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E-book449 pagine5 ore

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Info su questo ebook

A Milano, un padre, per salvare suo figlio appena nato e in pericolo di vita, accetta l’aiuto di un misterioso medico.
Decenni dopo, in piazza Duomo, Giorgio Braga incrocia il suo amico Romano Cattaneo, che non vedeva dai tempi delle elementari, quando quest’ultimo era svanito all’improvviso nel nulla. Negli stessi giorni, Milena, una prostituta, viene uccisa barbaramente appena fuori della metropoli lombarda, mentre individui dalle capacità particolari vengono sorvegliati e reclutati in tutta Italia da una organizzazione segreta governativa sotto il comando di Siegfried Siller, un funzionario potente e pronto a tutto.
Quali sono i suoi piani e cosa li collega all’omicidio di Milena e all’incontro tra i due vecchi compagni di scuola?
Da Milano a Roma, poteri inquietanti e senza controllo travolgono qualsiasi scrupolo nel tentativo estremo di prevalere gli uni sugli altri e di sopravvivere nella nuova era fatta di luce, ma anche di oscurità, che si prospetta all’orizzonte.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2024
ISBN9788833171753
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    Anteprima del libro

    Poteri - Giovanni Magistrelli

    Poteri

    Giovanni Magistrelli

    Il presente romanzo è frutto

    della fantasia dell’autore.

    Ogni riferimento a cose, luoghi,

    fatti e/o persone realmente esistenti

    o esistite è puramente casuale.

    Urban Fantasy

    I Edizione novembre 2023

    © 2023 Astro edizioni

    S.r.l.s., Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN 978-88-3317-174-6

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Idra Editing

    Editing:

    Francesca Costantino

    Francesca Noto

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    Dedicato alla memoria di mio cugino Alberto, un vero supereroe.

    Non avrei mai potuto scrivere questo romanzo senza averlo conosciuto. Mi manca.

    Grazie alle tre donne nella mia vita, Isabella, Federica e Virginia: qualunque strada intraprenderete, io farò del mio meglio per supportarvi, come voi avete fatto e fate con me.

    «Se vuoi conoscere la vera natura di un uomo,

    devi dargli un grande potere».

    Pittaco

    «Il potere non indietreggia mai,

    eccetto che in presenza di un potere maggiore».

    Malcom X

    Prologo

    L’interno della cappella della Clinica Mangiagalli era in penombra, con i riflessi delle candele accese che danzavano sui muri. Fuori dell’ospedale iniziava ad albeggiare e, di lì a breve, il sole sarebbe sorto su Milano. Nel luogo di culto, invece, la notte era ancora sovrana.

    L’uomo, in completo grigio scuro e camicia bianca con il colletto sbottonato, stava seduto su una panca in seconda fila. Il suo corpo era piegato in avanti, con il volto nascosto nelle mani giunte. Non c’era nessun altro, in quel momento, dentro alla piccola sala di preghiera, a parte lui. Non faceva alcun rumore, mentre piangeva, e solo un leggero fremito delle sue spalle lasciava intuire i singhiozzi disperati che stava soffocando.

    «Buongiorno», disse all’improvviso una voce maschile al suo fianco.

    L’uomo in lacrime si voltò verso la persona che aveva parlato e che non aveva per nulla sentito avvicinarsi.

    Il nuovo arrivato portava un camice bianco da dottore su una camicia azzurra, con una cravatta regimental intonata, e lo fissava con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni scuri.

    La differenza di espressione sulle facce dei due non avrebbe potuto essere più grande. Il primo aveva i capelli castani scarmigliati, la barba lunga di tre giorni e gli occhi rossi segnati da profonde occhiaie. Aveva solo trentacinque anni, ma in quell’istante ne dimostrava almeno quindici di più, il ritratto dello sconforto più straziante. Al contrario, il medico in piedi, con i capelli biondi divisi in mezzo alla testa da una scriminatura perfetta e la pelle abbronzata che metteva in risalto gli occhi grigi, aveva l’aria tra il cordiale e il sereno, con nessun segno di incertezza o di paura nello sguardo, e un’età non definibile.

    L’uomo in grigio si asciugò con il dorso della mano destra le lacrime che gli scendevano lungo le guance. Fece per dire qualcosa, ma si bloccò quando l’altro si sedette al suo fianco, sulla panca di legno. Si guardarono per qualche istante, prima che il dottore aprisse la bocca.

    «Come sta?»

    «Chi è lei? Non la conosco».

    Il medico spostò il viso verso l’altare a pochi metri di distanza. «Le dà sollievo pregare?».

    L’uomo dimenticò subito che l’altro non aveva risposto alla sua domanda. «A dire la verità, no», disse con voce rotta, mentre le lacrime riprendevano a sgorgare dai suoi occhi, «ma non mi è rimasto niente, a parte ciò. Se esiste un dio, forse potrà avere pietà di me e aiutarmi. Io non so più che fare».

    «Lei è convinto che qualcuno possa guarire suo figlio?».

    «Se non lo sa lei che è un medico», scattò l’uomo, alzando la voce, «chi altri può? I suoi colleghi mi hanno fatto capire che non c’è più speranza. È solo questione di giorni, prima che...». Si interruppe, cercando la forza per pronunciare la frase seguente. «Ieri sera è venuto il prete e gli ha impartito l’estrema unzione», mormorò, nascondendo di nuovo il viso tra le mani.

    Il medico gli mise un braccio intorno alle spalle e aspettò in silenzio che l’altro riprendesse a parlare.

    «Stava così bene, prima delle... vaccinazioni. Poi di colpo... è peggiorato», balbettò l’uomo, strascicando le parole tra i singhiozzi sempre più rumorosi. «Non... capisco. Il suo gemello... è sempre stato bene. Perché lui no?».

    Il dottore ritrasse il braccio e si alzò in piedi, dando un’occhiata distratta al piccolo luogo di culto, le mani infilate nelle tasche del camice. «Se le venisse offerta una possibilità di salvare la vita di suo figlio, sarebbe disposto ad accettare qualsiasi rischio che ciò potrebbe comportare?».

    Passarono alcuni secondi, prima che l’uomo seduto sollevasse il viso con lentezza per fissare il medico con aria interrogativa. «Cosa sta cercando di dirmi?».

    L’altro assunse un’espressione solenne. «Forse c’è una speranza, ma il suo bambino potrebbe morire nel tentativo di curarlo».

    «Le ho appena detto che ha ricevuto l’estrema unzione, cazzo! Morirà comunque, dottore!», gridò il neopadre, facendo rimbombare la voce nella cappella.

    Il medico strinse gli occhi, come se lo stesse studiando. «Sarebbe davvero disposto a qualsiasi rischio? A qualsiasi conseguenza?», lo incalzò.

    «Cosa può fare lei per mio figlio?».

    Il dottore non replicò.

    L’uomo seduto lo fissò. Dopo un lungo minuto di riflessione, si passò le mani nei capelli, ravviandoseli, e annuì. «Sì, sono disposto a tutto, dottore».

    Il medico gli indicò di alzarsi. «C’è ancora tempo, anche se non molto. Ma non qui, bensì in un altro posto. Mi segua».

    Quindi si diresse deciso verso la porta della cappella, mentre l’uomo in grigio lo raggiungeva di corsa, affiancandolo.

    Il dottore gli sorrise, mentre uscivano nel corridoio. «Lei ha preso la decisione giusta».

    1.

    Molti anni dopo

    17 settembre

    La prostituta dai capelli biondo platino vide arrivare la Audi A4 bianca e si alzò dalla sedia pieghevole, che aveva sistemato all’ombra degli alberi per proteggersi dal caldo di un’estate che non voleva saperne di terminare.

    Milena era nata venticinque anni prima nella periferia di Mosca e da due faceva il mestiere più antico del mondo, da quando era arrivata in Italia con quello che ai tempi era il suo fidanzato e adesso era il suo magnaccia.

    Ogni volta che ci pensava, sprofondava in un umore tra l’incazzato e il depresso. Filippo l’aveva presa in giro, le aveva fatto false promesse e lei gli aveva creduto. Così era finita a vivere un’esistenza ai bordi della strada statale Paullese, tra Milano e Crema, in attesa di clienti come quello che adesso le si stava avvicinando a passi lenti.

    Si sistemò la minigonna di finta pelle rossa, si tirò su il corsetto nero in modo da far risaltare il grosso seno e aspettò che la Audi si fermasse.

    Il finestrino elettrico scese e la ragazza si sporse dentro l’abitacolo, godendosi l’aria condizionata all’interno del mezzo.

    Un ragazzo magro, con i capelli castani corti e gli occhi scuri, in jeans e maglietta nera, all’apparenza poco più che maggiorenne, lasciò vagare lo sguardo dal viso ai seni prosperosi di lei.

    Milena sorrise, come aveva fatto altre centinaia di volte, quasi un riflesso condizionato.

    «Ciao».

    «Ciao».

    Aspettò che il ragazzo dicesse qualcosa d’altro, ma lui non aggiunse niente, continuando soltanto a mangiarsela con gli occhi.

    Va bene, pensò Milena, ricambiando lo sguardo, gli piaccio molto. Vediamo se può essere un buon motivo per indurlo a pagarmi di più.

    «Cosa vuoi? Bocca? Culo? O un rapporto completo?».

    Le parole crude e pronunciate con un forte accento russo aleggiarono nella Audi per qualche istante.

    «L’ultimo che hai detto», si decise infine a dire il ragazzo, intimidito dai modi decisi della prostituta, che stava riflettendo sull’atteggiamento impacciato del suo nuovo cliente.

    Questo tipo mi dà l’idea di uno che sta andando a puttane per la prima volta. Anzi, forse è pure vergine, si disse la bionda, per poi studiare con rapidità l’interno dell’auto. E, secondo me, questa non è nemmeno sua, ma del padre, considerò, sopprimendo a stento una risatina.

    «Allora, se vuoi farlo in macchina, sono cinquanta euro», propose infine, con la voce di colpo diventata più sensuale. «Però, se vuoi portarmi da qualche parte, magari in un motel, la tariffa sale. Decidi tu».

    Per la tensione, alcune goccioline di sudore erano apparse sulla fronte del ragazzo, nonostante l’aria condizionata gelida. «Quanto costerebbe, allora, nel secondo caso?».

    Gli occhi azzurri di Milena lo fissarono con avidità. «Cento euro. Ma ti assicurò che non te ne pentirai».

    Si sporse di più dentro l’Audi, con fare ammiccante, mentre il suo profumo a buon mercato si insinuava con forza nelle narici del giovane.

    «Sei proprio un bel ragazzo, sai? Come ti chiami?».

    Lui deglutì, prima di rispondere. «Marco».

    Milena lo guardò provocante, facendo uso di tutta la sua arte seduttiva. «Quindi? Mi fai salire o no?».

    «Non conosco nessun albergo da queste parti, però».

    Lei gli strizzò l’occhio. «Di questo non devi preoccuparti. Lascia fare a me».

    Marco sbloccò la serratura e Milena salì a bordo, sistemandosi la minigonna. Alzò lo sguardo e vide che il ragazzo le stava guardando le cosce.

    «Adesso segui le mie indicazioni», disse, alzando il braccio verso il parabrezza. «Conosco io un posto vicino. Ritorna sulla strada e prendi la direzione per Milano».

    Marco assentì e partì, rimettendosi nella carreggiata, mentre la bionda, con noncuranza, tirava fuori dalla borsetta nera un rossetto rosso fuoco e, guardandosi nello specchietto, si ripassava le labbra.

    Cento euro e un bel letto comodo, pensò, soddisfatta. Cosa potrei volere di più, per oggi?

    2.

    18 settembre

    L’ispettore Tullio Savoldelli parcheggiò la Seat Leon della Polizia dentro il cortile asfaltato del motel, all’ombra di uno dei pochi alberi presenti, di fronte alle porte a vetri dell’ingresso. Con lo sguardo fece una rapida panoramica del luogo.

    C’erano altre due auto parcheggiate negli spazi delimitati, una Fiat Cinquecento nera e una Ford Mondeo rossa, oltre a un’altra autopattuglia, un’Alfa Romeo 159. I colleghi erano stati i primi ad arrivare al motel situato lungo la SSP 415, nel comune di Caleppio, appena fuori Milano, in direzione est.

    Le strumentazioni digitali sul cruscotto segnavano le quindici spaccate e una temperatura di ventotto gradi.

    Savoldelli guardò in faccia la donna seduta al suo fianco.

    La viceispettrice Nicoletta Argento si tolse un ciuffo di capelli neri dalla fronte, mentre i suoi occhi verde acqua scrutavano l’interno del cortile, registrando tutto nella sua mente.

    «È praticamente vuoto», commentò la poliziotta.

    «Beh, a quest’ora gli ospiti o hanno già fatto il check-out, oppure devono ancora registrarsi».

    Nicoletta assentì, prendendo il cappello di ordinanza che aveva lasciato sul cruscotto.

    «Entriamo?», domandò, con un po’ di impazienza.

    Savoldelli non rispose, ma aprì la portiera. «Cavolo, che caldo! E tra qualche giorno non dovrebbe cominciare l’autunno?».

    «A me pare di essere ancora a Ferragosto, invece!», concordò lei.

    Entrambi scesero dalla Seat e attraverso le porte scorrevoli entrarono nella hall climatizzata del motel, dove regnava un profumo di lavanda.

    Il portiere dietro il banco, sulla trentina, con i corti capelli biondi ricoperti in modo eccessivo di gel, vide la coppia in uniforme avanzare verso di lui. Allora fece un cenno con gli occhi all’individuo, più anziano e con un po’ di pancia sotto il completo blu, con il quale stava conversando.

    Questi, in piedi davanti al banco, si girò e andò incontro ai tutori dell’ordine. «Sono Gianni Anzini...».

    «Il direttore, giusto?».

    Anzini squadrò veloce il poliziotto, alto almeno un metro e novanta, senza capelli e con un pizzetto grigio, i cui occhi azzurri vagavano nella hall. Quindi indugiò di più sulla sua collega, di almeno due spanne più bassa, con i capelli scuri e ricci, raccolti in una coda, e un fisico tutto curve che la divisa non riusciva a nascondere del tutto.

    «È stato lei a scoprire l’accaduto?», chiese Savoldelli ad Anzini, andando dritto al punto.

    «No. È stata una delle donne delle pulizie, poco dopo mezzogiorno. Dopodiché ho provveduto personalmente a chiamare la polizia».

    In quel momento, un poliziotto entrò dal cortile, facendoli voltare.

    «Buongiorno, ispettore. Sono l’agente Mori», si presentò, portandosi la mano destra alla visiera per salutare.

    «Il cadavere?», replicò Savoldelli. «Dov’è?».

    «Qui dietro, ispettore. Camera 22».

    Savoldelli si girò di nuovo verso Anzini, il quale, intuì il quesito e lo prevenne. «Ogni camera ha l’accesso che dà direttamente sul cortile. Per garantire la massima privacy».

    L’ispettore si passò una mano sul cranio calvo e lanciò una rapida occhiata a Nicoletta prima di tornare a rivolgersi al direttore. «Quindi voi non effettuate nessuno controllo su chi entra e chi esce dalle camere, giusto?».

    Anzini abbozzò un sorriso malizioso. «Siamo un motel a quattro stelle e siamo molto rinomati qui nell’hinterland, soprattutto per la nostra discrezione. Ci teniamo a soddisfare le richieste dei clienti e, tra queste, la prima è il loro diritto alla riservatezza».

    «Dovete avere comunque un registro degli ospiti. Che spero sia compilato secondo le leggi in vigore», si intromise Nicoletta, con un tono di sottile minaccia.

    «Sicuro», si affrettò a rispondere il direttore, tra l’offeso e il timoroso. «Qui rispettiamo le regole. Sempre».

    Savoldelli si voltò verso Mori. «Chi c’è adesso nella camera con la vittima?».

    «Il mio collega, l’agente Gallazzi».

    «E quelli della scientifica quando arrivano?».

    «Dovrebbero essere qui tra poco, ispettore. Con il medico legale. Sono stati chiamati non appena abbiamo confermato al commissariato il ritrovamento del cadavere».

    L’ispettore fece un cenno di assenso. «Camera 22, hai detto?».

    «Sì, è dietro l’angolo, sulla destra».

    «Vai pure. Arriviamo tra un minuto». Mentre Mori usciva, Savoldelli tornò a fissare Anzini. «Direttore, ci può far vedere il registro?».

    Anzini fece un segnale al giovane dietro al banco e questi prese da un cassetto un faldone con la copertina in pelle color mogano, dove il nome del motel era scritto in lettere d’oro.

    Nicoletta glielo tolse dalle mani e cominciò a sfogliarlo, pagine e pagine di nomi con le firme delle persone che avevano pernottato nel motel.

    «Vedrà che non manca nulla. Siamo molto scrupolosi. Inoltre, questo registro è soltanto un proforma. Infatti, mandiamo sempre i dati alla Questura per via telematica immediatamente dopo la registrazione del cliente», ribadì Anzini, con voce ferma e sicura, anche se l’espressione sul suo viso mostrava altrimenti.

    Nicoletta fece scorrere il dito su una pagina e, quando trovò quello che cercava, lo indicò a Savoldelli. «Qui c’è scritto che ieri nel tardo pomeriggio ha fatto il check-in una certa Milena Solovyova. Venticinque anni. Nazionalità russa, ma residente in Italia. Ha pagato in anticipo settanta euro. In contanti», disse, fissando il direttore negli occhi e sottolineando le ultime due parole.

    «Succede, a volte, che i clienti preferiscano non usare le carte di credito. Non è contro la legge».

    La donna ignorò la replica di Anzini. «È arrivata all’albergo in auto?».

    «Sì».

    «C’era qualcuno con lei?».

    Anzini allargò le braccia. «Non lo sappiamo con certezza».

    «Ma chi era al banco del ricevimento avrà notato qualcosa, no?», insistette lei, irritata dalla calma apparente dell’uomo. «Dopotutto, siete pieni di telecamere per la videosorveglianza, ho visto».

    Il direttore non aprì bocca e Savoldelli abbozzò una smorfia, divertito da quello che si stava trasformando a tutti gli effetti in un interrogatorio serrato.

    «Chi c’era al banco ieri? Lui?», proseguì la donna, indicando il ragazzo biondo.

    «No, ieri c’era il mio collega, Luciano. Io ho preso servizio stamattina», rispose rapido questi, precedendo Anzini, come per assicurarsi di essere ritenuto estraneo a tutto ciò che era successo nella camera 22.

    «È sottinteso che dovremo porre qualche domanda a questo Luciano, direttore. E avremo anche bisogno delle registrazioni delle videocamere, prima che si cancellino», ribadì Nicoletta.

    «Mattia, fai subito il back-up del servizio di videosorveglianza», ordinò il direttore al ragazzo biondo, per poi girarsi sorridente verso la donna, come uno studente dopo che ha eseguito bene un compito a casa.

    La poliziotta rimase impassibile. «Tornando a ieri pomeriggio, direttore, questa ospite, Milena Solovyova, arriva, entra qui dentro, fa il check-in e paga in contanti. Dopodiché le avete assegnato la camera 22».

    Anzini annuì senza parlare.

    «Rifaccio la domanda. Era da sola?», lo incalzò Nicoletta.

    Il direttore e il ragazzo biondo si guardarono di sottecchi, entrambi tesi.

    Nonostante l’aria condizionata nell’albergo, Anzini aveva incominciato a sudare.

    L’uomo deglutì più volte, prendendo tempo prima di rispondere. «Per quanto ne possiamo sapere noi... sì. È entrata in questa lobby da sola. Quindi, tecnicamente, possiamo affermare che non c’era nessun’altro con lei».

    «Ma l’entrata della camera dà sul parcheggio. Perciò non è obbligatorio transitare da questa lobby, per accedervi. Nel caso della 22, mi pare di capire che sia abbastanza distante dall’ingresso principale. Perciò, persino meno in vista di altre. Quindi, se ipotizziamo che ci fosse qualcuno con la vittima e che l’aspettasse nascosto in auto, non avreste avuto la possibilità di vederlo. Tecnicamente, come dice lei, direttore, una persona avrebbe potuto entrare in camera insieme alla ragazza senza che nessun altro se ne accorgesse».

    «A parte le telecamere...».

    «Che, d’altra parte, si cancellano dopo quanto? Quarantotto ore? O settantadue?».

    «Quarantotto», disse con un filo di voce Anzini, mentre si passava il dorso della mano sulla fronte, dove erano comparse, sempre più numerose, delle goccioline di sudore.

    «Beh, poi daremo un’occhiata. Per questa volta, direttore, farà meglio a mettere da parte la discrezione, visto che c’è di mezzo un morto», sottolineò Nicoletta, severa.

    «Dov’è la donna delle pulizie che ha rinvenuto il cadavere?», domandò allora Savoldelli, guardandosi intorno.

    «L’ho fatta sdraiare in una delle camere vuote del motel. Non si è sentita bene, dopo...», rispose Anzini, interrompendosi per un attimo, senza finire la frase. «Ha avuto la prontezza di chiamarci immediatamente, ma poi ha perso i sensi. Le ho dato dei tranquillanti e ora sta dormendo. Lo shock è stato molto forte. E, prima che me lo chieda, le dico subito che Adele è al di sopra di ogni sospetto. Ha quasi sessant’anni, lavora con noi da cinque anni e non sarebbe capace di fare del male a una mosca. Di sicuro, non sarebbe in grado di ridurre un essere umano in quello stato». Il direttore aveva dipinta sul viso un’espressione di disgusto. «Vedrete voi stessi».

    3.

    18 settembre

    Savoldelli e Nicoletta uscirono dalla lobby nel parcheggio asfaltato, dove una leggera brezza si era appena alzata, senza però dare alcun sollievo contro la calura fuori stagione.

    «Cosa ne pensi?», chiese Tullio, mentre attraversavano il cortile rovente.

    «La ragazza non era da sola, secondo me. Hai visto il motel, no? È perlopiù un porto d’attracco per avventure extra-coniugali e incontri clandestini, magari anche a pagamento. Forse, chi era con lei ha perso il controllo».

    Savoldelli annuì.

    «E sappiamo, purtroppo, che il confine tra sesso sfrenato e violenza è molto sottile, talvolta. Se viene oltrepassato...», aggiunse Nicoletta, senza terminare la frase.

    I due investigatori girarono intorno all’angolo destro del motel e si trovarono di fronte gli agenti Mori e Gallazzi, fermi sulla porta della camera 22 e intenti a fumare.

    «La ragazza morta?», domandò Savoldelli.

    «È sul letto matrimoniale. Supina», rispose Mori.

    «Avete già fatto dei rilevamenti?».

    «No, ispettore, a parte scattare quante più foto possibili. Abbiamo pensato che fosse meglio che se ne occupasse la scientifica».

    «Avevamo timore di inquinare il luogo del reato, di distruggere possibili indizi», soggiunse Gallazzi, per poi zittirsi e proseguire qualche secondo dopo: «Ha fatto veramente una brutta fine. È un caso strano. Molto strano».

    Nicoletta sorrise, dubbiosa, prima di far spostare i due poliziotti.

    «Ho visto abbastanza cadaveri in vita mia per poter affermare che...», ribatté, decisa, entrando nella camera, ma il resto della frase le si spense in gola.

    Si arrestò appena un metro dentro la 22, lo sguardo fisso sul grande letto di fronte a lei.

    Dietro Nicoletta, Tullio si fermò giusto in tempo per non urtarla, sorpreso dalla frenata della collega, mentre le narici di entrambi venivano invase da un odore simile a quello di una grigliata di carne.

    Dall’alto della sua statura, anche l’ispettore si ritrovò a guardare rapito lo spettacolo macabro che avevano davanti.

    «Cazzo!», esclamò Nicoletta, con il volto di colpo teso.

    L’ispettore le passò di fianco e si posizionò vicino al letto, ignorando per il momento il cadavere su di esso. Quindi fece un giro su se stesso per osservare meglio la camera.

    Sulla sinistra, nascosta in parte da un muretto alto un metro, c’era una vasca per due con idromassaggio, colma d’acqua. Dietro di essa, due specchi coprivano la parete, mentre un terzo, ancora più grande, era incastonato nel soffitto sopra il letto matrimoniale.

    Tullio incrociò gli occhi verdi di Nicoletta e capì che anche lei stava pensando la stessa cosa.

    Nient’altro che un albergo a ore dove la gente viene per scopare, spesso perdendo ogni inibizione. Solo che questa volta ci è scappato il morto.

    Dopodiché, lo sguardo dell’ispettore si concentrò sul corpo senza vita di Milena Solovyova e i residui dell’idea che sarebbe stato un caso come tanti altri svanirono per sempre in un batter d’occhio.

    Il copriletto tigrato era caduto ai piedi del letto e la ragazza era sdraiata sulle lenzuola bianche, con indosso soltanto un perizoma rosso, gli occhi azzurri spalancati e rivolti verso lo specchio sul soffitto.

    La parte inferiore del viso era carbonizzata, dal naso al mento.

    Altre ustioni di quarto grado erano presenti su entrambe le braccia, all’altezza della vagina e su tutto il petto.

    «Porca vacca, chi può aver fatto questo?», si lasciò scappare dalle labbra Savoldelli.

    «Ha notato, ispettore, come alcune ustioni abbiamo una forma simile a una mano? Si intuisce persino il contorno delle cinque dita», osservò Mori, affiancandolo.

    Tullio si avvicinò al cadavere e non poté fare a meno di essere d’accordo con l’agente. Ciò era visibile in particolar modo nell’impronta nera ben definita che copriva il naso e la bocca di Milena. Chi l’aveva uccisa pareva aver pressato qualcosa con forza in quel punto, forse nel tentativo di non farla gridare. Il risultato era stato la bruciatura completa della parte inferiore della faccia, diventata una massa informe di carne carbonizzata.

    «Tullio, mi sbaglio se dico che si tratta di una prostituta?», commentò Nicoletta.

    Savoldelli si grattò la fronte, mentre annuiva.

    «Faccio un’ipotesi su come possono essersi svolti i fatti», continuò la viceispettrice. «Quando la ragazza ha fatto il check-in, c’era un cliente ad aspettarla in auto, nascosto. Poi lui l’ha seguita in camera».

    «Sono d’accordo con te. Ma dopo? Cos’è successo? Quale mente malata può uccidere in questo modo? Che attrezzi può aver usato? E, soprattutto, perché?».

    Nicoletta scosse la testa e si passò distrattamente la mano tra i capelli ricci, domandandosi allo stesso tempo quale essere umano potesse arrivare a compiere un tale orrore su un suo simile.

    4.

    18 settembre

    All’interno di un bar in Piazza Duomo a Milano, i due uomini si fissarono; di colpo, in entrambi i loro sguardi era comparsa la stessa espressione spaesata di chi cerca di ricordare qualcosa, di afferrare un’immagine o un nome nella propria mente, senza però riuscirci.

    Era un pomeriggio di fine estate, ma il clima, in maniera inaspettata, era ancora molto caldo e l’autunno appariva in quel momento quanto mai remoto.

    Giorgio Braga socchiuse gli occhi marroni per proteggersi dai raggi del sole che filtravano dalla vetrata del bar e, allo stesso tempo, per concentrarsi ancora di più sul volto vagamente familiare dello sconosciuto che aveva di fronte.

    «Ma sei Giorgio Braga?», lo precedette l’altro, tra l’incerto e l’incredulo.

    Sentendo pronunciare il proprio nome, studiò con ancora maggiore intensità l’uomo che gli stava di fronte, sui quarant’anni, alto, magro, con i capelli castani corti pettinati all’indietro e gli occhi azzurri.

    Ma fu solo quando lo sconosciuto sorrise che, alla fine, un nome affiorò sulle labbra di Giorgio.

    «Romano Cattaneo! Sei proprio tu?!», esclamò ad alta voce, facendo girare tutte le altre persone dentro al bar.

    Al cenno di assenso di Romano, allungò il braccio per stringergli la mano, ma l’altro lo afferrò per le spalle, tirandolo a sé, e lo abbracciò. Dopo un istante di imbarazzo, Giorgio contraccambiò la stretta vigorosa.

    «Quanto tempo!», esclamò Romano, staccandosi e fissandolo. «Devono essere passati almeno trent’anni, dall’ultima volta che ci siamo visti».

    Giorgio si passò la mano tra i radi capelli biondi. «Dalla fine della quinta elementare», commentò, dopo aver riflettuto per qualche secondo.

    «Sì. Proprio da allora».

    Nella mente di Giorgio, tutt’a un tratto, prese forma una scena del passato.

    Due amici per la pelle alle scuole elementari, che si promettevano che sarebbero rimasti tali per sempre. Ma l’inizio della prima media, al ritorno dalle vacanze estive, aveva regalato una sgradita sorpresa a Giorgio.

    Romano non c’era più.

    Giorgio aveva passato luglio e agosto in montagna con i nonni, mentre, a sua insaputa, il suo migliore amico si era trasferito con la famiglia, lasciando Milano per una destinazione sconosciuta.

    Giorgio non aveva più saputo niente di Romano.

    Alla tristezza e alla delusione erano seguite l’arrabbiatura e la sensazione di essere stato tradito, ma poi anche quelle emozioni erano passate, come è normale che avvenga nella testa di un ragazzino di undici anni.

    Con il tempo, il volto di quello che era stato il suo amico inseparabile durante gran parte dell’infanzia era scivolato nell’oblio, relegato negli angoli remoti della sua memoria.

    E, ora, tre decenni più tardi, eccolo lì, riapparso dal nulla, come per magia.

    «Dove abiti, adesso?», domandò Giorgio.

    «Qui a Milano. Ci sono tornato da una decina d’anni. E tu?», volle sapere Romano, a sua volta.

    «Sono sempre rimasto in città, io», ribatté Giorgio, con un pizzico di risentimento nella voce, che risuonò strano persino a lui.

    Allora, lo sguardo di Romano sembrò diventare all’improvviso stanco e triste insieme.

    «Già», mormorò, laconico.

    Giorgio diede un’occhiata veloce all’orologio al polso, che indicava le diciassette.

    «Ma vedo che sei di fretta», aggiunse Romano. «Dai, ti lascio andare! È stato un piacere rivederti, comunque».

    Giorgio andò per un attimo con la mente a sua moglie Claudia, ormai al settimo mese di gravidanza. L’aveva sentita al telefono appena dieci minuti prima e le aveva detto che sarebbe tornato a casa verso le diciannove, dopo aver sbrigato un paio di commissioni in centro. Tornò a guardare il suo vecchio amico.

    «Beh, dopo esserci persi di vista per tutti questi anni, la fretta è l’ultimo dei miei pensieri. Ti offro qualcosa da bere, così mi dici cos’hai fatto di bello, da allora».

    Romano ebbe qualche secondo di esitazione, come se stesse ponderando se accettare o meno l’invito.

    «D’accordo», disse infine, «ma anche tu ne avrai di cose da raccontarmi, dopo tutto questo tempo».

    Mentre si accomodavano a un tavolino e un cameriere si avvicinava per prendere l’ordinazione, Giorgio non poté impedire a se stesso di essere travolto da una marea di emozioni, anche se, per qualche motivo nascosto nel suo inconscio, non tutte gli risultarono piacevoli.

    5.

    18 settembre

    Il signore settantenne, in pantaloni di cotone beige, giacca blu e polo bianca che tirava sulla pancia prominente, aveva appena acquistato una coppetta gelato da un chiosco ambulante nei giardini di Villa Borghese a Roma.

    L’anziano respirò con soddisfazione il profumo delle aiuole ancora in fiore, mentre cercava di rimettersi il portafogli nella tasca interna della giacca senza far cadere il gelato.

    Una leggera brezza rendeva il caldo soffocante del pomeriggio più sopportabile. Al suo fianco, la nipotina di sei mesi, Carlotta, dormiva beata nella culla, riparata dal sole.

    Il signore, all’improvviso, intravide con la coda dell’occhio una figura avvicinarsi di corsa. Poi, sentì un colpo forte al fianco e si ritrovò sbattuto sul selciato in terra battuta. Alzò gli occhi giusto in tempo per vedere un uomo dai capelli scuri, in jeans e maglietta nera, che, dopo averlo urtato, raccoglieva il suo portafogli dal selciato e scappava via.

    «Il mio portafogli!», urlò l’anziano, mentre cercava di rimettersi in piedi. «Aiuto! Al ladro!».

    Le persone intorno si girarono verso di lui, ma nessuna provò a fare qualcosa per fermare lo scippatore.

    «Tutto bene, signore?», chiese in tono preoccupato una ragazza bionda sui vent’anni, accorsa per aiutare il settantenne.

    Questi si rialzò e, prima di rispondere, guardò dentro la carrozzina, per controllare che la nipotina stesse bene.

    Dopo aver visto che Carlotta dormiva pacifica, ignara dell’accaduto, si girò verso la ragazza. «Mi hanno rubato il portafogli. Avevo dentro anche tutti i documenti. È stato quell’uomo là», spiegò, indicando con il braccio la figura ormai lontana che stava uscendo di corsa dai giardini, oltre la Fontana di Esculapio.

    La ragazza scrutò in quella direzione, poi, con aria scorata, compose il 112 sul cellulare. «Signore, è meglio chiamare subito la polizia. Magari c’è la possibilità che riescano a fermarlo».

    L’anziano assentì, sospirando. Si spazzolò via il terriccio dalla giacca blu con il palmo della mano, mentre dava un’occhiata alla coppetta di gelato capovolta sulla terra battuta.

    Speriamo che almeno ritrovino i documenti, pensò.

    Quindi tornò a guardare la nipotina, immersa nel sonno nella sua culla.

    Intanto, ormai a diverse centinaia di metri di distanza, in via Flaminia, il ladro aveva rallentato il passo e camminava indisturbato tra i pochi passanti che incrociava.

    Adrian aveva compiuto da poco ventitré anni, ma aveva alle spalle già una lunga lista di arresti per furti e scippi. Si deterse la fronte sudata usando un lembo della maglietta, quindi sbirciò all’interno del portafogli, continuando a procedere nella direzione opposta a Piazza del Popolo, e fece una smorfia di soddisfazione.

    Era stato tutto così semplice. D’altronde, le persone anziane erano tra gli obiettivi preferiti della sua attività di scippatore. Conoscevano poco o nulla il significato delle parole bancomat o carta di credito e spesso andavano in giro con

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