Familiaritas
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Info su questo ebook
Maria Tina Vitello è nata a San Cataldo (CL) nel 1972. Insegnante di latino e letteratura italiana, al momento vive a Gela con il marito Angelo e la cagnolina Maia. Ha pubblicato rime in diverse antologie per Pagine edizioni e la raccolta Poesie e racconti per Betania Editrice.
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Anteprima del libro
Familiaritas - Maria Tina Vitello
Maria Tina Vitello
Familiaritas
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-4520-6
I edizione dicembre 2023
Finito di stampare nel mese di dicembre 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Familiaritas
Ai miei genitori, che con i loro gesti semplici
mi hanno insegnato l’Amore.
I
TEMA: IL RICORDO
Sono nella casa dove abitavo da bambino
riconosco ogni oggetto
la disposizione dei mobili, i colori.
La luce era diversa negli anni Settanta,
ho riconosciuto anche quella.
(Ritorno a casa
- Afterhours)
Si dice che un’Anima non possa restare a lungo sulla Terra. Vi resta durante l’arco del tempo necessario a compiere il ciclo vitale del corpo materiale. In questo lasso di tempo, variabile da individuo a individuo, l’Anima si adegua al contesto sociale entro cui accompagna il corpo: agli usi, alle tradizioni, ai valori, ai pregiudizi, ai progetti di vita, agli affetti.
Tutto costituisce un insieme imprescindibile tanto che, se viene meno anche uno solo di questi tasselli, l’Anima non riesce più a sentirsi a proprio agio: a un certo punto della vita comincia a dubitare di tutto e di tutti, non sente più di appartenere a questo mondo e così, inconsapevolmente, sceglie di allontanarsi, con lentezza. Non si dimentica tuttavia degli affetti sinceri, cioè delle persone che ha amato e da cui è stata riamata, di chi ha ancora bisogno di essere protetto e non riesce a elaborare il lutto, perché non accetta la separazione. Così l’Anima a volte resta sulla Terra per giorni, mesi, anni, allo scopo di rimanere vicina ai propri cari finché non abbiano superato il dolore.
Forse Luciano e Francesca sentivano che non potevano più rimanere in questo mondo. Un mondo che ha dimenticato quei valori e quei principi di cui loro si facevano portatori. Sarebbero rimasti nella loro casa solo un altro po’, come c’erano stati da cinquantadue anni, da quando si erano sposati e avevano fissato lì la loro dimora. Avrebbero continuato a compiere i loro gesti quotidiani, rituali, che si ripetevano fedelmente da quando, complici e amanti, avevano costruito la loro abitazione, anno per anno, un piano alla volta, investendo il denaro ricavato dal raccolto della campagna, senza contrarre debiti né girare assegni.
Luciano era del parere di dover comprare solo quello che si poteva pagare in contanti: quando erano disponibili, si concludeva l’affare, cercando di risparmiare; quando invece i liquidi non erano fruibili, non si comprava nulla.
A casa funzionava così: i capricci non erano ammessi. C’erano solo cose che si potevano avere, cose che non si potevano avere e cose per cui si doveva aspettare.
Le loro due figlie, Selene e Lia, lo sapevano benissimo e non se ne erano mai lamentate, perché una qualunque privazione difficilmente veniva considerata una rinuncia: piuttosto, era una normalissima gestione del quotidiano. In questo modo il valore che veniva dato a ogni oggetto era direttamente proporzionale sia alla sua effettiva necessità che alla carica emotiva in esso racchiusa.
E adesso, nella casa di Luciano e Francesca, erano rimasti molti oggetti, alcuni realmente necessari e altri dalla forte carica emotiva, perché rappresentavano un caro ricordo di famiglia: bomboniere abbinate alle rispettive confezioni in tulle con annesso bigliettino, per identificarne l’occasione; servizi di piatti in fine porcellana, decorati in oro e blu; tazzine da caffè, disposte in maniera simmetrica; barche in bambù, provenienti da chissà quale parte d’Italia; un carrettino siciliano giallo, trainato da un minuscolo cavallo nero con la cavezza ornata di piume rosse; c’era persino la ghirlanda di rose in tessuto bianco, indossata da Francesca nel giorno del matrimonio.
Tutto era custodito nella credenza in stile anni Sessanta, con una bella rivestitura rossa all’interno, chiusa da tre vetrine separate tra loro e sorrette in basso da due coppie di ante laccate. Dentro era conservata tutta una vita e persisteva, sia pure a distanza di anni, un profumo, quello dell’infanzia delle ragazze.
Fu proprio quello il profumo che riempì la stanza quando Lia aprì il divisorio centrale per riporre il proprio ventaglio (che avrebbe sicuramente smarrito se l’avesse lasciato su un altro mobile).
Selene e Lia dovevano apprestarsi a riprendere la loro quotidianità dopo la dipartita dei genitori, a distanza di tre anni l’una dall’altro.
Di grande conforto era stata la presenza di amici e di parenti che si alternavano a rendere omaggio alla salma di Francesca e a offrire conforto alle figlie. Giungevano a gruppi, salutavano sottovoce e si dirigevano presso Selene e Lia, le abbracciavano e si sedevano con loro a conversare o semplicemente a stare in silenzio. I più intimi sgattaiolavano in cucina per lasciare sul tavolo delle teglie in alluminio colme di pietanze succulente da consumare per la cena (è tradizione offrire il pranzo o la cena alle dolenti, perché si presume non abbiano appetito e dunque bisogna invogliarle a sostenersi con un pasto pronto).
Alcuni lasciavano anche dei thermos pieni di caffè o di thè, accompagnati da deliziosi pasticcini, e poi andavano via.
Con discrezione, al tramonto del sole, tutti, amici e parenti, erano già rientrati nelle loro abitazioni.
Ora la casa sembrava vuota, abbandonata.
Il suono dei passi di Selene e di Lia non riecheggiava più tra le pareti del salotto e le loro risate, a volte timide, a volte sfrenate, non rimbalzavano più da un mobile all’altro, rincorrendosi nell’ampio spazio del giardino e in quello angusto della cucina. Dai fornelli non si spandevano più profumi deliziosi, da svenimento, e le porte non venivano più sbattute né accostate.
Tutto sembrava assente eppure pulsante di vita, come se ogni utensile, ogni oggetto della loro quotidianità, fosse ancora in attesa di essere adoperato da mani abili e stanche. Mani abituate al lavoro, al rumore, e non al silenzio.
Quel giorno, il primo giorno senza Luciano e Francesca, l’aria era afosa e pesante. Foglioline clorotiche e petali di rose erano sparsi qua e là, sul pavimento della camera da letto, e sembrava sorridessero.
Selene e Lia avevano lasciato le finestre aperte per un giorno intero e la stanza adesso sapeva di polvere accumulata.
Non si registravano temperature così alte dal 2016: era il terzo luglio più caldo del pianeta. Forse l’estate più calda di tutti i tempi. E la canicola la si avvertiva maggiormente che altrove, giacché Selene e Lia abitavano in un paese dell’entroterra siciliano, a 330 metri sul livello del mare e a 50 chilometri dalla spiaggia. Ma dopo una notte trascorsa a vegliare, Francesca era ancora distesa, immobile nella medesima posizione in cui tre anni prima aveva riposato il suo sposo.
Durante la notte le due sorelle si erano concesse appena dieci minuti di riposo sul divano, perché desideravano contemplare il più a lungo possibile la sua bellezza serena e fredda.
Lia aveva l’aria di dover svenire da un momento all’altro, anche se chi la conosceva bene sapeva perfettamente che con quell’incarnato diafano lei c’era nata. Ora più che mai il suo pallore era messo in risalto dal vestitino nero di cotone. Quel colore l’avrebbe indossato anche il giorno dopo, quello successivo e quello dopo ancora, e ancora per una settimana, un mese o due, fintanto che il suo umore si sarebbe accordato all’abito che indossava.
Adesso, seduta accanto a Francesca, aveva reclinato la testa sulla sua spalla. Poteva sentire ancora il suo profumo che sapeva di rose misto a lavanda. Una fragranza unica, inconfondibile, che non era mai riuscita a trovare né nelle profumerie del suo paese, né a Catania, né a Roma, né a New York. Era il profumo di mamma.
Le baciava la fronte e con essa tutti i pensieri che sarebbero rimasti racchiusi lì per sempre.
Le accarezzava le mani, morbide, lisce, vissute; mani di chi ha lavorato tutta la vita in campagna, mani di chi ha ricamato, di chi ha confezionato, di chi ha preparato tutto in casa, di chi ha risparmiato per assicurare un futuro alle figlie, a lei e alla sorella maggiore, Selene.
Le due erano rimaste sole in casa dopo il bagno di folla
che aveva onorato la memoria di Francesca. Adesso che la mamma se n’era andata, Lia si guardava intorno e realizzava in ogni momento che quella non era più la casa della sua infanzia, bensì la casa dei suoi genitori. Per Selene, a giudicare dallo sguardo assorto e quasi diffidente, doveva essere lo stesso.
Ai loro occhi tutto adesso appariva più distante: ogni sedia, ogni mobile non doveva essere toccato né spostato.
Selene e Lia si guardarono e si capirono al volo, come sempre.
La maggiore iniziò a chiudere le finestre a