Frà Mauro e il babuino
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Si parla di fatti avvenuti alla fine del Medioevo, in una città lombarda a sud di Milano. Un periodo turbolento, quando l’Italia fu dilaniata dallo scontro per il potere imperiale delle due grandi potenze dell’epoca: Francia e Spagna. Erano gli ultimi aneliti di splendore del Ducato sforzesco, sotto la signoria di Ludovico il Moro. Poi si ebbe il tentativo di conquista della Lombardia da parte dei re di Francia e infine l’affermarsi del dominio spagnolo, di manzoniana memoria, che sottomise per un paio di secoli la Lombardia e gran parte dell’Europa a un pessimo governo.
Riviviamo il legame morboso tra un giovane frate e un ragazzo marginale, ambientato nella chiesa di San Michele, luogo d’incoronazione dei re italici e di un misterioso rito esoterico legato alla figura del Babuino sacro, derivato dal culto dei morti degli antichi Egizi.
Nel 1525, si stabilì il predominio spagnolo sulle vicende italiane. Fu la vera fine del Medioevo, con una nuova era tormentata.
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Anteprima del libro
Frà Mauro e il babuino - Alberto Arecchi
Abbiategrasso.
Capitolo I
LA DANZA DEL BABUINO
In piedi, al centro del gran labirinto tracciato al suolo, l’essere peloso osservava il pubblico con occhi fiammeggianti. La testa dell’animale era colpita in pieno, in controluce, da un raggio di sole che scendeva da un’alta finestra retrostante e traeva come un’aureola dai riflessi della sua lunga chioma. Sembrava che dovesse lanciarsi da un momento all’altro ad affrontare gli eserciti e le legioni di tutti gli angeli del cielo, e invece cominciò a muoversi lentamente, con ampi movimenti circolari che imitavano una danza, mentre i percussionisti ritmavano i suoi passi al suono cadenzato dei loro tamburi.
Il ballerino era un babuino amadriade, animale sacro al dio egizio Thot (noto anche come Theut), lo psicopompo, colui che era preposto al passaggio delle anime tra il mondo dei vivi e il cielo empireo. Molte statuette o amuleti del dio lo mostrano come un babuino seduto, con le mani alzate e con indosso un disco solare o una falce di luna in mano. Secondo gli antichi egizi, i babuini amadriadi avevano l’abitudine di sedersi con la testa rivolta verso est poco prima del sorgere del sole, agitavano le zampe e cantavano un inno sacro quando vedevano il sole salire. Per questo motivo pensavano che i babuini fossero in grado di predire il sorgere del sole e di festeggiare con devozione l’evento, e che fossero gli spiriti dell’alba, mutati in animali dopo aver intonato l’inno al sole nascente. Il babuino divenne così il simbolo della sapienza del mondo e come tale era ritenuto inventore della scrittura e patrono degli scribi.
L’animale era capace di volteggiare e compiere i passi della danza sacra con una certa grazia, certamente facilitato dalla pratica quotidiana, ma anche dall’estasi provocata dal ritmo delle percussioni e dall’aria satura di profumi inebrianti.
Dapprima un battito leggero, quasi un aereo fruscio, con le mani dei suonatori che accarezzavano le pelli. Il ritmo andava facendosi ipnotico e l’essere peloso, lassù sul palco, ondeggiava le anche e muoveva passi alterni lungo le spire del grande labirinto, avanti e indietro, come a voler entrare e uscire da una gabbia esistenziale, per liberarsi da tutto il peso dei problemi e delle oppressioni del mondo dei viventi. Coloro che partecipavano al rito, in basso, nella navata del tempio, erano ormai completamente affascinati dal battito ritmico dei tamburi, dal movimento oscillante delle spalle, del corpo, della testa del cinocefalo che si agitava, e dalle nubi d’incenso che offuscavano l’aria, filtravano i raggi di luce, riempivano le nari e i polmoni.
Il babuino concluse la danza con un balzo, una specie di piroetta. Atterrò sulle piante dei due piedi, roteando, mostrando al pubblico le proprie natiche violacee, in un chiaro gesto di provocazione sessuale. Non per scherno, ma per offerta rituale.
La cerimonia si svolgeva nella chiesa di San Michele, Principe degli arcangeli e naturale successore, nella mitologia colta, del dio egizio Thot, custode della regalità e psicopompo, ossia trasbordatore degli spiriti dei guerrieri e dei potenti sino al cielo della vita eterna. Thot (noto anche come Djehuti) era una divinità lunare ed era il dio della saggezza. Era il protettore del disegno, della geometria, della saggezza, della medicina, della musica, dell’astronomia, e della magia, era l’inventore dei numeri, aveva creato la scrittura geroglifica e deteneva il controllo supremo sui maghi. Thot era anche dio delle leggi e del diritto. In veste d’avvocato, supervisore giuridico e difensore dei morti, partecipava alla pesatura dell’anima, il giudizio cui era sottoposto il defunto per sapere se era degno – o meno – di entrare nel mondo dell’aldilà. Il babuino era uno degli animali totemici di quel dio, insieme all’uccello ibis. In diversi templi del Dio della Luna erano ospitate famiglie di babuini sacri. Nel Libro dei Morti
dell’Antico Egitto, il cuore del defunto era posto su una bilancia, sulla quale sedeva un babuino. L’animale doveva riferire al Dio quando la bilancia si trovasse in perfetto equilibrio.
La tradizione e i misteri di Thot si erano perpetuati nei secoli, erano stati attribuiti dai greci a Hermes Trismegisto e poi dai romani a Mercurio, per abbinarsi al culto celtico di Lugh e a quello longobardo di Wotan e condensarsi infine nella figura dell’arcangelo Michele. I capitelli della chiesa, espressamente edificata nel periodo del Regno Italico per ospitare le incoronazioni regali, mostravano diverse figure scimmiesche in posizioni dominanti. Non a caso, proprio ai lati del portale principale della chiesa, furono raffigurati tre babuini, nella funzione di guardiani della porta
. Non a caso, intorno al pilastro mediano della navata principale, sulla destra, furono effigiati i babuini, in tutti gli angoli dei suoi capitelli.
Come scriveva, nel 1699, il padre benedettino Romualdo di Santa Maria:
"La basilica di San Michele è antichissima, a giudicare dall’evidente antichità del suo aspetto esterno, e si dice che l’abbia costruita Costantino il Grande. Nel 324 riportò un’importante vittoria sui Galli, per grazia dell’Arcangelo Michele, l’anno seguente venne a Pavia (allora Ticinum) e costruì un tempio in suo onore. Essa ha il titolo di San Michele Maggiore per la grandezza dell’edificio e per distinguersi dalle molte altre chiese pavesi anticamente erette, dedicate allo stesso Santo, come San Michele in foro magno, San Michele presso San Salvatore, San Michele in Monte, San Michele fuori le mura, San Michele dei Mezzabarba ed altre, di cui non rimane traccia. Insieme a questo titolo ne aveva un altro, dell’Ascensione del Signore, che si suppone precedente all’ampliamento e alla dedica all’Arcangelo".
Nell’anno 580 il vescovo Severo, che istituì il rito delle Litanie minori a Pavia, designò questa chiesa per un rito sacro solenne da compiersi il terzo giorno prima (ossia l’antivigilia) dell’Ascensione, al quale venisse tutto il Clero… Qui era antico costume, nel giorno della Santa Pentecoste, lanciare dall’alto delle palle infuocate, insieme con rose e frutti, e liberare uccelletti, e quando i bambini tentavano di prenderli si gettava dall’alto su di loro della stoppa accesa
. Così aveva scritto, intorno al 1330, il chierico pavese Opicino de Canistris, nei suoi ricordi scritti in Avignone, presso la corte papale.
Naturalmente, pur non avendo trovato statistiche precise nel merito, dobbiamo ritenere che fossero parecchi i bambini gravemente ustionati durante i riti della Pentecoste, perché colpiti in testa, al volto e alle mani da quegli straccetti incendiari…
La basilica del santo arcangelo, tempio e santuario costruito nel Medioevo per l’incoronazione dei re d’Italia, con le sue sculture dai mille colori, i ricchi litostrati pavimentali e i raffinati rilievi policromi che ornavano ogni angolo dell’edificio. Qui i re venivano incoronati, qui si svolgevano i funerali dei potenti, perché l’antico psicopompo ne portasse l’anima verso il cielo: che importa se era l’Empireo, il Walhalla o il Paradiso?
Si era ormai quasi alla fine del quindicesimo secolo. Gli ordini dei frati predicatori, Francescani, Domenicani e Carmelitani, combattevano da secoli un’acerrima battaglia contro tutti quei simbolismi che rappresentavano – per loro – residui di antiche superstizioni e le ritualità connesse ai sacri babuini erano una parte delle tradizioni che avrebbero voluto abolire. Continuava tuttavia ad esistere la sacra Società della Scimmia, che celebrava i propri riti esoterici nella chiesa ‘costantiniana’ dedicata all’Arcangelo Michele. Il Rito della Scimmia aveva origini bimillenarie, affondando le proprie radici nella civiltà dell’Antico Egitto e nei simboli del dio Thot.
In particolare, la sacra danza rituale si svolgeva davanti all’altare in due date importanti, nel corso dell’anno: quando il sole si trovava nella seconda parte del segno del Toro, e quando era da poco entrato in quello della Bilancia. Si volevano così sottolineare le due caratteristiche principali della protezione di Thot (o – se così vogliamo ritenere – dell’Arcangelo…): quella di presiedere alle incoronazioni regali, che si svolgevano preferibilmente nella prima metà di maggio (e il toro, con le maestose corna sul capo, raffigurava nell’antichità il potere e la corona regale), e quella di condurre in cielo le anime, dopo averle soppesate. L’anima del trapassato, per essere degna, doveva essere più leggera d’una piuma, e tale era la funzione della bilancia, retta dallo psicopompo. Le due date, nel culto cristiano, furono fissate all’8 di maggio e al 29 di settembre, tradizionali feste consacrate a San Michele.
I passi più importanti della danza del babuino erano le piroette, marcate da stacchi netti nel rullo delle percussioni e dall’improvvisa inversione del ballerino, che si mostrava alternativamente al pubblico con la faccia o con il posteriore. Tali passi intendevano indicare l’alternanza del sorgere e del tramontare dell’astro luminoso, cui presiedevano – nel culto antico – i due animali sacri: il babuino al momento del sorgere del sole e l’ibis al suo tramonto.
Capitolo II
SIMEONE, EL SIMIÙN
Il giovane aveva un nome. Come tutti i cristiani, l’aveva anche lui: un nome datogli davanti al prete, al momento del suo battesimo. Si chiamava Simeone, ma per tutti, in particolare per i bambini, era el Simiùn
, lo scimmione. Aveva un aspetto torvo, non guardava mai in faccia i suoi interlocutori. Ciò lo rendeva sgradevole, al primo impatto, alla maggior parte della gente. In realtà, la madre era stata una suora cistercense. Nata da una povera famiglia contadina, che aveva ottenuto la grazia di chiudere le tre figlie più piccole a dedicarsi alla vita monastica in un monastero presso Lomello, sulla sponda del torrente Agogna. Quando rimase incinta, all’età di poco più di vent’anni, si mormorava che avesse avuto una relazione con il prete del luogo. Comunque, ella rifiutò di rinunciare al suo bambino, fu espulsa dal monastero e – da allora – fu costretta a fare la vita
per guadagnare qualcosa, che le permettesse almeno di mangiare e badare al suo bambino. La madre e il figlio si trasferirono in città e vivevano in una stamberga alla periferia, infestata da insetti, ratti e