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Codice Nomad
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E-book610 pagine9 ore

Codice Nomad

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Info su questo ebook

«Impossibile staccarsi. Un libro imperdibile.»
Wilbur Smith

Il thriller più esplosivo che leggerete quest’anno

Marc Dane è un agente speciale dei servizi segreti britannici che lavora come tecnico dietro lo schermo di un computer. La sua squadra, cui è stato dato il nome in codice “Nomad”, ha una missione delicata: presso il porto di Dunkerque tiene d’occhio una nave, al cui interno è nascosta un’arma che potrebbe mettere in pericolo il mondo intero. Il passo successivo per i compagni di Marc è salire su quella nave, scovare l’obiettivo, sottrarlo dalle mani di chi lo possiede e tornare sani e salvi a terra. Ma in un istante cambia tutto. Un’esplosione investe il gruppo. A molte miglia di distanza, un’altra bomba era già scoppiata a Barcellona, distruggendo una stazione della polizia. Dane, unico sopravvissuto della sua squadra, viene accusato di essere un traditore. Inizierà per lui una corsa contro il tempo e in giro per il mondo per provare la sua innocenza e soprattutto per fermare i responsabili di quelle stragi prima che entrino di nuovo in azione…

Bestseller in Inghilterra

«Impossibile staccarsi. Un libro imperdibile.»
Wilbur Smith

«Un thriller sensazionale.»
The Sun

«Un thriller che tiene in tensione dall’inizio alla fine.»
The Closer
James Swallow
È un autore e sceneggiatore britannico. Ha scritto romanzi brevi, racconti e numerosi drammi radiofonici. Ha collaborato, tra le altre, alle serie TV Star Trek, Doctor Who, Stargate. Nel 2013 ha ottenuto una nomination dalla British Academy of Film and Television Arts (BAFTA). Vive e lavora a Londra.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2017
ISBN9788822704764
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    Anteprima del libro

    Codice Nomad - James Swallow

    1

    La giornata stava finendo, ma il caldo picchiava ancora come un martello.

    Barcellona luccicava, simile a un miraggio, nell’aria dilatata dalla calura del giorno, che saliva dalle strade strette nel cielo senza nuvole. Mentre camminava, Pasco si batteva sulla spalla una copia arrotolata di «El Periódico», tamburellando un ritmo estemporaneo sul suo gallone di sergente. La camicia dell’uniforme gli si era incollata al petto scolpito, ma non ci aveva fatto caso. Pasco era un figlio di quella città, quarta generazione, cresciuto nel sole delle Baleari. Ne era testimonianza il suo vecchio volto, segnato come pelle di vitello di qualità.

    Aggirava comitive di turisti e pedoni locali senza veramente registrarne la presenza. Ad aprirgli un varco nella via affollata era soprattutto l’uniforme, quella celeste dei Mossos d’Esquadra, e il berretto con la striscia rossa. Ora il sole era sceso sotto la linea dei tetti e la prima ondata di festaioli si stava risvegliando dalla siesta e cominciava a fare capolino. Li seguivano pallidi tedeschi e ancor più pallidi inglesi, che non avevano sviluppato una resistenza alla canicola e accoglievano con gratitudine l’atmosfera più fresca e i caffè all’aperto di quella parte della città vecchia. I piccoli criminali, borsaioli e ladruncoli, erano già tra di loro.

    Ma ce n’erano pochi in quella parte del quartiere di Ciutat Vella, grazie all’imponente e austera sede principale della polizia, in Nou de la Rambla. L’edificio, in pesante pietra bianca e vetro azzurrato, non aveva alcuna attrattiva, era un prodotto della moda modernista che negli ultimi decenni aveva dilagato in città.

    Pasco attraversò il cortile incrociando Enrique, con cui scambiò un cenno di saluto. Il collega gli indicò il giornale. «Ehi, Abello, hai finito quello di oggi?». Sorrise mettendo in mostra i denti macchiati dal tabacco.

    Pasco srotolò il quotidiano con gesto plateale. Era un piccolo rito che mettevano in scena una volta alla settimana, quando il giornale pubblicava il difficile cruciverba. Pasco mostrò a Enrique di averlo compilato interamente, le lettere erano state scritte con grande precisione.

    Il collega più giovane aggrottò la fronte. Pasco sapeva che l’altro sergente non lo aveva finito e questo significava che avrebbe dovuto comprargli un pacchetto di cigarillos di quelli buoni, come previsto nei patti della loro competizione.

    «Com’è che tutt’a un tratto sei migliorato tanto?», lo apostrofò Enrique, pieno di sospetto.

    Pasco si strinse nelle spalle. «È il caldo. Mi rende più sveglio».

    Enrique aggrottò ancor più la fronte. «Se ti becco a barare, ti riempio la scrivania di merda di gatto». Gli rivolse un sorriso infelice da perdente e proseguì per la sua strada.

    Pasco sbuffò. Presto, magari di lì a una o due settimane, dopo aver accumulato abbastanza vittorie da recuperare il vantaggio che Enrique aveva su di lui, gli avrebbe rivelato il suo segreto: un regalo di compleanno del nipote, un aggeggio elettronico che conservava tutti i nomi e gli indirizzi, le date di compleanni e i numeri di telefono. Era un oggettino niente male, fornito di un enorme archivio di parole e frasi in diverse lingue, e gli era tornato utile più di una volta quando aveva avuto a che fare con i turisti stranieri. Conteneva anche un vocabolario con l’eccellente virtù di suggerirgli parole intere quando si avevano a disposizione solo poche lettere da cui partire.

    Il pensiero del nipote lo fece riandare con la mente al proprio figlio, e subito si sentì in colpa. Avrebbe dovuto chiamarlo il giorno prima, ma dopo il lavoro alcuni colleghi erano andati in un bar della zona, e Pasco aveva sprecato il resto della serata con loro, soggiogato dal loro rozzo buonumore.

    Sospirò. Ora che sua madre stava con gli angeli, il figlio si preoccupava per lui. «Papà, un uomo come te non dovrebbe girare ancora per le strade», gli diceva. «Andare di pattuglia è un lavoro per uomini della mia età, non della tua. Fatti dare una scrivania».

    Una scrivania. Un’idea che gli faceva stringere il cuore. Pasco amava quella città come se fosse una sua proprietà privata e la prospettiva di guardarla da dietro una scrivania, giorno dopo giorno… Suo figlio non capiva che sarebbe stata per lui una morte lenta, un doloroso stillicidio quotidiano, come il cancro che si era portato via la sua bella Rosa.

    Si sentì travolgere dal brusio e dai rumori dell’ufficio, che lo raggiunsero appena ebbe varcato le porte a vetri della stazione di polizia. Superò gli archi dei metal detector con un cenno distratto all’agente di turno, che lo fece passare con un movimento della testa altrettanto disinteressato, nonostante fosse scattato l’allarme.

    Pasco si tolse il berretto e cercò di mettere da parte le sue beghe personali. Aveva problemi più grandi di cui occuparsi. Certe volte gli sembrava che il figlio arrivasse da un altro pianeta, con tutte quelle chiacchiere sul riscaldamento globale che rendeva così micidiale la calura estiva, sugli scandali che vedevano coinvolta gente ricca sfondata e su tizi di altri Paesi che si ammazzavano per ragioni che per Pasco erano proprio inimmaginabili.

    Sospirò. Ecco perché non comprava più i giornali per leggere le notizie. Troppo deprimenti. Adesso solo parole crociate e nient’altro.

    Fu allora che Pasco si accorse del ragazzo e si rimproverò per essersi fatto prendere troppo dai propri pensieri. Non era un buon motivo per perdere il suo spirito d’osservazione.

    Doveva avere quasi vent’anni ma, pallido com’era, Pasco non riuscì a dargli un’età più precisa. Aveva la fronte corrugata e gli occhi scuri, dall’aria preoccupata. Da sotto il cappello con visiera gli spuntavano dei riccioli neri, mentre tutto il resto era chiuso dentro un’anonima tuta da ginnastica del colore della terra dissodata. Camminando come se le sue scarpe da ginnastica fossero troppo strette, si dirigeva con una certa indecisione verso la grande scrivania dove Tomás, il poliziotto di turno, stava ringhiando qualcosa a una recluta.

    Il giovane si accorse che Pasco lo stava fissando e sussultò come se fosse stato colpito. Allora il sergente lo osservò meglio, apertamente. Il ragazzo era sbattuto, sudato, e aveva un ematoma sul collo.

    Ma furono soprattutto gli occhi a colpire Pasco. Gli occhi di quel teenager erano così maledettamente seri, in quel modo particolare che solo i giovani possono avere. In essi rivide il figlio e il nipote.

    Il ragazzo in tuta gli scoccò un’occhiata intenzionale, come se stesse per dirgli qualcosa, ma subito dopo gli cedettero le gambe. Scivolando, piombò sul pavimento piastrellato. Tutti sentirono il tonfo, la cui pesante eco riverberò nell’atrio, e si girarono a guardare.

    Pasco gli fu subito accanto, chino a esaminarlo. Quel ragazzo aveva l’aria di una persona malata, ma non come un tossico in astinenza, bensì come chi soffre di una di quelle malattie che ti penetrano nelle ossa e ti divorano da dentro. «Tutto bene, figliolo?», chiese il sergente. «Che cos’hai? Hai bisogno di un dottore?».

    Dall’espressione che ottenne in risposta era chiaro che il ragazzo non capiva una parola di spagnolo. Pasco lo stava già valutando con quella parte della sua mente abituata a ragionare da poliziotto, pensando a lui nei termini in cui sarebbe stato classificato e catalogato nei rapporti di quella giornata. «Di dove sei?». Pasco gli fece la domanda senza pensarci. Il giovane silenzioso lo fissò con i suoi occhi così seri.

    Il sergente si guardò intorno e individuò la faccia nota di una persona che indossava il giubbino gialla e arancione da paramedico. «Noya!», gridò, ma la ragazza era già al suo fianco con la cassetta del pronto soccorso nella mano inguantata.

    Noya era una habitué della stazione di polizia. La minuta catalana faceva parte del personale in servizio su un’ambulanza dell’ospedale locale e, quando alla polizia c’era bisogno di un intervento medico, erano sempre lei e i suoi colleghi a rispondere alla chiamata. A Pasco quella ragazza piaceva, anche se a molti altri uomini no. Era sbrigativa e austera, ma terribilmente competente.

    «Aiutami a stenderlo su una panca», gli disse lei. Insieme sostennero il giovane barcollante fino a un sedile di legno nella zona che fungeva da sala d’aspetto. Noya gridò alle persone che l’occupavano di allontanarsi, e Pasco vi adagiò il ragazzo. Il suo respiro era diverso adesso, si era ridotto a un ansimare contratto, simile a quello di un animale impaurito.

    Il brusio di sottofondo diminuì di colpo, quando le altre persone presenti nell’atrio cominciarono ad accorgersi di ciò che stava accadendo, tralasciando per un attimo misero i propri piccoli drammi personali per osservare lo svolgimento di quello, ben più importante. Alcuni si avvicinarono per vedere meglio.

    Noya schioccò le dita per attirare l’attenzione del giovane. «Ehi, mi senti?».

    «Mi sa che non capisce», le disse Pasco.

    Lei gli mise due dita sul collo per controllargli le pulsazioni. «Non è un colpo di sole», spiegò. Allungò la mano verso la cerniera della sua giacca e il ragazzo gliela afferrò, impedendole di aprirla. Nei suoi occhi spuntò una nuova emozione: paura. Cercò di parlare, ma riuscì a emettere solo un sospiro roco.

    «Devo aprirti la giacca», gli spiegò Noya. Gli agitò uno stetoscopio davanti agli occhi. «Devo ascoltare». Parlava a voce alta e scandendo bene ogni parola come se si rivolgesse a un bambino ritardato.

    Il giovane spostò lo sguardo su Pasco e tentò nuovamente di dire qualcosa. Si passò la lingua sulle labbra secche e tirò fuori una parola, dando l’impressione di fare una fatica tremenda a pronunciarla.

    Il sergente ne colse solo una parte e si chinò su di lui. Il ragazzo provò di nuovo e questa volta Pasco comprese con chiarezza il suo bisbiglio.

    «Shahiden».

    Il poliziotto rimase interdetto. Per lui non significava nulla.

    «Fatti indietro», gli intimò in malo modo Noya. «Lasciami spazio». Cercò di afferrare il cursore della lampo e di nuovo il giovane le si oppose. Lei gli rifilò un’occhiataccia. «Non ho tempo per questi giochetti». Estrasse dalla tasca una stecca di plastica arancione. Era uno strumento che faceva parte del kit di soccorso, usato normalmente per tagliare la cintura di sicurezza alle vittime di incidenti stradali, ma Noya lo utilizzò come un chirurgo e – con un unico, rapido colpo – lo infilò nel colletto della giacca della tuta e la tagliò in due.

    Pasco fece come gli era stato detto, indietreggiando di un paio di passi per lasciarle spazio di manovra. Dall’ambulanza la raggiunse con una barella pieghevole il suo collega, un giovane portoghese pelle e ossa. Il ragazzo sofferente ripeté la parola di prima e, come sovrappensiero, Pasco tirò fuori il suo regalo di compleanno e schiacciò il tasto con la scritta Traduttore. Ripeté come meglio poteva il termine che aveva udito nel minuscolo microfono del dispositivo.

    Dire che quella camera fosse il posto più caro in cui Jadeed avesse mai messo piede non sarebbe stata un’esagerazione. L’executive suite, a uno dei piani più alti dell’Hilton, era così lontana dal suo mondo che a stento sarebbe riuscito a spiegarlo a parole. Non era una cosa di cui avrebbe parlato ad altri uomini, per paura che lo prendessero in giro e lo considerassero rozzo e provinciale. Non gli andava di passare per un essere inferiore.

    Ma la suite avrebbe facilmente contenuto tutta la superficie della misera casa in cui era cresciuto a Jeddah. La prima notte non era riuscito a dormire in quel letto enorme e soffice, risvegliandosi continuamente da sogni in cui si vedeva scaricato e abbandonato nel vuoto dello spazio siderale. Prese le lenzuola e decise di sistemarsi in soggiorno, in un angolo di un lungo divano dove sarebbe rimasto nascosto alla vista di chi entrava dalla porta. Per lui era molto meglio così.

    Attraversò la stanza, andando verso una delle vetrate, mentre beveva qualche sorso d’acqua da un bicchiere. Che tanto spazio fosse messo a disposizione delle necessità di un’unica persona gli sembrava sbagliato. Se lo sentiva dentro, come fosse la violazione di una specie di legge non scritta. Era uno spreco. D’altra parte, era così occidentale.

    Alla finestra aperta si sentì più a suo agio. Era già visibile in cielo una luna bassa, e qua e là in tutta Barcellona si andavano accendendo le prime luci, per l’intera lunghezza del Diagonal Mar e nel centro cittadino. I rumori e i suoni dei ristoranti all’aperto del centro commerciale di fronte salivano per sedici piani fino a lui.

    Si sedette davanti a un tavolino e si accese una sigaretta di produzione ceca, il suo unico vizio, tirandone una lunga boccata. Lanciò il fiammifero in un posacenere di vetro prima di espellere una nuvoletta di fumo azzurrognolo.

    Accanto al posacenere c’erano un potente e compatto binocolo Bushnell, un auricolare wireless e il piccolo rettangolo piatto e lucido di uno smartphone. Jadeed ci giocherellò con un dito, ruotandolo pigramente sul tavolino. Esteriormente sembrava un qualsiasi telefonino di nuova generazione, ma in realtà era stato sottoposto a notevoli modifiche. Sotto la superficie satinata sarebbe stato difficile trovare un singolo componente che fosse ancora nel posto stabilito dal progetto originale. Jadeed non aveva rinunciato alle sue riserve sulla tecnologia, ma persone più esperte gli avevano detto che lo poteva usare in assoluta sicurezza, e non stava certo a lui mettere in dubbio la loro parola.

    Lo smartphone si mise a ronzare cogliendolo di sorpresa. Spense la sigaretta, si agganciò l’auricolare all’orecchio destro e batté il dito sul display del telefono, che si illuminò immediatamente mostrandogli una serie di icone colorate e il grafico sinuoso di un segnale in corso.

    Nel suo auricolare risuonò una voce potente: «Sto guardando». Le parole di Khadir giunsero forti e chiare, quasi che fosse lì con lui. Solo il vago fruscio di un disturbo statico tradiva il fatto che l’uomo si trovasse a migliaia di chilometri da quella stanza. Nella comunicazione c’era un ritardo di una frazione di secondo, effetto senza dubbio del complicato itinerario che la chiamata clandestina compiva intorno al pianeta prima di rimbalzare via satellite e attraversare filtri in codice in ingresso e in uscita.

    Jadeed annuì. «Manca poco ormai». Usò il binocolo per perlustrare i tetti. Trovò subito il suo obiettivo. Un momento dopo tornò a guardare lo smartphone e toccò una delle icone. Si aprì una finestra che conteneva un conto alla rovescia e aspettò di vedere i numeri scendere verso lo zero. Khadir stava guardando lo stesso riquadro.

    Quando il cronometro arrivò sui due minuti, le cifre lampeggiarono in rosso. «Centoventi secondi», mormorò la voce. «Siamo stati ingaggiati».

    Jadeed abbozzò un sorriso. «Perché, c’è stato un momento in cui non lo eravamo?».

    Khadir non si scompose. «Qualche problema con il campione di prova prima dell’installazione?».

    Jadeed si guardò le dita della mano destra. Erano ancora un po’ rosse e infiammate da quando era stato costretto a usarle per infliggere un po’ di disciplina, legandosi strette alle nocche le sfere d’acciaio del suo misbaha di preghiera. «No», mentì. Quando la sua risposta fu accolta da un silenzio prolungato, corresse malvolentieri la sua affermazione. «Niente di rilevante».

    Se pure Khadir si era accorto dell’esitazione nella sua voce, non fece commenti. «Sono contento che te ne sia occupato di persona», disse. «Sai che avevo bisogno che lì ci fosse una persona di cui potermi fidare, vero?»

    «Naturalmente». In effetti Khadir avrebbe potuto assegnare quell’incarico a molti altri, uomini che se ne sarebbero assunti la responsabilità volentieri, ma era un’operazione troppo importante per poterla affidare a persone di secondo rango. «Ho predisposto la mia uscita di scena». Jadeed aveva pagato la stanza per un altro giorno, da lì però sarebbe andato a…

    Tornò a guardare lo smartphone. Solo sessanta secondi. Si portò nuovamente il binocolo agli occhi e individuò il loro bersaglio. «Questo è quello che gli americani chiamerebbero il momento della verità», commentò, parlando quasi a se stesso.

    «Davvero azzeccato», concordò Khadir.

    Il ragazzo cercò di fermare Noya, ma il suo tentativo fu debole e poco convinto, come se non avesse energie sufficienti a opporsi. Quando lei gli premette il disco dello stetoscopio sul petto, il giovanne emise un gemito. Le corte dita protette dal guanto di lattice azzurro che gli tastavano con delicatezza il petto provocarono in lui un’altra manifestazione di dolore.

    Noya imprecò sottovoce, afferrò un lembo della t-shirt del ragazzo e gliela sollevò per scoprirgli il torace con un nuovo colpo di taglierino.

    Pasco sentì l’altro paramedico che reprimeva un’esclamazione, risucchiando l’aria e contraendo il volto. Conosceva bene quell’espressione di disgusto e orrore che veniva precipitosamente celata dietro una professionale maschera di distacco. Uno dei turisti che stava osservando la scena ebbe un conato di vomito, diventando di un colorito cinereo.

    Pasco si vide costretto a dare un’occhiata al ragazzo ma rimpianse subito la sua scelta. Quando comprese cosa gli avevano fatto, si fece un frettoloso segno della croce. «Santa Maria…».

    All’improvviso si sentì addosso tutti i suoi anni, fin nel midollo, pesanti come piombo. Lo addolorò pensare che qualcuno fosse capace di infliggere orrori simili a quelli subìti dal ragazzo.

    Un lieve ping digitale riportò la sua attenzione al dispositivo elettronico che aveva in mano. Pasco se l’era dimenticato. Sul quadrante il sistema gli proponeva una traduzione della parola che aveva cercato. Gli si gelò il sangue nelle vene.

    «Shahiden (arabo, nome)», lesse. «Martire».

    Noya cominciò a parlare. «Credo che sia…».

    Il gorgoglio straziato che uscì dalla bocca del giovane fu l’ultima cosa che Pasco Abello sentì.

    Dove un attimo prima c’era solo una distesa di tegole rosse, a un tratto nelle lenti del binocolo spuntò un’enorme nuvola grigio-scuro punteggiata di detriti. Jadeed abbassò lo strumento nel momento in cui l’onda d’urto dell’esplosione attraversava i tre chilometri che separavano l’obiettivo dal balcone, investendolo con una ventata che fece tremare i vetri delle alte finestre.

    Chiuse gli occhi e visualizzò l’effetto della deflagrazione, con un piacere quasi fisico: la prima, accecante vampata, e l’anello di aria compatta che si irradiava dall’interno della stazione di polizia, polverizzando vetro e plastica sotto una pressione di proporzioni catastrofiche. I corpi di coloro che si trovavano più vicini all’ordigno sarebbero stati completamente devastati, il loro sangue vaporizzato, le carni carbonizzate. Pilastri e muri portanti si sarebbero dilatati e crepati, squarciati da forze che mai avrebbero pensato di dover sopportare. In pochi microsecondi l’edificio sventrato avrebbe cominciato a collassare. La struttura sarebbe crollata sotto il proprio peso, proiettando le macerie in una sventagliata assordante, portando la distruzione nelle vie circostanti.

    Aprì gli occhi. Sulla scia del fragore si scatenò il coro stridente dei clacson e delle sirene di tutti gli antifurti montati sulle automobili che si trovavano entro il raggio di un chilometro dall’obiettivo. Nell’aria fresca della sera non c’era brezza a disturbare la lenta spirale ascendente della colonna di fumo. Disegnò nel cielo un grande pugnale nero puntato al cuore del bersaglio ridotto in macerie.

    Jadeed attese, in ascolto, e fu ricompensato da un lungo e cupo brontolio che gli risuonò nel petto sovrapponendosi al chiacchiericcio delle persone che nel viale sottostante si sforzavano di capire che cosa fosse accaduto. L’edificio colpito crollò proiettando nell’aria una seconda e più vasta nuvola di polvere. Da dove si trovava, Jadeed non poteva vedere la stazione di polizia, ma vedeva bene il segno che stava lasciando la sua scomparsa.

    «Dispersione a largo raggio», commentò Khadir con fredda precisione. «Ci sono degli incendi».

    Jadeed si domandò come il suo superiore riuscisse a vedere quello che stava succedendo. Un satellite spia o un drone?, pensò. Alzò distrattamente gli occhi al cielo in cui la luce si andava spegnendo. «Le condotte del gas…», cominciò, ma prima di poter esporre completamente il suo ragionamento, al caos generale si unì il sordo rimbombo di una seconda detonazione. Nuove colonne di fumo si unirono a quella principale, illuminate dall’interno dai focolai alimentati dal gas.

    Jadeed si alzò e recuperò telefono e binocolo.

    «Sono soddisfatto», disse la voce nel suo orecchio. «Il campione ha la mia approvazione». Quelle ultime parole suonarono come se fossero dirette a qualcun altro.

    «Ora vado», annunciò Jadeed, ma quando guardò lo smartphone, il conto alla rovescia si era fermato sullo zero e il display era immobile. Il telefono finì in una tasca, a far tintinnare i grani del misbaha di preghiera.

    Prese, dal letto su cui l’aveva posata, la valigetta contenente tutto ciò di cui aveva bisogno, infilò la Beretta 84F compatta nella fondina appesa alla cintura e nascosta dal taglio della giacca.

    Mentre, in tutto quel fracasso e in quella confusione, il suono penetrante dell’allarme antincendio dell’Hilton si udiva appena, Jadeed lasciò l’albergo da una delle uscite di sicurezza e si mescolò alla gente che guardava incredula la colonna di fumo.

    2

    Le scheletriche lampade industriali gialle, che sovrastavano una fila di tavoli pieghevoli disposta dietro un furgone Renault, proiettavano nel capannone una serie di ombre nette. Il veicolo verde bottiglia era parcheggiato lì con i battenti posteriori aperti. Alcune persone vestite di nero si muovevano tutt’intorno con alacre solerzia.

    Marc Dane smise di guardarli lavorare e, con le mani affondate nelle tasche, fece un lento giro nella semioscurità. L’aria delle ore precedenti all’alba era fredda e umida e portava fino all’interno del capannone l’odore di salmastro e ruggine del porto poco distante. Anche attraverso le finestre sporche si riusciva a vedere il nitore salino delle scogliere di Dunkerque e i giganteschi cubi di container stoccati lungo i moli.

    Marc si sentiva elettrico e già rimpiangeva l’eccesso di caffè solubile e Red Bull con cui qualche ora prima aveva costretto i suoi occhi ad aprirsi. Dentro la giacca, le sue dita tamburellavano cercando di aiutare la mente a trovare un angolo tranquillo in quel turbinio di pensieri. Non era facile.

    Gli succedeva in tutte le missioni e ogni volta pensava che la prossima l’avrebbe affrontata senza tutta quella tensione. Ma non era ancora successo e, mentre rifletteva che probabilmente sarebbe stato così per sempre, un angolo della bocca gli si sollevò in un sorriso storto. Si passò la mano sinistra nel groviglio ribelle di capelli biondo cenere. Dimostrava meno dei suoi quasi quarant’anni e il colorito pallido e gli abiti scuri che indossava lo facevano sembrare magrissimo.

    Respirò a fondo e guardò Leon che saliva di nuovo sul furgone. Leon Taub avrebbe potuto essere suo padre, ma era ancora in perfetta forma. Dietro un paio di spesse lenti appollaiate sul brutto naso c’era un’intelligenza che quarant’anni di operazioni clandestine in condizioni di massimo rischio non avevano minimamente scalfito. Taub vide che lo stava guardando e, prima di sparire dentro il veicolo, abbozzò un saluto militare con il bicchiere di plastica pieno di caffè che aveva in mano. Dietro di lui salì Owen Davis, il più anziano, con la solita smorfia stampata in faccia, la sua normale espressione. Marc osservò per qualche attimo l’arcigno gallese scrutare con occhi critici la zona dei preparativi intorno al furgone.

    Il resto della squadra, la sezione tattica, era vicino ai tavoli, da cui giungevano alle orecchie di Marc i risolini sarcastici e i rumori metallici delle armi che venivano preparate per l’operazione. Come Marc, Leon e Owen, anche tutti gli altri erano vestiti di scuro, ma invece di giacche militari e jeans, indossavano abiti di un tessuto leggero e resistente agli strappi, scarponcini tattici di cuoio, giubbotti pieni di tasche e con rinforzi antiproiettile, impianti ricetrasmittenti in codice e fondine per le pistole. Quel gruppo faceva pensare a una squadra di qualche agenzia governativa, ma nessuno di loro aveva stemmi o segni di identificazione. Il loro equipaggiamento era un assortimento eclettico proveniente da vari Paesi diversi, senza numeri di serie: qualora le armi fossero cadute nelle mani sbagliate, non avrebbero potuto fornire indicazioni su di loro e sui loro compiti.

    Ciascuno aveva come arma principale un pezzo unico, dalle mitragliette Heckler & Koch, ai fucili tattici Mossberg, a varianti dei robusti fucili d’assalto Colt M4. Il comune denominatore erano i silenziatori montati su tutte le armi da fuoco, abbastanza potenti da ridurre al minimo la vampata dello sparo e il suono della detonazione.

    L’arma di Marc, una Glock 17 semiautomatica, era nel furgone, scarica, insieme con un laptop personalizzato, una console per il controllo a distanza e il resto degli attrezzi del mestiere. Il suo ruolo, quello che al quartier generale definivano eufemisticamente specialista di missioni avanzate, non prevedeva l’uso di una pistola, ma il regolamento esigeva che tutto il personale operativo fosse munito di una qualche forma di difesa. Eppure, portarsi una pistola in missione gli dava sempre la sensazione di un invito ad attirare su di sé i guai.

    Fuori, nel mondo reale dove viveva e lavorava la gente normale, il gruppo riunito in quel magazzino semivuoto non esisteva. L’universo di Marc Dane, con i suoi segreti e le sue armi, era un’oscura realtà parallela che scorreva accanto a quella vera, celata da lunghe ombre.

    Erano passati quasi due anni da quando era entrato nella OpTeam Sette, in codice Nomad, una delle dieci unità di pronto intervento sotto l’egida dell’intelligence britannica. Erano trascorsi molti mesi da quando, alla fine del suo servizio nell’aviazione della Royal Navy, alcuni cacciatori di teste erano venuti a cercarlo. Mesi di addestramento intensivo e operazioni antiterrorismo e antispionaggio. Mesi in cui, per il mondo reale, era stato un fantasma. Marc Dane era scomparso dalla faccia della terra e ora era lì che si trovava.

    Tirò su la manica della giacca per dare un’occhiata al vecchio Cabot subacqueo, unica cosa rimasta del suo periodo nella Royal Navy. Un’ora al massimo prima del sorgere del sole. Annuì tra sé e cercò senza successo di liberarsi della tensione che, a dispetto dei suoi sforzi, gli dava la sensazione di avere un nodo alla base del collo.

    «Te l’avevo detto di passare al decaffeinato», fece una voce dall’oscurità.

    Si girò a guardare Samantha Green: di un paio di spanne più bassa dei quasi centonovanta centimetri di Marc, aveva l’atteggiamento di chi dà sempre l’impressione di guardarti dall’alto in basso. Gli sorrise da sotto la visiera di un cappello da baseball scuro. Riusciva a essere bella anche con le strisce mimetiche nere sulla faccia. «Sono a posto», le disse lui.

    «Oh, quanto ti piacerebbe che fosse vero», lo canzonò lei bonariamente. Lo contemplò con le mani sull’MP7A1 che le pendeva all’altezza della vita. «Tranquillo, lo abbiamo fatto cento volte». Indicò con la testa il resto della squadra tattica. «Il capo sa quel che fa».

    L’uomo che aveva indicato se ne accorse e rispose con un cenno della testa. Gavin Rix era il comandante della Nomad, ex agente decorato della SAS, un soldato muscoloso dai lineamenti marcati da pugile e la testa rasata. Mostrò a entrambi il pollice alzato e un sorriso quasi paterno.

    «Già». L’intenzione di Marc era di fare un commento convincente, ma non gli venne bene. «Solo… sai… sta’ in campana».

    «Oh, che carino», rispose Sam con un broncio scherzoso, inclinando la testa da un lato. «Ti sentiresti meglio se ti coccolassi un po’?»

    «Non so». Poi Marc rise suo malgrado. Sam riusciva sempre a strappargli un sorriso. «Vuoi provare?».

    Un lampo illuminò gli occhi castani di lei. «Restiamo sul piano professionale», e s’incamminò.

    «Direi che siamo già andati oltre», aggiunse Marc a voce più bassa.

    Sam si fermò e si girò a guardarlo. Aveva di nuovo quell’espressione, quella che nessuno sapeva decifrare. «Dovere», disse, «e piacere. Non fare confusione».

    «Sam…». Marc cercò le parole giuste. «Lo so, ma…».

    «Dovere», ripeté lei e dalla sua voce sparì ogni traccia di bonarietà.

    La lunga notte in cui si erano ritrovati da soli per la prima volta, in Tunisia, risaliva a molti mesi prima, ma Marc non sapeva ancora come definire i loro rapporti. Non era previsto che si fraternizzasse con una collega del proprio reparto, e se anche Rix o qualcuno degli altri sapeva qualcosa, nessuno ne parlava.

    Sam era una che viveva giorno per giorno, sintonizzata sull’eccitazione dell’attimo fuggente, ed era questo ad attrarlo. Marc sapeva che lei aveva servito per due volte nelle Forze Armate come specialista in esplosivi e demolizioni. Le piaceva il sapore dell’adrenalina.

    Ma, con Sam, Marc si sentiva alla deriva. C’erano momenti in cui gli sembrava di capirla, quando si comportava quasi da persona normale, una con una vita reale. Poi però riemergeva quella sua vena da soldato di ventura, e lui si sentiva di nuovo smarrito. Sembrava che l’unica cosa su cui Sam fosse sincera, persino seria, fosse la missione.

    Sotto sotto sapeva che avrebbe fatto meglio a mollarla, ma era testardo, anche se si era accorto che i sentimenti della collega per lui si andavano affievolendo. «Sam…», cominciò.

    «Sammy!». L’idillio fu spezzato dal richiamo di uno degli uomini della squadra che le stava andando incontro. Iain Nash era il comandante in seconda e aveva quel modo ciondolante di camminare che a Marc faceva sempre pensare ai bulli che evitava di continuo, da adolescente, nel quartiere popolare nella zona sud di Londra dov’era cresciuto. Passò rivolgendogli un cenno distratto. Iain aveva una faccia smagrita, incorniciata da capelli neri e pizzetto. Era sempre in tensione, un atteggiamento un po’ troppo estremo per uno specialista di operazioni sotto copertura. Ma Nash era un agente di invidiabile esperienza, preso come Sam dalle Forze Armate, dopo un attento vaglio da parte delle alte sfere dei servizi di sicurezza.

    Insieme con Rob Bell, che era stato nella divisione armata della polizia metropolitana, e un ex militare della Royal Marine di nome Bill Marshall, Nash completava la parte della squadra responsabile dell’aspetto pratico delle loro missioni. Marc, Leon e Owen erano la sezione informativa e di appoggio, quelli che Rix chiamava i ragazzi sul furgone in opposizione ai ragazzi con le armi.

    «Devo parlarti», disse Nash a Sam, sollevando un sopracciglio e ammiccando in direzione di Marc. «Tic toc», aggiunse guardandolo. «Meglio che metti in funzione il tuo giocattolo. Ci siamo quasi».

    «Certo», rispose Marc dopo un momento, accettando l’implicito congedo. Tornò lentamente verso il furgone e, appena girata la schiena, sentì il borbottio di una conversazione privata tra Nash e Sam.

    Marc non era uno stupido e fino a quel momento non aveva permesso ai suoi sentimenti per Sam, qualunque cosa fossero, di intralciare il lavoro, a prescindere da come la pensava lei. Ma gli operativi avevano in ballo qualcosa da cui il resto dell’unità restava escluso. Non era la prima volta che Marc vedeva Sam o Nash o Rix appartarsi per una conversazione in privato, lontano da orecchie indiscrete, ma nessuno di loro sembrava voler dare qualche spiegazione.

    Ripensò alle definizioni di Rix: i ragazzi sul furgone e i ragazzi con le armi. Ci sarebbe sempre stata una linea di demarcazione tra la squadra d’appoggio e quella d’azione, era una condizione comune a tutte le dinamiche di gruppo. Non andavano a bere tutti assieme dopo un’operazione, non c’era tra loro abbastanza cameratismo, al di là delle necessità imposte dal lavoro, eppure Marc pativa quella distanza più di quanto avrebbe voluto ammettere.

    Avrebbe potuto essere uno di loro. I reclutatori dell’MI6 gli avevano offerto la possibilità di entrare nel programma come operativo, ma aveva rinunciato. Anche se era passato tanto tempo, ancora non sapeva che cosa lo avesse trattenuto. Aveva detto di no, scegliendo l’incarico meno rischioso.

    Si girò a guardare Sam mentre saliva sul furgone. La vide annuire con decisione a qualcosa che Nash le stava dicendo e non sembrò accorgersi di lui.

    Talia Patel non dormiva da sedici ore, ma avrebbe preferito morire che darlo a vedere. Sbadigliò di nascosto nell’angolo della cabina vuota dell’ascensore, e drizzò le spalle davanti alla porta tirandosi la camicetta di seta spiegazzata sotto la giacca di Prada.

    Passò dal controllo della sicurezza al piano operativo applicando la sua tessera sullo scanner. La guardia armata al monitor le diede il via libera con un cenno della mano e Talia procedette verso la sala chiamata l’Hub White quanto più velocemente le consentiva lo spacco della gonna.

    Per tutta la lunghezza del corridoio, a intervalli regolari, c’erano porte con quadranti digitali all’altezza degli occhi. Alcuni erano spenti, mentre su altri si leggevano scritte come Riservato oppure Standby o in certi casi Chiuso. Non fosse stato per la guardia con la pistola, un luogo così anonimo non aveva niente di diverso dagli uffici che occupavano decine di palazzi della City londinese. Ma quel corridoio era settanta metri sotto la rete stradale, nelle profondità dell’Albert Embankment, sotto l’edificio in pietra e vetri del numero 85 di Vauxhall Cross. Era la sede operativa dell’MI6, il servizio segreto britannico, dove si lavorava giorno e notte per garantire la sicurezza della nazione.

    Nonostante l’ora, gli uffici erano in piena attività. All’MI6 il lavoro non seguiva le solite regole, una cosa che Talia aveva dovuto imparare a sue spese come analista senior alla Sezione K, la divisione di comando e controllo delle missioni sul campo nell’ambito del programma delle squadre operative. Esitò, controllando furtivamente la propria immagine riflessa sulla superficie del tablet. Il suo viso, dai tratti decisi ma attraenti, era incorniciato da capelli neri lisci che le arrivavano alle spalle. I suoi occhi nocciola spiccavano sulla carnagione scura. Si guardò soddisfatta: aveva un’aria professionale, ma soprattutto sveglia.

    Davanti alla porta dell’Hub White mostrò di nuovo la tessera magnetica, aggiungendovi un codice di quattro cifre digitate su una tastiera, e le serrature si aprirono con un rumore sommesso. Entrò e passò per una seconda porta insonorizzata prima di trovarsi sul ballatoio che correva lungo tutto il perimetro del febbrile centro operazioni. Ispirandosi alla classica struttura di un teatro, il ballatoio era stato soprannominato il loggione, poi c’era la galleria, mentre il livello tre gradini più in basso era quello della platea, uno spazio occupato da mappe digitali, pannelli di comunicazione e monitor. A un’altezza visibile da tutti i presenti, c’erano grandi schermi che trasmettevano i dati provenienti da decine di fonti. Largo come un campo da tennis, il piccolo centro nevralgico della Sezione K era provvisto di tutto il necessario per dirigere qualsiasi missione in ogni angolo del mondo.

    Al momento, i sistemi dell’Hub White erano interamente concentrati sul porto di Dunkerque, sull’altra sponda della Manica, con tutto il personale davanti ai monitor attivi. Talia scese in platea dando un’occhiata ai dati della situazione meteorologica sulla costa francese. Era stata una notte fredda e senza luna e le prime nuvole cariche di pioggia non sarebbero arrivate in zona prima di metà mattinata.

    Trovò Donald Royce al tavolo cartografico, la versione virtuale di una grande scrivania piena di documenti, dove le scartoffie erano in realtà finestre che si potevano spostare e manovrare con le dita. Royce stava studiando attentamente una serie di dati. Snello e di statura media, il suo superiore nascondeva dietro quell’aria da persona mite una capacità di concentrazione straordinaria; e, se le circostanze lo richiedevano, sapeva usarla con la precisione di un raggio laser. Si era laureato a Eton, come si intuiva dalle sue maniere affettate da borghese di provincia, ed era mosso da una tenacia che spesso la metteva in soggezione.

    Donald alzò la testa sbirciandola attraverso le lenti degli occhiali privi di montatura. «Giusto giusto», commentò.

    «Chiedo scusa», rispose lei. «Volevo essere sicura di avere l’ultimo rapporto orario delle notifiche». Gli porse il tablet.

    «Meticolosa come sempre», disse lui, facendo scorrere le pagine con il movimento dell’indice e visionando il contenuto con occhio esperto. I rapporti degli specialisti alla sede del GCHQ di Cheltenham erano, come sempre, più che esaurienti. «Niente di cui preoccuparci?».

    Lei scosse la testa. «Assolutamente no. Da quel che possiamo appurare, nessuno sa della presenza della Nomad».

    «Buono a sapersi». Le restituì il tablet e tornò a consultare lo schermo.

    Talia controllò l’orologio sulla parete: due quadranti che mostravano l’ora media di Greenwich e l’ora locale di Dunkerque. Mancavano meno di dieci minuti al momento in cui l’OpTeam Sette avrebbe ricevuto il segnale decisivo, se proseguire o abortire la missione.

    Royce congiunse i polpastrelli mettendosi a studiare una foto del Palomino, un mercantile di origini turche che esibiva una bandiera olandese. Da dodici ore era ormeggiato al porto e nell’immagine lo si vedeva emergere parecchio dall’acqua. Durante quel periodo nulla era stato caricato o scaricato, nemmeno combustibile e provviste.

    «Siamo sicuri, vero?», chiese con un tono di voce così basso che lo sentì solo Talia.

    «Ha visto l’intercettazione del GCHQ», gli ricordò lei. «Una trasmissione cellulare da un noto trafficante d’armi. Con quello che hanno ricavato i tecnici dal web e le altre nostre fonti, ce n’è abbastanza per intervenire». Il tono della sua dichiarazione era più che mai professionale, ma erano entrambi ben consapevoli della portata di quanto stava per accadere. Non sarebbe stata un’operazione senza spargimento di sangue, non era quello il tipo di missioni per cui venivano impiegate le squadre operative.

    «Sarebbe meglio se fossimo sicuri», commentò lui. «Perché se… Perché quando i francesi lo verranno a sapere, saremo veramente nella merde».

    «La DCRI viene costantemente monitorata», disse lei indicandogli un analista che stava digitando qualcosa sulla sua tastiera. Il giovane aveva un solo compito, quello di vagliare in continuazione le comunicazioni in tempo reale dei servizi di sicurezza francesi, a caccia di qualunque cosa indicasse che la Direction Centrale du Renseignement Intérieur era venuta a conoscenza dell’operazione clandestina che stava avvenendo in casa loro.

    Convincere il primo ministro, la commissione congiunta dei servizi segreti e il Foreign Office ad autorizzare un’operazione di massima criticità nel territorio di un governo alleato, senza che ne fosse informata la DCRI, non era stato facile, ma lasciare i francesi all’oscuro era un rischio calcolato e necessario.

    I dati che avevano raccolto non mentivano. C’era la concreta possibilità che nella DCRI si fossero infiltrati elementi collegati agli obiettivi di una missione troppo importante per essere esposta al pericolo di un sabotaggio. Royce aveva concluso che sarebbe stato meglio cercare di farsi perdonare dai francesi piuttosto che chiedere preventivamente il loro permesso, e così erano stati emanati in tutta segretezza gli ordini per l’esecuzione dell’operazione. Se ci fossero state ripercussioni, le avrebbero affrontate, ma speravano che la missione venisse portata a termine senza che i francesi si accorgessero della loro presenza.

    Talia era sicura che avrebbero svolto con efficacia quel lavoro. La Nomad era un’unità estremamente abile. Grazie al mandato ricevuto dal primo ministro, questa e altre squadre analoghe avevano già scoperto e neutralizzato diverse minacce di primo livello alla sicurezza interna. Stavolta il nuovo obiettivo accertato era il Palomino.

    Appena aveva visto i servizi dei media sull’esplosione di Barcellona, Talia aveva capito che quell’atrocità sarebbe finita nell’orbita della Sezione K. In Europa il terrorismo era un cancro che si diffondeva a dispetto delle frontiere nazionali e, fra tutti gli estremisti che rivendicavano la responsabilità per le morti in Spagna, un nome in particolare aveva fatto scattare l’allarme generalizzato. Era l’organizzazione che si faceva chiamare Al Sayf, la Spada. In apparenza si presentavano al mondo come uomini provenienti da Al Qaeda, dai Soldati di Dio e altri gruppi separatisti ispirati all’islamismo radicale, ma in realtà si trattava di un’organizzazione molto più complessa di quanto l’MI6 avesse solo intuito, e l’estremismo religioso era soltanto uno degli aspetti. Il gruppo aveva minacciato di uccidere una città inglese prima della fine dell’anno. Non attaccarla, ma proprio ucciderla. Quella era la parola che avevano usato.

    Ed erano fantasmi. Al Sayf aveva imparato bene le lezioni dei suoi fratelli radicali, braccati e uccisi sulle montagne dell’Afghanistan o decimati nelle lotte tra fazioni. Vi appartenevano uomini capaci di costruire ordigni improvvisati in qualche tugurio del Kandahar o di dirigere attacchi cibernetici dalle sedi di multinazionali da milioni di dollari a Dubai. La creazione del programma delle squadre operative dell’MI6 era una reazione diretta a queste minacce terroristiche.

    L’intelligence britannica non poteva seguire quegli uomini, così seguiva le armi. Al Sayf era un’organizzazione agile e pericolosa, ma era di dimensioni ridotte e i suoi elementi non erano a stretto contatto tra di loro. Avevano bisogno di un sistema di supporto talmente grande che da qualche parte doveva necessariamente esserne registrata la presenza.

    Royce stava riesaminando con cura i dati della Combine e senza dubbio in quel momento le sue riflessioni non erano diverse da quelle di Talia. Era così che chiamavano quell’organizzazione alla sede di Vauxhall Cross. Avevano a disposizione solo un vago profilo, l’ombra indistinta di un gruppo di potere ai margini estremi del palcoscenico planetario. Gente che si muoveva al di là e al di fuori di ideologie e fedi religiose. Indipendente da identità nazionali. Motivata non solo dal denaro, ma anche da un obiettivo superiore che andava ancora chiarito.

    Si sospettava che gli ordigni impiegati da Al Sayf a Barcellona fossero arrivati proprio dalla Combine, la struttura che riforniva tecnologia militare e armamenti ai gruppi terroristici e paramilitari di tutto il mondo. Era l’armeria e la riserva economica di uomini disperati e spietati; e se Al Sayf era un gruppo di fantasmi, la Combine era una goccia nel mare.

    «Sono anni che diamo la caccia a queste canaglie invisibili», brontolò Royce mentre leggeva. «E questa sera abbiamo fiutato una buona traccia». Osservò di nuovo l’immagine del Palomino, come se sperasse di strappare al mercantile qualche nuova informazione con la sola forza del suo sguardo.

    Era una rara congiuntura di eventi: la possibilità di raccogliere nuovi dati che li mettessero sulla strada giusta per trovare Al Sayf e contemporaneamente i loro soci della Combine.

    Ci erano arrivati con frammentarie intercettazioni di traffico cellulare, da cui era emersa la possibilità che il mercantile trasportasse un’arma in transito dalla Combine a un terrorista intenzionato all’acquisto. All’indomani dell’attentato di Barcellona, il Centro Nacional de Inteligencia stava ancora mettendo insieme i pezzi e aveva fornito ai partner europei ben poco del risultato della sua indagine, un segnale certo che non avevano niente da offrire.

    Un ordigno di estrema potenza era stato fatto entrare in una stazione di polizia passando attraverso una schiera di funzionari addestrati e metal detector di ultima generazione, senza che scattasse un solo allarme, e l’esplosione che ne era seguita aveva provocato un centinaio di vittime. Se il Palomino trasportava un ordigno analogo, qualcosa che i sistemi di sicurezza convenzionali non riuscivano a intercettare…

    Talia si sentì percorrere la schiena da un brivido freddo. A un’ora da Dunkerque c’era una decina di grandi città, ciascuna delle quali poteva essere il bersaglio designato. Bruxelles. Parigi. Amsterdam. Londra.

    Tornò a guardare l’orologio sulla parete. «Signore? Sono in posizione. È ora».

    Royce non alzò la testa. «Nomad, via libera».

    3

    «Regole d’ingaggio», disse Rix, guardando uno a uno i compagni a bordo del furgone. «Silenziatori. Armi libere, ma niente danni collaterali se qualcuno viene a curiosare. Catturare una persona viva sarebbe utile, però è secondario rispetto all’obiettivo principale: cercare l’ordigno e portarlo via».

    «Sarebbe più facile se sapessimo cosa stiamo cercando», obiettò Bell. Il volto scuro di quell’ex poliziotto taciturno era teso per la concentrazione.

    «Se fosse facile, avrebbero mandato gli yankee al posto nostro», borbottò Marshall, calcando volutamente il suo duro accento delle Midlands. «Fammi indovinare, capo, lo capiremo quando lo vedremo, giusto?»

    «Mi hai letto nel pensiero», rispose Rix.

    Marc gli prestava poca attenzione, era preso soprattutto da quello che vedeva sullo schermo che aveva davanti. Le telecamere inserite nel telaio del furgone gli fornivano una visione a trecentosessanta gradi dell’esterno, dove non c’era anima viva.

    Niente. La pattuglia degli agenti portuali non sarebbe ripassata di lì per almeno altri venti minuti.

    Owen aveva portato il furgone alle banchine e lo aveva parcheggiato dietro un basso muro di container. Il Palomino era ormeggiato al molo successivo, illuminato da poche lampade accese in coperta.

    «Tutto tranquillo», annunciò.

    «Magari mandiamo su il disco volante?», chiese Leon lanciandogli un’occhiata.

    «Io farei un giretto». Cercò con gli occhi il consenso di Rix e lo ottenne.

    Le dita di Marc danzarono sulla tastiera di una piccola console portatile di fianco al suo laptop e subito dopo sopra di loro si udì un ronzio sommesso.

    Sul tetto del Renault c’era una scatola di plastica che sembrava un condizionatore, tipico in quel genere di veicoli commerciali. Si aprì e un braccio meccanico lanciò silenziosamente nell’aria un congegno a forma di disco che girava nella brezza leggera proveniente dal mare.

    Il disco volante era un drone di piccole dimensioni, il fratello minore dei robot aerei da combattimento impiegati da quasi tutte le forze militari del mondo. Costruito con polimeri superleggeri e composti di aerogel, poteva librarsi per venti minuti al massimo sugli obiettivi. Un trasmettitore inviava i dati raccolti da una microcamera direttamente al pannello dei comandi di Marc. Questi, usando il controller modificato di un videogioco, fece compiere al minuscolo velivolo un lungo giro sopra il molo.

    «Via libera», disse una voce via radio, disturbata dai sibili di uno scrambler.

    «Via libera», ripeté Rix, premendo un dito sull’auricolare destro. «Appena siete pronti, entriamo in azione».

    Marc sentì la presenza di Nash al suo fianco. Percepiva quasi fisicamente la sua voglia di entrare in azione. «Niente là fuori?», domandò.

    «Niente…», cominciò Marc, ma Nash si era già allontanato prima che potesse finire e si stava già infilando la maschera di rete.

    «Via», urlò Rix spalancando insieme a Marshall i battenti dello sportello posteriore. In meno di due secondi la squadra tattica era scesa e il furgone era di nuovo chiuso. Sam fu l’ultima a uscire.

    «Ci siamo, eh?». Owen si scrocchiò le nocche e si chinò sui monitor per studiare la potenza delle frequenze delle trasmissioni radio ed elettromagnetiche che venivano intercettate dall’attrezzatura di bordo. Leon non disse niente, mentre le immagini degli schermi gli si riflettevano sugli occhi.

    Marc, sullo sfondo del video trasmesso dal drone, vide comparire il gruppo e strinse le labbra. Spinse in avanti la minuscola leva della console e spedì il disco verso il Palomino a controllare il percorso dei compagni.

    Veloce e a testa bassa, Sam girò intorno al muro di container blu, aprendo l’impugnatura frontale dell’MP7. Si fermò all’angolo e si accovacciò a spiare il Palomino da dietro i container. C’era una sola passerella per salire sulla nave, e sul ponte si vedeva muoversi un’ombra indistinta.

    Un puntino di luce rossa s’intensificava e si attenuava. «Nomad Tre», sussurrò al microfono che le premeva sulla gola. «Ho un fumatore in coperta. Mobile, ce ne sono altri?»

    «Qui Mobile Tre. Vediamo due uomini sul ponte», riferì Marc. Sam alzò gli occhi al cielo notturno cercando il drone, ma non vide niente. Per un momento le sembrò di udire il debole ronzio dei microrotori, ma non ne era certa. «I bersagli non possono vedersi tra loro», aggiunse. «Ingaggio consentito».

    «Ricevuto», disse Rix dietro di lei. «Marsh, è tuo».

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