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La Spilla d'oro: Memorie da un secolo sterminato
La Spilla d'oro: Memorie da un secolo sterminato
La Spilla d'oro: Memorie da un secolo sterminato
E-book463 pagine6 ore

La Spilla d'oro: Memorie da un secolo sterminato

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Info su questo ebook

Primavera 2020: Siamo in piena emergenza sanitaria a causa della diffusione del Coronavirus. Lapo, il narratore protagonista, si chiede perché – in questa pandemia che ha sconvolto il mondo – gli accade così spesso di pensare al padre. Sarà la paura del virus in agguato, possibile veicolo di morte, che gli ricorda quella del genitore? Sarà la condizione di isolamento e di forzata astinenza dalle radicate consuetudini, che lo induce a porsi quelle domande radicali che i quotidiani affanni ci inducono a rimuovere? Sarà tutto questo, potenziato dalla sua professione? Di sicuro sa che un desiderio impellente, d'improvviso, lo agita: guardare dentro la sua vita per scoprirne il senso. È l'inizio di un viaggio a ritroso, in cui passato e presente si confrontano e s’illuminano a vicenda. A guidarlo, dapprima alcune foto d’epoca scoperte in un cassetto, poi, soprattutto, la spilla d’oro dalla testa rossa di cui la nonna Esterina si serviva, alla vigilia della Grande Guerra, per difendersi dai molestatori nel loggione del Teatro del Giglio di Lucca. Il nipote osserva l’oggetto che, ai suoi occhi, diventa vivo: un’arma che fora i decenni del secolo scorso, un passe-partout per penetrarvi e sviscerarne la drammatica complessità. Ecco allora il richiamo alle origini familiari e sociali, ecco la necessità di confrontarsi con un mondo e una vicenda, quella del Novecento, che Lapo ha indagato da studioso di storia, ma non come figlio di suo padre e sua madre.

LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2024
ISBN9791256060214
La Spilla d'oro: Memorie da un secolo sterminato

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    Anteprima del libro

    La Spilla d'oro - Paolo Buchignani

    © Arcadia edizioni

    I edizione, gennaio 2024

    Isbn 9791256060214

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Foto di copertina: Un soldato greco saluta la figlia con un bacio mentre si prepara a salire sul treno che lo porterà al fronte.

    Paolo Buchignani è uno storico del ’900, già docente di Storia contemporanea presso l’Università per Stranieri Dante Alighieri di Reggio Calabria. Ha pubblicato numerosi saggi sul fascismo, sui totalitarismi e sul tema della rivoluzione declinato nelle diverse culture politiche del XX secolo.

    Tra i suoi libri più importanti: Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio (Il Mulino, 1994); Fascisti rossi. Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-53 (Mondadori, 1998 e Oscar Mondadori, 2007); La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943 (Mondadori, 2006 e Oscar Mondadori, 2007); Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate Rosse (Marsilio, 2017).

    Come scrittore di romanzi e racconti storici, segnalato a suo tempo da Geno Pampaloni, Romano Bilenchi e Mario Tobino, Buchignani ha pubblicato cinque volumi: uno di questi, Solleone di guerra, ha la prefazione di Carlo Lizzani; un altro, L’orma dei passi perduti, è stato candidato al Premio Strega 2022.

    Riluce la spilla d’oro sul comò di Esterina.

    Lapo la interroga sul senso di quella calamitosa estate che sembra non finire mai.

    Ma nulla rivela, il gioiello, del presente e del futuro: la sua punta acuminata sa forare solo il passato.

    A Pietro, tenero germoglio che s’affaccia alla vita,

    il caldo augurio di crescere libero e forte

    nel corpo e nello spirito.

    PROLOGO

    Natale 2001

    «Sei arrivato, finalmente!», lo rimproverò. Era seduto, la schiena sorretta da un cumulo di cuscini. Ansimava, il volto cereo, contratto. Lo guardò fisso negli occhi, si piegò in avanti quasi volesse alzarsi, e con la mano libera dalla flebo gli afferrò un braccio, lo strinse: «Non te ne andare che ora ci siamo», trovò la forza di aggiungere.

    All’abbraccio rassicurante del figlio, s’abbandonò sui guanciali e parve acquietarsi.

    Il suo vicino di letto, un monaco certosino nero e quasi cieco, disse che il papà la notte era stato molto male, ma all’alba avevano pregato assieme. Poi lui, padre Teofilo, aveva celebrato lì, in camera, la messa di Natale.

    Trascorse meno di un’ora e Orlando, come aveva previsto, con un sussulto e un grido, spirò. Nel momento del trapasso parve a Lapo che la tensione del volto si sciogliesse e un accenno di sorriso affiorasse alle labbra del moribondo.

    Nel dolore gli sorgeva la domanda: una beffa atroce, quel lutto nella festa più grande, o non piuttosto, in un’ottica cristiana, il tempo migliore per morire? La morte col monaco accanto, nel giorno in cui si celebra la nascita di Cristo, non era forse un segno del cielo, la nascita dell’anima immortale al regno della luce? E quel sorriso estremo, quel lampo repentino e misterioso nell’azzurro degli occhi, ne erano forse una conferma?

    Era accaduto la mattina di Natale del 2001: tre mesi prima, l’11 settembre di quello stesso anno, di fronte all’immagine televisiva delle Twin Towers in fiamme, il mondo col fiato sospeso, suo padre, all’improvviso, era stato colto da malore.

    Nei giorni successivi s’era ripreso, ma il cuore, già affetto da insufficienza mitralica, aveva subìto un duro colpo. Orlando, così attivo, malgrado l’età avanzata, aveva cominciato a diradare le passeggiate in città, le visite agli amici, molto frequenti dopo la prematura scomparsa della moglie. Ora trascorreva la maggior parte del tempo in casa, seduto sulla sua poltrona.

    A volte, alla sera, prima di coricarsi, s’interrogava sulla morte. «Cosa mi aspetterà quando questi occhi si chiuderanno per sempre?», mormorò una sera in presenza del figlio. «Accadrà presto, lo sento». E aggiunse in un soffio: «Rivedrò tua madre? Nessuno è mai tornato di là a riferirci alcunché».

    Il tono era insieme dolente e ironico, rassegnato al mistero.

    Ma più i giorni passavano, più le forze lo abbandonavano, più il vecchio sembrava attaccarsi alla vita e ai ricordi: l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza «al tempo del duce», come diceva lui. E poi la guerra. Brutti tempi, di lutti e tragedie, ma anche di speranze e di sogni.

    Leggeva ancora i giornali, Orlando, seguiva la televisione, si scaldava per la politica.

    A fine dicembre le sue condizioni si aggravarono e fu ricoverato di nuovo in ospedale. Il cardiologo sentenziò: «Pover’uomo, ha tanto spirito e voglia di vivere, ma il cuore è una ciabatta consunta e sta compromettendo anche i polmoni: non può durare a lungo».

    Lapo andava a trovarlo ogni giorno e lo vedeva spegnersi a poco a poco. La mente, però, rimaneva lucida, sveglia, e tale rimase fino alla fine, come lui aveva desiderato. Più della morte, infatti, lo atterriva l’idea di perdere la lucidità e la dignità.

    Primavera 2020

    Frastuono di clacson, rombo di motori, sgommate sull’asfalto, gridi, richiami, saluti, voci allegre di bimbi che si concedono l’ultimo ruzzo prima del tirannico suono della campanella d’ingresso nella vicina scuola media.

    Accadeva ogni mattina intorno alle 8, fino a poco tempo fa. D’improvviso, un sortilegio maligno ha cancellato persone e veicoli, ha spento la vita che s’accende ogni giorno, sempre uguale, sempre nuova.

    Stessa ora, stesso luogo. Lapo s’affaccia al davanzale: il mondo giace immobile e silente sotto un cielo di piombo. A levante, verso la città, un debole chiarore fa capolino tra la nuvolaglia gelatinosa. Sulla strada deserta s’aggira un cane randagio; si ferma un attimo, annusa il ciglio del fosso e s’allontana. Di lì a poco, finalmente, spunta un essere umano, forse una donna, ma il sesso è incerto, perché la persona ha i capelli corti e indossa la mascherina da cui spuntano soltanto gli occhi. La probabile signora o signorina cammina spedita, dimessa, quasi volesse sottrarsi alla vista o fuggire da un pericolo. Pare scampata a un disastro atomico come nei romanzi distopici o in certi film di fantascienza. Qui, però, il paesaggio è intatto, le case, gli alberi, le strade sono al loro posto. Al di là della via Sarzanese, nel grande prato, placide vacche brucano l’erba come sempre, ignare della catastrofe.

    Andrà tutto bene!, così è scritto su un grande striscione appeso al muro della casa vicina, uno dei tanti che hanno tappezzato l’Italia all’inizio del lockdown. Dovunque la stessa frase a caratteri cubitali vergata con pennarelli dai colori accesi, come si fa nelle feste di compleanno o nelle sagre di paese.

    Andrà tutto bene!: in quel mattino d’abortita primavera, lo sguardo di Lapo indugia sulla scritta che campeggia di fronte alla sua finestra. Sbiadita dalle intemperie, anche quella, come tutte le altre, nessuno ha avuto l’ardire di ravvivarla. L’impennata di ammalati e di morti, gli ospedali al collasso, i quotidiani bollettini di guerra trasmessi dai telegiornali, le colonne di mezzi militari carichi di bare, avvolti da un silenzio agghiacciante: col trascorrere dei giorni, delle settimane, quelle parole hanno assunto il significato di una beffa atroce.

    La sera precedente la televisione ha trasmesso una scena che lui non dimenticherà: in una Roma deserta, spettrale, bagnata dalla pioggia, un piccolo uomo vestito di bianco avanza a fatica, solo. Si prostra dinanzi a un antico crocifisso ligneo che si dice abbia salvato la città dalla grande pestilenza del 1630. L’uomo, il vicario di Cristo, implora la fine di questa nuova peste del XXI secolo, tutto il mondo caricato sulle sue fragili spalle. E il mondo lo guarda, milioni di occhi incollati ai teleschermi, lo guarda e rabbrividisce di paura e di speranza.

    Anche Lapo è stato scosso da un brivido e ha pensato che quella immagine passerà alla storia, assieme ad alcuni discorsi pronunciati, in questa lunga quaresima planetaria, da questo umile e grande pastore che puzza di pecore.

    Foto d’epoca

    Lapo si chiede perché in questa pandemia, che ha sconvolto il mondo più dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di vent’anni fa, gli accade così spesso di pensare al padre.

    Sarà la paura del virus in agguato, possibile veicolo di morte, che gli ricorda quella del genitore? Sarà la condizione di isolamento e di forzata astinenza dalle radicate consuetudini, che lo induce a porsi quelle domande radicali che i quotidiani affanni ci inducono a rimuovere? Sarà tutto questo assieme potenziato dalla sua professione?

    Di sicuro sa che un desiderio impellente, d’improvviso lo agita: guardare dentro la sua vita per scoprirne il senso: ecco allora il richiamo alle origini familiari e sociali, ecco la necessità di confrontarsi con un mondo e una vicenda, quella del Novecento, che lui ha indagato da studioso di storia, ma non come figlio di suo padre e sua madre.

    Lei è stata il porto sicuro dove approdare, la consolazione nel dolore, la pura bontà in forma di donna, la certezza che l’anima esiste. Con lui è stato diverso.

    Pensava tutto questo il professore, quando il caso gli mette sotto gli occhi un vecchio album polveroso, dimenticato da anni nel fondo di un cassetto. Lo sfoglia avido: foto in bianco e nero. Alcune superano il secolo. E se fossero proprio questi ritratti a soccorrerlo nella ricerca di se stesso?

    Uno dei più antichi deve essere questo: una donna e un bambino. Lui in piedi su un divanetto di vimini, lei seduta accanto che lo tiene per la vita. Sullo sfondo un cielo finto da studio fotografico di cent’anni fa.

    La donna, piuttosto in carne, indossa un abito accollato e scuro, una sottana lunga fino a terra da cui fanno timidamente capolino le punte dei piedi. I capelli sono tirati indietro, probabilmente fermati in una crocchia sulla nuca. Una monaca senza età, se non fosse per la fede nuziale bene in mostra nella mano sinistra.

    La foto reca la data 1919: una vedova in lutto e un piccolo orfano. Il marito e padre, Isidoro, è morto da pochi mesi. C’è anche lui in quel vecchio album, vestito da soldato della Grande Guerra, un bell’uomo coi baffi, una luce di fierezza nello sguardo, una postura elegante che la brutta divisa, con le fasce fino al ginocchio, non riesce a intaccare.

    È tornato a casa dalla trincea, i polmoni bruciati dai gas. Qualche mese soltanto s’è potuto godere la famiglia, poi la tosse sempre più violenta, l’affanno, i brividi della febbre, una lunga agonia, la morte.

    Dopo cent’anni, nel cimitero di Santa Maria dei Colli, le sue ossa sono state rimosse, la tomba smantellata, ma sul muro esterno della cappellina di sinistra c’è ancora la lapide di marmo con tante parole incise. Lapo ne ricorda soltanto alcune: …modello di figlio, di sposo e di padre, di anni 34, rapito all’affetto dei suoi cari inconsolabili… Il testo terminava con il consueto invito a Una prece.

    Le parole che stavano in mezzo le aveva dimenticate, eppure, da bambino, quel discorso lo sapeva tutto a memoria, perché sovente, per mano alla nonna Esterina, lo leggeva compunto dopo aver recitato la preghiera per l’anima del nonno, «poverino – diceva lei – quanto avrà patito, lui e tanti padri di famiglia, morti per colpa di quel maledetto Cadorna, che li mandava al macello».

    Dopo tanto tempo la nonna continuava a vestirsi di nero, perché, dopo la morte del marito, non si era risposata e portava ancora al dito lo stesso anello che si vede nella foto: anzi, no, si corregge Lapo: quello se l’era preso Mussolini nel ’36 quando aveva sequestrato le fedi d’oro per la campagna d’Abissinia e aveva lasciato alle coppie quelle di ferro. «Quel birbaccione – diceva lei –, anche a me vedova di guerra con due figlioli da tirar su da sola!»

    Già – pensa ora il nipote professore di storia –; lei era indignata e non la sapeva tutta; nulla sapeva dei gas vietati dalle convenzioni internazionali con cui i fascisti avevano vinto quella guerra di aggressione a uno Stato sovrano, nulla sapeva delle stragi di civili e di religiosi di cui si erano resi colpevoli dopo il fallito attentato a Graziani. Allora c’era la censura e i giornali, la radio, riferivano soltanto quello che voleva il duce, fondatore dell’impero, dopo quindici secoli, sui colli fatali di Roma.

    La nonna era nata nel 1891, come Antonio Gramsci, pensa Lapo, che proprio in quei giorni ha sottomano i Quaderni del carcere.

    Che bizzarro confronto… che c’entra Esterina col fondatore del Partito Comunista d’Italia?

    Effetto di una deformazione professionale radicata, inguaribile, mormora tra sé. Scuote la testa, un sorriso ironico gli increspa le labbra: che brutta bestia questo Novecento, con le sue meraviglie e le sue tragedie. Quanto travaglio per chi fa il suo mestiere, quanto è difficile attingere al sereno distacco dello scienziato quando il periodo che affronti sui libri e ricostruisci sui documenti è lo stesso che hai sentito raccontare, è un pezzo di vita vissuta che qualcuno t’ha depositato dentro.

    Se il testimone, poi, è una persona cara scomparsa, il suo volto riaffiora dalla lontananza del tempo, la sua voce risuona viva e forte richiamata dal documento d’archivio che stai consultando; oppure, al contrario, è dalla memoria, dal vissuto personale che risali alla storia.

    A volte le associazioni sono pertinenti, le due fonti completano il puzzle oppure lo scombinano, lasciando lo studioso in un guazzabuglio pericoloso e affascinante, che rischia di travolgerlo.

    Ma può anche accadere, come nel caso della nonna e di Gramsci, che i richiami siano strani e insensati, il parto di una mente deformata dallo studio; oppure, chissà, ipotesi più remota ma più gradita a Lapo, il prodotto degli insondabili meandri dell’inconscio.

    Se si esclude la data di nascita, nient’altro assimila il grande intellettuale sardo a quell’umile donna del popolo i cui studi s’erano fermati alla terza elementare, perché era l’ultima di dieci fratelli e più di tre anni di scuola non poteva farli.

    Bisognava lavorare nei campi fin da piccoli. A cinque-sei anni la munivano di una canna e la mandavano a vigilare sulle piante della canapa, una coltivazione allora assai diffusa, non a scopo terapeutico o di sballo, ma come fibra da tessere in casa per farne indumenti e cordami. La bimba doveva scacciare gli uccelli, ghiotti dei semi di quella pianta. Per farsi coraggio e vincere la solitudine, cantava: Passerina passerina non beccar la canapina…

    Al tempo della foto, nel 1919, Esterina aveva ventotto anni e già era vedova con due figli. Ne aveva partoriti tre fra il 1912 e il 1915, ma il primo, Ivano, era morto dopo pochi mesi dalla nascita. Era riuscita a battezzarlo in tempo, raccontava, alla Pieve di Arliano, in una sera ventosa d’inverno, dove s’era recata a piedi, il neonato avvolto in una coperta. Così l’angelo era scampato al destino del limbo e volato di certo in paradiso.

    Il bimbo della foto è il secondo figlio, Orlando, il padre di Lapo. Guarda l’obiettivo con titubante ammirazione, mentre la mamma appare impacciata, intimidita, come lo era allora la gente del popolo di fronte alle diavolerie moderne. Nessuno dei due riesce a sorridere. Orlando non sorride nemmeno nella foto successiva, che lo ritrae un po’ più grande, col vestito alla marinara corredato di bottoni e cordoni, assieme al fratellino Rinaldo di un anno più piccolo, che indossa un più sobrio maglione: due bimbotti robusti e attoniti, uno seduto, l’altro in piedi, sullo sfondo del solito cielo di cartapesta.

    Nello stesso album, qualche pagina più avanti, compaiono quattro persone: al centro un vecchio seduto, calvo, un occhio pesto e una lunga barba bianca da patriarca. Appoggia due grosse mani sulle spalle di un bambino biondo di quattro o cinque anni, vestito a festa, forse reduce da qualche cerimonia: una cresima, una prima comunione, una festa paesana… chissà. Il bimbo indossa una camicia chiara, un paio di pantaloncini corti sorretti dalle bretelle, scarpe bianche e calzettoni bianchi. In piedi, a fianco del vecchio, uno a destra e uno a sinistra, due adolescenti sui dodici o tredici anni, vestiti dignitosamente, in modo identico come due gemelli, anch’essi coi pantaloni sopra il ginocchio e le giacche alla marinara con le maniche visibilmente troppo corte: a quell’età si cresce in fretta. Il patriarca è Assuero, padre di Isidoro e nonno dei tre ragazzi. In età lavorativa è stato per quarant’anni il cantiniere del vicino manicomio di Maggiano, grande esperto di vigneti e di vino, nonché raffinato e appassionato estimatore della sublime bevanda, per la quale nutriva – si racconta – una particolare inclinazione. Quando, zelante nel suo lavoro, eccedeva nelle degustazioni, la sua indole taciturna si scioglieva in briosi stornelli che annunciavano alla sera, fin da lontano, nel viottolo tra i filari, il suo ritorno a casa.

    I due nipoti più grandi, impalati e rigidi come due guardie del corpo, sono Orlando e Rinaldo, l’altro il loro cuginetto Giuliano.

    Dopo quel periodo, per trovare un’altra foto di suo padre, Lapo deve sfogliare molte pagine del vecchio album. Eccone finalmente una di piccolo formato che lo ritrae in sella a un cavallo. I cavalli sono sempre stati la sua passione, anche quelli del circo equestre dove sovente avrebbe condotto lui bambino negli anni Sessanta.

    L’hanno ripreso da lontano e non si distingue bene, ma qui l’espressione di Orlando, in divisa militare, sembra distesa, quasi sorridente: certo si rilassa, una pausa ricreativa dalle fatiche e dai pericoli della guerra. Sul retro del cartoncino si legge, infatti, una data: 1942. Dietro il cavallo e il cavaliere, da una specie di muro spunta la scritta DUCE mutila della E, che rimane fuori dall’inquadratura.

    Nella pagina successiva eccolo di nuovo, questa volta fotografato a mezzo busto da distanza ravvicinata: un giovane sotto i trent’anni, distinto come il padre, ma molto più bello. La fronte alta, i lineamenti regolari, l’espressione seria e pensosa velata di malinconia. Lo sguardo è quello di una persona intelligente e sensibile, che prova a nascondere l’innata timidezza dietro una posa da bel tenebroso vocato al comando.

    Con la camicia e la cravatta grigio-verdi, pare un ufficiale dell’esercito destinato a una brillante carriera. Magari il rampollo di una nobile famiglia precocemente addestrato all’equitazione e all’uso delle armi. Nessuno direbbe che è figlio di una sigaraia vedova, di umilissime origini contadine, e che ha trascorso gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza in una catapecchia col tetto cadente e la latrina nel cortile.

    Quel fascino particolare, quell’aspetto per nulla anonimo, deve aver fatto girare la testa a più d’una, come, del resto, confermavano a Lapo, sempre con allusiva discrezione, alcuni testimoni.

    Orlando s’era sposato alla soglia dei quarant’anni, molto tardi per l’epoca. «Colpa del Duce che m’ha rubato la giovinezza con le sue guerre», si difendeva lui. Ma alcuni sostenevano invece che la sua vita da scapolo non gli dispiaceva affatto e per questo motivo non si decideva ad abbandonarla.

    Lapo osserva a lungo la foto di questo soldato e la confronta con un suo ritratto da giovane: la somiglianza fisica tra i due è evidente. Anche nel carattere, anche nel temperamento? Anche nei pregi e nei difetti ci assomigliamo? si chiede. Forse più di quanto pensavo ed ero disposto ad ammettere quando lui era in vita e sovente ci si scontrava.

    PARTE PRIMA

    Figlio della tempesta

    Il 4 luglio 1914, quando Orlando nacque, negli Stati Uniti d’America si festeggiava, come sempre, con grande solennità, il giorno dell’Indipendenza. Da più parti si magnificavano le conquiste della scienza, dell’industria taylorista e fordista, della politica di massa e della democrazia. Ma il sonno della ragione e il montante nazionalismo avevano generato un mostro, reso più che mai potente e pericoloso proprio dalla celebrata modernità. Esso dormiva nelle viscere della storia: a svegliarlo bastarono due colpi di pistola mortali, esplosi il 28 giugno a Sarajevo contro l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie.

    Autore dell’attentato lo studente bosniaco Gavrilo Princip, affiliato all’organizzazione terroristica serba La Mano nera.

    Nella vecchia Europa si levarono proteste, minacce, scattarono alleanze. Il 23 luglio l’Impero Austro-Ungarico lanciò un durissimo ultimatum alla Serbia, la quale, spalleggiata dalla Russia, lo respinse.

    I capi di Stato non compresero che il mostro si era svegliato e sarebbe sfuggito loro di mano: come sonnambuli furono trascinati essi stessi dalla macchina infernale che avevano messo in moto e nel giro di pochi giorni precipitarono il mondo nell’Apocalisse.

    Il bambino, nato il 4 luglio in una casa modesta, figlio di un infermiere e di un’operaia, certo non poteva sapere quanto quella vicenda avrebbe tragicamente influito sulla sua vita.

    «Ultime notizieee! Ucciso a Sarajevo l’erede al trono d’Austria! Assassinato a rivoltellate con la moglie da uno studente serbo! Telegrafo! Nazione! Corriere della sera! I particolari dell’attentato! Ultime copie, signori, affrettarsi! Giornalaio, giornalaio!».

    Le grida irrompono nel caldo mattino di fine giugno, rimbalzano sui muri antichi delle case-torri, profanano la quiete laboriosa della piccola città, chiusa da secoli nell’arborato cerchio di dannunziana memoria. Le strade, le piazze, i vicoli da poco hanno cominciato ad animarsi: cicalecci, richiami, saluti, zoccolare di operai e di operaie, di contadini e di massaie carichi di ortaggi, di frutta, di pollame: i prodotti della loro fatica, da vendere al mercato, in piazza dell’Anfiteatro.

    La voce dello strillone è tonante, stentorea, sembra uscire dal petto di un gigante. E invece l’uomo è piccolo e magro, infilato in una curiosa divisa che non dismette mai, il capino affondato in un berretto che pare quello di un ferroviere. Si chiama Gigi e lo conoscono tutti, perché da molti anni svolge quel mestiere, ma nessuno l’ha mai visto scapigliato, nessuno saprebbe dire se ha i capelli e di quale colore, nessuno sa dargli un’età. Gigi, il giornalaio ambulante, l’unico della città, è tutto in quel grido mattutino: senza quello, senza il pacco dei giornali sul braccio, Gigi non esiste.

    I lucchesi sono avvezzi alla sua voce da imbonitore e, a volte, non ci fanno caso. Ma quella mattina, l’insolita, tragica notizia li scuote: sono in molti, forse preoccupati, forse soltanto curiosi, a comprare il giornale.

    In via Vittorio Emanuele, davanti al portone della Manifattura Tabacchi, s’affollano le sigaraie: la sirena delle 8 sta per suonare e bisogna affrettarsi. Il venditore si ferma dinanzi a loro e rinnova il suo grido. Esterina è appena scesa dal tram e si avvia verso l’ingresso della fabbrica. Di solito cammina veloce, ma ora è costretta a rallentare l’andatura, perché la gravidanza è molto avanzata, a giorni dovrebbe partorire.

    La notizia la colpisce e compra Il Mattino, anche se teme di non riuscire a leggerlo, perché la pausa dal lavoro è soltanto di venti minuti e in quel poco tempo bisogna consumare il magro pasto che si è portata da casa. Ma leggere le piace e ha imparato bene, così come a scrivere e far di conto, anche se si è dovuta fermare alla terza elementare.

    Molte operaie, invece, sono analfabete e del giornale non sanno cosa farsene; al massimo guardano le foto stampate in prima pagina. Allora chiedono a lei e a Cesira che hanno un poco studiato e sono informate su ciò che accade nel mondo. Come al tempo del terremoto di Messina, quando le avevano prese d’assalto: volevano sapere, conoscere i particolari di quella spaventosa tragedia, terremoto e maremoto, con tutti quei morti. Allora non si parlava d’altro.

    Quella mattina, al suono della sirena, le sigaraie entrarono, come tutte le mattine. La giornata lunga, faticosa, monotona, come sempre. Era il 29 giugno 1914. L’arciduca Francesco Ferdinando e la consorte erano stati assassinati appena ventiquattr’ore prima.

    Nei giorni successivi la notizia fu sorprendentemente declassata dalla stampa, ridotta a qualche trafiletto sul funerale degli illustri coniugi e a qualche articolo su movimenti di truppe austriache al confine con la Serbia. I capi di Stato, gli osservatori internazionali non sembravano allarmati, nessuno parve accorgersi della miccia che s’era accesa e minacciava d’incendiare la polveriera. L’opinione pubblica, nel giro di poco tempo, quasi si dimenticò di quel fattaccio, ognuno riprese la sua vita, immerso nei quotidiani affanni.

    Esterina poi, alla fine della gravidanza, aveva ben altro da pensare che occuparsi di politica internazionale.

    Le doglie arrivarono il 4 di luglio, alle prime luci dell’alba. A quel tempo le donne partorivano tutte in casa, quelle del popolo assistite da una di loro un po’ più esperta. Lei era fortunata, una privilegiata, perché sua madre Casimira, detta la Mira, era conosciuta in tutto il paese di Santa Maria dei Colli e anche in quelli vicini, per le sue doti di levatrice, per quanto fosse del tutto analfabeta, non avendo frequentato mai nemmeno un giorno di scuola. Analfabeta, ma brava a far nascere i bambini, forse perché ne aveva partoriti dieci e, soprattutto, generosa. «La tale è soprapparto», così dicevano allora, «corri Mira, corri». E lei lasciava la falce o il fuso o i panni da lavare nel torrente, si legava il fazzoletto sulla testa, e accorreva. Anche di notte, la chiamavano, e mai, diceva la nonna, volle essere pagata. Al massimo accettava una coppia d’uova fresche. Sempre rifiutò, invece, di praticare aborti.

    Quando Lapo era piccolo, Esterina non toccava quel tasto così scabroso, ma da adulto, invece, più volte gli aveva raccontato l’episodio del conte. Una vicenda sepolta in un tempo lontano che d’improvviso tornava viva nelle parole di lei, nei gesti, nella voce vibrante di sdegno e d’orgoglio, in una luce che le accendeva lo sguardo come un fulmine nel buio del temporale.

    Lui la rivede bambina, di sei sette anni, con la vesticciola leggera, perché siamo in estate. La bimba è seduta sulla stanga di un barroccio accostato al muro della stalla; sta divorando con gusto una gran fetta di pane appena insaporita da un pizzico di sale e da un goccio d’olio.

    Sulla strada compare una carrozza trainata da due cavalli bianchi. La carrozza entra nel cortile e si ferma dinanzi a casa sua. Un bel giovane, alto e snello, il portamento elegante, l’abito chiaro, salta a terra e s’avvia con passo sicuro verso la porta spalancata.

    La bimba smette di masticare e col boccone in bocca osserva estasiata e un po’ intimorita, l’insolita scena.

    Lo sconosciuto chiama: «Signora Casimira, è permesso?».

    Nessuno, dall’interno, risponde. Allora lui ripete: «È permesso?». La voce è quella di chi è avvezzo a dare ordini.

    Alla fine Mira, indaffarata, compare sulle scale col grembiule legato in vita, le maniche rimboccate e le dita tra i capelli grigi nel tentativo di rassettarli alla meglio.

    Il signore si toglie il cappello e si presenta: «Sono il conte Torquati, vorrei dirvi due parole, avrei bisogno di voi».

    Impacciata e stupita, lei lo fa accomodare al tavolo di cucina e gli siede di fronte. Dalla porta aperta il sole di luglio invade la stanza: le stoviglie di rame appese alla cappa del camino sprizzano barbagli rossi sul volto interrogativo di lei, su quello esitante di lui. Intorno tutto è silenzio. Solo, in lontananza, qualche grido di bimbo, il guaito di un cane.

    Esterina, intanto, ha abbandonato la stanga del barroccio e senza farsi vedere si è infilata, svelta e silenziosa, in una conca di terracotta sistemata sull’aia vicino alla porta d’ingresso.

    Di lì ha ripreso a masticare lenta la sua fetta di pane, i nervi tesi, gli occhi incollati su quel gran signore seduto al tavolo di casa sua.

    Ora lui ha preso a parlare, ma a voce così bassa che la bambina curiosa può avvertire appena un bisbigliare sommesso.

    D’improvviso vede il volto della mamma rannuvolarsi, legge nei suoi occhi i presagi di un’ira montante che minaccia di esplodere violenta, questa volta scatenata non dalle monellerie dei figli, ma dalle parole misteriose di un affascinante signore sconosciuto.

    È in quel momento che l’uomo estrae di tasca una borsa tintinnante e la posa sul tavolo.

    Allora la Mira scatta in piedi e i suoi occhi mandano lampi: «Noi siamo poveri, ma onesti e timorati di Dio – urla con la sua voce possente e i pugni sui fianchi – io i figlioli li aiuto a nascere, non a morire. Vergognatevi a venire a farmi simili proposte. E ora fuori di qui e riprendetevi i vostri sporchi soldi».

    Così dicendo, la bisnonna infuriata afferra la borsa piena di monete e la scaraventa in mezzo all’aia tra le zampe dei cavalli bianchi.

    Il conte, rosso in volto, si calca la paglietta fino agli occhi, biascica qualcosa fra i denti ed esce a grandi passi.

    Sull’aia, intanto, s’è radunato uno stuolo di curiosi: massaie, bambini, sfaccendati. Lui li guarda con disprezzo e sale in carrozza.

    Il cocchiere dà una voce alle bestie che partono al trotto.

    Esterina aveva il temperamento di sua madre e molto le assomigliava anche fisicamente, come risulta da una vecchia foto della Mira, che a quella figlia, l’ultima dei dieci, era particolarmente affezionata. Con lei aveva condiviso il dolore per la morte del primo bambino, Ivano, di appena un anno, una morte misteriosa, che nessuno aveva saputo spiegare, anche se, a quel tempo, la mortalità infantile era molto alta, le campane della chiesa parrocchiale spesso suonavano a morto per un angelo che era volato in cielo.

    Anche Mira, in quell’inizio di luglio del 1914, certo non pensava alla guerra, ma alla gravidanza della figlia prediletta, prossima al parto.

    Quando in quel mattino del 4 luglio, avanti giorno, Isidoro bussò alla sua porta e la chiamò dalla strada perché la consorte aveva le doglie, lei si precipitò, salì affannata sul calesse del genero, che incitò il somaro a prendere il trotto. La casa dove abitavano i giovani sposi distava pochi chilometri, ma il viaggio fu assai travagliato, perché l’asino, più di una volta s’impuntò e non voleva proseguire.

    Così, quando arrivarono, il bambino era nato: bello e sano, un maschietto urlante tra le mani di una donna che s’apprestava a lavarlo e fasciarlo. La mamma sorrideva.

    Lo battezzarono il giorno successivo alla Pieve di Arliano e gli imposero il nome di Orlando.

    Che avessero letto il poema di Ludovico Ariosto? si chiedeva Lapo? Ma subito scartava quell’ipotesi: più probabile si fossero ispirati a qualche bruscello di argomento cavalleresco, allora così diffuso nel mondo contadino della lucchesia e particolarmente nelle campagne dell’Oltreserchio.

    Seguirono giorni felici. Il bambino cresceva, la mamma, dopo essersi recata in chiesa per entrare in santo, riprese il lavoro in manifattura. Se lo portava dietro e lo depositava nell’incunabolo della fabbrica, nelle mani di brave donne che lo accudivano. Un paio di volte al giorno le consentivano di raggiungerlo per allattarlo. Alla fine della giornata, lo riprendeva.

    La spilla d’oro

    In camera di Esterina, sulla pietra di marmo del comò di ciliegio con la specchiera dalla cornice intarsiata, fra un ritratto di Isidoro in uniforme della Grande Guerra e una statuetta bianca e azzurra della Madonna di Lourdes, Lapo aveva sempre notato una spilla d’oro con la testa rossa, deposta in un piccolo vassoio d’argento.

    Mai l’aveva vista a trattenere i capelli candidi della nonna, attorcigliati in una crocchia, mai appuntata sui suoi abiti neri, o, al massimo, bianchi e neri di vecchia, in lutto dal 1919, l’anno in cui la guerra le aveva rubato il marito.

    La spilla era lì, chissà da quanto tempo, come un soprammobile, forse una reliquia. Ogni volta che lei la spolverava, se la rigirava fra le dita, assorta, poi la rimetteva al suo posto con cura e scuoteva la testa.

    Era giunta alla soglia dei novant’anni, quando il nipote, adulto, una sera la soprese a rimirarla e gliene chiese notizia. Lei lo guardò, fra timorosa e risentita, come a difendere una violata intimità.

    Poi le rughe si distesero: «Un regalo del nonno, l’anno dello sposalizio; sì, non mi sbaglio, il 1911. Un periodo bello. Il sabato sera ci si vestiva bene, si prendeva il calesse e si andava in città. Prima da Carluccio in via Fillungo, al caffè degli artisti, dove lui si fermava spesso di ritorno dal turno in ospedale, perché gli piaceva sentirli discorrere. Con alcuni di loro aveva fatto anche amicizia. Era molto intelligente, sai, tuo nonno, se avesse studiato sono sicura che sarebbe diventato una persona importante. Poi lui mi portava al Teatro del Giglio, fra i signori, a vedere le opere del grande Puccini, che incontrava spesso proprio da Carluccio.

    Allora, sul tailleur in panno nero con bottoni in pasta di vetro (ancora lo conservo nell’armadio), mettevo uno scialle chiaro, ricamato, anche quello un suo regalo, e lo fermavo con questa spilla.

    Da quando il nonno è morto, non sono più riuscita a indossare quei vestiti. La spilla d’oro la tengo qui sul comò, a volte la guardo, l’accarezzo e penso, penso, rivedo lui e mi passano per la mente tutti questi anni che ho sulle spalle…».

    La voce s’affievolì: «Poverino, la morte se l’è portato via troppo presto, e io sola, a ventotto anni, con due figlioli da tirar su. E poi un’altra guerra che per poco non mi porta via anche quelli».

    Tacque. Nel silenzio solo il gracidare delle rane: una nenia che saliva dal buio dei pantani.

    Ma poi la nonna, d’improvviso, come pentita di quel triste abbandono, si rianimò: nel verde degli occhi trascorse un lampo d’arguzia, nel sorriso un brio di ragazza birichina.

    «Sai, nelle sere a teatro, nel loggione dove si andava noi, gente del popolo (la platea, i palchetti non erano per le nostre tasche), si stava appiccicati. E così, durante lo spettacolo, quando le luci si abbassavano, c’eran quelli che se ne approfittavano per toccare le donne. Ci provarono più volte anche con me. Io mi guardavo bene dal dirlo al nonno: era di sangue caldo e avrebbe fatto scoppiare il finimondo. Sapevo difendermi da sola: staccavo questa spilla dallo scialle e la ficcavo a tutta forza nella mano di quel mascalzone. Quello si ritirava subito e non ci provava più».

    Ora Esterina ride di gusto. Anche Lapo ride. Ride e guarda l’antica spilla d’oro che diventa viva. Gli pare brilli di una luce nuova, la sua punta acuminata pronta a forare i decenni.

    Ride Lapo e intanto immagina i due giovani sposi che entrano al Teatro del Giglio: lei, nel tailleur nero con lo scialle, un poco intimorita e impacciata, che s’appoggia al braccio di lui. Isidoro felice e spavaldo, in doppio petto e cravatta, i baffi intorchiati come nella foto del matrimonio.

    Incedono nello sfolgorio delle luci, ma poi imboccano la scala che li porta lassù in alto, nel loggione, il posto del popolo, degli operai, delle massaie. C’è da sporgersi un po’ per vedere, ma l’acustica è buona. Semmai il problema è lo spazio: troppo stretto, i sedili di legno appiccicati, le gambe indolenzite, i fiati grossi sulla faccia, le molestie alle signore, complice l’oscurità.

    Ma lei, Esterina, dispone di un’arma segreta: la spilla d’oro.

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