in forma rudimentale, negli Stati Uniti negli anni Sessanta e viene perfezionato dall’

    FBI

    , che inizia a utilizzarlo con una certa continuità a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Oggi viene usato nei casi di crimine violento in cui le tecniche d’indagine tradizionali non sono abbastanza efficaci, a causa della mancanza di motivazioni immediatamente riconoscibili nella dinamica dell’evento criminoso.

    La tecnica del profilo psicologico non è usata in tutti i Paesi del mondo e gli esperti internazionali (chiamati, con un termine praticamente intraducibile, profilers) che hanno effettuato un addestramento rigoroso sono circa un centinaio. In Inghilterra e in Canada, esistono da parecchi anni unità specifiche molto efficienti addestrate nell’uso del profilo, che si conferma una tecnica utilizzata di preferenza nei Paesi anglosassoni.

    Secondo la definizione più comune il profilo psicologico è l’analisi delle principali caratteristiche comportamentali e di personalità di un individuo, ottenibili dall’esame dei crimini che il soggetto stesso ha commesso. Sarebbe più corretto chiamarlo profilo sociopsicologico, dato che non si limita a ipotizzare tratti di personalità, ma include anche informazioni sociodemografiche come età, razza, sesso, occupazione, istruzione.

    Ronald M. Holmes e Stephen T. Holmes (1996) elencano i presupposti fondamentali del profilo psicologico:

    - la scena del delitto riflette la personalità dell’autore: l’analisi globale della scena del crimine serve per formare un’immagine mentale della personalità dell’autore; nei crimini seriali, i bisogni compulsivi del criminale sono espressi in ogni singola scena;

    - la modalità del delitto tende a rimanere la stessa nel tempo: il criminale utilizza lo stesso modus operandi nella serie di crimini, se si è dimostrato funzionale a soddisfare i suoi bisogni emotivi e le fantasie; nonostante ciò, il modus operandi è un comportamento appreso, dinamico e in continua evoluzione, che può cambiare per ottenere il massimo beneficio dal reato e aumentare la gratificazione personale del criminale;

    - la firma rimane sempre la stessa: il modus operandi può mutare nel corso della serie, ma la firma rimane invariata perché rappresenta il biglietto da visita del criminale e va oltre ciò che è strettamente necessario per l’esecuzione del crimine, costituendo una parte unica e originale del comportamento; di solito, la firma è legata alle fantasie patologiche dell’aggressore;

    - la personalità dell’autore tende a rimanere sostanzialmente la stessa nel tempo: di solito, il nucleo della personalità di un individuo non cambia nel tempo e la stessa cosa avviene nel criminale.

    La costruzione di un profilo si basa sulla premessa fondamentale che una corretta interpretazione della scena del delitto può indicare il tipo di personalità del soggetto che ha compiuto il crimine. La tecnica del profilo si attua comparando casi simili e utilizzando metodologie statistiche di analisi che hanno come risultato il raggiungimento di un giudizio ipotetico sotto la forma se-allora. È importante ribadire un concetto: il profilo psicologico ha una natura probabilistica e non serve a identificare con certezza il criminale, ma a individuare quelle che potrebbero essere le sue caratteristiche di personalità.

    Come afferma John Douglas, il profilo psicologico non è un atto di magia o telepatia: è una tecnica in cui si applicano i modelli comportamentali all’analisi dei reati, osservando attentamente la scena del crimine, i rapporti di polizia, le dichiarazioni dei testimoni e i risultati delle autopsie.

    Il profilo psicologico secondo il modello dell’

    FBI

    .

    Quando si analizza la scena del crimine di un omicidio seriale, ci sono alcuni elementi fondamentali che danno le informazioni migliori sulla personalità del serial killer e permettono di caratterizzare una serie di reati; in particolare, si può parlare di modus operandi e di firma solamente se abbiamo un crimine seriale, proprio perché si tratta di due elementi che non possono essere definiti da un crimine singolo.

    Schematicamente, le domande principali a cui il profiler deve cercare di rispondere sono:

    - Che cosa è accaduto durante il delitto?

    - Che tipo di individuo potrebbe aver compiuto questo genere di delitto?

    - Quali sono le caratteristiche associate solitamente a questo tipo di persona?

    Il profilo psicologico non è utile per tutti i tipi di crimini, ma il suo uso è indicato per i reati in cui è forte la componente simbolica e ritualistica legata più alla rappresentazione delle fantasie perverse del criminale che alla realizzazione di un’esigenza concreta: piromania, omicidio per gratificazione sessuale e con mutilazioni, stupro, crimini satanici e ritualistici in genere, pedofilia.

    L’omicidio sessuale, in cui non c’è conoscenza pregressa fra l’aggressore e la vittima, è uno dei crimini più difficili da risolvere, perché i tradizionali metodi d’indagine sono poco efficaci e l’opportunità occupa un ruolo più importante del movente, ed è in casi come questo che l’applicazione del profilo psicologico può aiutare gli investigatori. Ad esempio, l’omicidio di una giovane prostituta il cui cadavere viene ritrovato su un’autostrada può suggerire una motivazione legata al sesso ed è logico supporre che l’assassino non conoscesse in precedenza la vittima o che, comunque, la frequentasse solo in circostanze legate al rapido scambio di prestazioni sessuali. Un’indagine che dia per scontata la presenza di uno dei moventi classici dell’essere umano (ricercare chi aveva qualche motivo di rancore nei confronti della vittima o chi poteva trarne un beneficio economico) è destinata, quasi sicuramente, al fallimento perché, una volta verificati gli alibi ed eliminati dalla rosa dei sospetti i parenti, gli amanti, eventuali protettori e tutti i conoscenti, non c’è più una pista tradizionale da seguire. Il profilo psicologico può aiutare a focalizzare l’investigazione sul modo in cui la vittima ha incrociato la strada dell’assassino e su quale fosse il suo significato simbolico nel contesto dell’omicidio.

    In un caso di delitto sessuale, bisogna sempre tenere presente che l’omicidio potrebbe far parte di una serie ed è indispensabile procedere partendo dagli unici elementi certi a disposizione (la vittima e la scena del crimine) che possono fornire informazioni sulla personalità dell’assassino.

    Caratteristiche principali del profiler moderno.

    Pat Brown (2000), una delle più richieste profiler degli Stati Uniti, elenca le caratteristiche fondamentali per svolgere un lavoro del genere:

    - i requisiti di base sono: una personalità eccezionalmente stabile, un buon senso dell’umorismo e un eccellente sistema interno di supporto per gestire le emozioni, dato che il profiler deve convivere quotidianamente con autopsie, scene del crimine particolarmente violente, vittime smembrate, pornografia e perversioni estreme. Di fondamentale importanza è la capacità di sopportare la frustrazione e il senso di fallimento che subentrano quando non si riesce a catturare l’assassino;

    - è necessario mettere in conto l’enorme quantità di tempo che va dedicata all’esame di un caso, al quale va sempre data la priorità rispetto alle esigenze della propria vita familiare. Il profiler, pur non essendo incaricato direttamente delle indagini, ha una grande responsabilità: più è accurato il profilo, maggiori sono le possibilità di identificare l’assassino prima che uccida nuove vittime;

    - per quanto riguarda la preparazione tecnica, è indispensabile essere esperti in procedure di polizia, investigazione privata, psicologia, criminologia e discipline attinenti all’analisi della scena del crimine. All’inizio della preparazione, è importante leggere tutto il possibile sui crimini di cui ci si deve occupare e, quando è possibile, parlare con i criminali stessi che rappresentano la migliore fonte d’informazione sui processi mentali che li portano a scegliere determinate vittime. Di fondamentale importanza è l’approfondimento della psicologia, per comprendere come ragiona e si comporta il criminale, come un certo tipo di persona diventa una vittima (vittimologia), come pensano i testimoni e come aiutare le persone a ricordare i fatti e a condividere le informazioni;

    - il profiler deve imparare tutte le tecniche d’intervista per ottimizzare la capacità di ricavare informazioni da un colloquio;

    - oltre alle specifiche competenze tecniche, bisogna approfondire il proprio bagaglio di conoscenze in ogni campo possibile, mostrarsi interessati a tutto per sviluppare la capacità di condividere qualsiasi cosa risulti importante per il criminale, in modo da stabilire una relazione autentica. In un’interazione faccia-a-faccia, parlare lo stesso linguaggio del serial killer o pensare come lui può incoraggiarlo a condividere una parte delle sue fantasie;

    - la motivazione corretta per diventare profiler è desiderare di aiutare le vittime e le loro famiglie, catturando il criminale il prima possibile. È chiaro che è necessario amare l’investigazione per lavorare bene, ma non si deve mai cadere nella tentazione dell’autocompiacimento o esercitare il potere per il gusto di farlo, perché ogni perdita di tempo può risultare fatale a una nuova vittima.

    Il Simposio internazionale del 2005 sull’omicidio seriale

    Dai primi studi pionieristici condotti dall’

    FBI

    , la letteratura scientifica internazionale sulla materia si è moltiplicata e diversificata, con l’obiettivo di trovare gli elementi che consentano di decifrare la contorta e sfaccettata personalità dell’assassino seriale. Diversi autori fanno notare come la maggior parte delle considerazioni originarie dell’

    FBI

    , basate su campioni di osservazione ristretti, non sia più da considerarsi valida, perché la realtà oggettiva è molto più complessa e articolata.

    Nel 2005, dal 29 agosto al 2 settembre, si è svolto in Texas il primo Simposio multidisciplinare dedicato all’omicidio seriale, al quale hanno partecipato 135 esperti provenienti da dieci Paesi (Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Germania, Olanda, Russia, Svezia, Sud Africa, Ghana). Al termine dei lavori, è stata elaborata una nuova definizione di serial killer che ha sostituito ufficialmente quella dell’

    FBI

    , oramai datata, che parlava di tre o più omicidi. La necessità di revisionare la definizione, e trovarne una che potesse essere accettata dalla maggioranza degli esperti, era dovuta al fatto che, nei primi trent’anni di studio dell’omicidio seriale, ci sono state molteplici definizioni usate dalle forze dell’ordine, dagli accademici e dagli studiosi afferenti a varie discipline, spesso in evidente contrasto fra loro.

    Alla fine del Simposio, e dopo aver analizzato i pro e i contro delle precedenti, gli esperti riuniti hanno formulato una nuova definizione estremamente semplice: l’omicidio seriale è l’uccisione illegale di due o più vittime da parte di uno stesso aggressore (o più aggressori) in eventi separati. Vediamo quali sono gli elementi caratteristici di questa definizione.

    - Il termine uccisione illegale include tutti gli omicidi commessi da soggetti sprovvisti di un’autorizzazione governativa: quindi non sono considerati serial killer i soldati che uccidono durante un conflitto, i boia che eseguono le condanne a morte emesse da un legittimo tribunale, i poliziotti che uccidono durante lo svolgimento del loro servizio e soggetti simili.

    - Il numero minimo di vittime scende da tre a due e non è necessario stabilire se esista un grado pregresso di conoscenza con l’assassino: le vittime possono essere sconosciuti, familiari o conoscenti a qualsiasi titolo.

    - L’uso del termine eventi separati lascia la massima discrezionalità temporale e supera uno degli annosi problemi delle definizioni precedenti, cioè stabilire quale sia l’intervallo congruo per poter parlare di omicidio seriale. La separazione tra un omicidio e l’altro può spaziare da poche ore a interi anni, senza nessuna codificazione.

    La conseguenza di questa definizione estremamente generica (che, ad esempio, non prende in considerazione lo stato mentale dell’assassino) è che sono chiamati serial killer praticamente tutti i soggetti che commettono due o più omicidi con qualsiasi intervallo temporale.

    Un altro interessante elemento sul quale gli esperti del Simposio si sono trovati d’accordo è che non esiste una singola causa che provochi la formazione di un assassino seriale; piuttosto esiste una molteplicità di fattori. La predisposizione all’omicidio seriale, così come a qualsiasi altro crimine violento, è biologica, sociale e psicologica e non è limitata a un singolo tratto o caratteristica. Non esiste un profilo universale dei serial killer, che possono differire in modo significativo riguardo a moventi e comportamento sulla scena del crimine. Esistono, però, alcuni tratti comuni a un certo numero di assassini seriali: ricerca di sensazioni forti, mancanza di rimorso e assenza di senso di colpa, impulsività, bisogno di controllo, comportamento predatorio. Questi tratti e comportamenti sono tipici del Disturbo Antisociale di Personalità, comunemente identificato con la psicopatia.

    Per quanto riguarda le motivazioni dei serial killer, gli esperti del Simposio fanno alcune osservazioni:

    - di solito, è difficile determinare il motivo nella serie di omicidi;

    - un serial killer può avere motivazioni plurime che lo spingono a uccidere;

    - i moventi possono evolversi e cambiare, sia nel singolo omicidio che all’interno della serie;

    - la classificazione dei moventi dovrebbe essere limitata al comportamento osservabile sulla scena del crimine;

    - anche se si riesce a determinare il movente, spesso non è d’aiuto per identificare l’assassino;

    - usare le risorse investigative per comprendere il movente, invece di canalizzarle sull’identificazione del criminale, può far fallire l’indagine;

    - gli investigatori non devono necessariamente comparare la motivazione del serial killer con il livello di violenza esercitato;

    - al di là del motivo, il serial killer uccide perché ha voglia di farlo: gli unici soggetti che fanno eccezione sono gli assassini che soffrono di un grave disturbo mentale.

    Tra le motivazioni che permettono di classificare un soggetto come assassino seriale, gli esperti del Simposio stabiliscono che c’è anche l’attività criminale organizzata (criminal enterprise): sono serial killer anche quelli che uccidono per ottenere un guadagno economico o un altro beneficio nell’ambito dei gruppi criminali dediti al traffico di droga, nelle bande o nelle organizzazioni criminali. Indipendentemente dal movente, nella maggior parte dei casi il serial killer seleziona le vittime basandosi su disponibilità, vulnerabilità e desiderabilità.

    La presa di coscienza più significativa avvenuta nel Simposio è che gran parte della ricerca effettuata dall’

    FBI

    nei primi trent’anni di studio ha fornito un contributo minimo al lavoro sul campo delle agenzie di contrasto nelle indagini in casi irrisolti di omicidio seriale. Le tipologie dei moventi, le analisi sugli stati mentali dei criminali seriali e le considerazioni sulle difficoltà di sviluppo sono interessanti dal punto di vista teorico, ma forniscono informazioni poco utili per catturare un serial killer attivo e ignoto.

    Una ricerca sull’omicidio seriale negli Stati Uniti dal 1960 al 2006

    Nel 2017, l’

    FBI

    ha reso pubblici i risultati di uno studio condotto negli Stati Uniti su un campione di 480 omicidi seriali che hanno visto coinvolti 92 criminali. La ricerca ha coperto un periodo di tempo di quarantasei anni, dal 1960 al 2006, e quindi si tratta del più grande studio sull’omicidio seriale effettuato in territorio americano. I file dei casi in cui le informazioni erano scarse o incomplete sono stati esclusi e i criteri per la selezione del campione sono stati i seguenti:

    - ogni caso ha visto coinvolto un assassino che ha agito da solo;

    - l’assassino ha ucciso almeno due vittime in eventi separati;

    - l’assassino è stato condannato in un processo, si è dichiarato colpevole, ha accettato un patteggiamento senza ammettere la sua colpa, oppure è stata raccolta una notevole mole di indizi che lo collegano alla serie di crimini.

    Per ogni caso, sono stati analizzati i fattori riguardanti l’assassino, la vittima e l’attività sulla scena del crimine: motivazione, selezione della vittima e approccio, modo di uccidere, precedenti criminali dell’assassino, dettagli demografici dell’assassino e della vittima, luogo in cui la vittima è stata uccisa, luogo di disposizione del cadavere, attività sessuale (se presente).

    L’analisi del movente è stata effettuata dopo l’esame completo delle informazioni sul caso, allo scopo di prevenire una visione miope del crimine basata su un singolo fattore. Sebbene i criminali possano avere moventi multipli in ogni delitto, lo studio ha considerato solo la motivazione primaria.

    Le statistiche descrittive forniscono un ritratto generale delle caratteristiche principali dell’omicidio seriale contemporaneo negli Stati Uniti.

    Vittime.

    Le vittime sono prevalentemente di sesso femminile (75,4%) e l’età varia da 8 a 91 anni: 8-13 anni (3,3%), 14-29 anni (50,4%), 30-45 anni (29,4%), 46-60 anni (6,7%), più di 60 anni (7,6%), età sconosciuta (2,6%).

    La razza delle vittime è: bianca (60,2%), nera (29,8%), altra (10%).

    Questo dato è in contrasto con le statistiche annuali americane sulle vittime totali di omicidio che registrano una sostanziale parità tra vittime di razza bianca e di colore.

    Criminali.

    Tutti gli assassini inclusi nello studio sono di sesso maschile e, per quanto riguarda la razza, sono divisi in questo modo: bianca (52,2%), nera (38%), ispanica (7,6%), altro (2,2%).

    L’età degli assassini al primo

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