Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Romani di mare
Romani di mare
Romani di mare
E-book216 pagine3 ore

Romani di mare

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Pallina, Enrico e Giuggio, tre ragazzi, amici da sempre, sono nati e cresciuti nella periferia ovest di Roma, Ostia. Sono gli anni Ottanta, periodo di grandi cambiamenti, i tre poco più che ventenni, sono alla ricerca della propria strada, ognuno inseguendo il proprio destino, ognuno guidato dal proprio sentire. Poi un giorno, all’improvviso, Pallina sparisce e di lei non se ne sa più nulla.

“Eravamo dei ragazzi nati su un lembo di terra limacciosa, scura zolla infuocata, lavica, nera, strappata con il sudore della fronte all’acqua salata e alla foresta mediterranea. Ci chiamavamo, romani di mare, figli di una lupa minore e di un impero che da noi distava chilometri”.

"Romani di mare" è una storia di riscatto e redenzione.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2024
ISBN9791223039304
Romani di mare

Correlato a Romani di mare

Ebook correlati

Narrativa romantica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Romani di mare

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Romani di mare - Giulio Candiolo

    1

    Erano migliaia i frammenti di legno da incastrare, da appiccicare tra loro con una colla povera fatta di acqua e farina. Enrico si affanna a raccontare, si sforza di ricordare date e visi.

    «Che succede Enrico, che ti sta succedendo?»

    Ma non ascolta, non mi ascolta. È stordito, frastornato, come fosse stato colpito da un jab al mento, un colpo ben assestato sulla pubblica piazza di Kinshasa. Biascica, impreca, con lo sguardo perso da cane abbandonato.

    «Pallina...»

    «Pallina che?»

    «Pallina è sparita!»

    «Hai chiamato i carabinieri?»

    «No, nun serve, è sparita ma so che sta bene.»

    Pallina è sparita, proprio adesso, adesso che tutti avevamo ritrovato uno straccio di pace.

    «Ma se sai che sta bene, calmate e aspetta!»

    Questo approccio, forse un po’ di ripiego, probabilmente attendista, considerato ragionevole da una larga parte di umanità, non si addice al carattere di Enrico che impulsivo e nervoso, rosso in viso e col collo rigonfio, sale a casa dalla sora Maria e urla e impreca alla ricerca del colpevole: Sora Mari' noi dovemo da parlà

    E poi si piazza sotto casa mia.

    Io vivevo al confino. Tornavo a casa, due, tre volte l’anno. Quando la nostalgia, quando il vuoto di dentro si facevano insopportabili, allora salivo su un trenino rumoroso come un commesso viaggiatore col suo campionario di pentole e disperazione. Mi sedevo quieto in seconda classe, accanto al finestrino, verso contrario e come ogni volta, pagavo un supplemento di angoscia all’andata e di tristezza al ritorno. Dal mio mondo sospeso, dal mio esilio perenne, sbarcavo sulla terra, emisfero boreale, Europa meridionale, penisola italica: casa. Un breve e impacciato saluto a padre e fratelli, giusto un sacchetto di parole pronunciate a mezza bocca, più bucce che polpa. Poi sparivo nel nulla.

    Buona parte del tempo lo passavo chiuso in camera, che alla reclusione ero avvezzo o più spesso con i miei amici del cuore. Con Enrico e Pallina, ci sedevamo da 'Sergio il Mostro', un bar tutto specchi e acciaio, e tra sigarette e caffè, perdevamo ore a raccontarci per l’ennesima volta della maestra Silvia, della pizza der Pignetta, della spiaggia d’estate e di quello che eravamo diventati. Che poi diventati è un parolone, eravamo ancora ragazzi, la pubblicità di un film di Francesco Rosi, tre fratelli che si rincontrano dopo tempo e ogni volta ci raccontavamo al passato, per non vederci al presente e per non spaventarci del futuro.

    Ma poi Pallina un giorno è sparita e non se n’è saputo più niente. Era il 1987. Tutti sapevamo che Enrico e Pallina si sarebbero sposati, predestinati come Giuseppe e Maria, infelici come Romeo e Giulietta.

    «Io vojo Giuggio a farmi da testimone!»

    Diceva Pallina mentre si alzava per andare a prendere tre birrette fresche.

    «Nun credo proprio, Giuggio è amico mio e quindi è er testimone mio!»

    Replicava Enrico seguendola con la testa che accompagnava la voce.

    «Giuggio de chi vòi essere il testimone?»

    «De tutti e due!»

    «Bravo Giuggio!»

    Tutti sapevamo che Enrico e Pallina si sarebbero sposati, e infatti così fecero, con la benedizione di tutto il quartiere. Quel giorno mancavo soltanto io.

    Suona il citofono.

    «Scenni, sto sotto casa.»

    La prima volta che ci siamo seduti al baretto c’avremo avuto si e no dieci anni. Imitavamo gli adulti sorseggiando gazzosa e chinotto. Tutto nacque da un’idea di Pallina: Giuggio ce pijamo quarcosa al bar?

    Ma nun c’avemo ‘na lira!

    Così da un giorno all’altro, ostinati, risoluti e seri come contabili di una banca tedesca, cominciammo a risparmiare, a mettere via lire su lire. Prima cinque, poi altre cinque e sono dieci e alla fine dopo settimane di rinunce e sacrifici, il nostro patrimonio, incredibile a dirsi, ammontava a duecento lire, due pezzi da cento, due monete in metallo scuro: du piotte, una fortuna!

    Mostro che ce porti tre gazzose!

    No, io vojo un chinotto! dice Pallina

    Allora Mostro, due gazzose e un chinotto.

    Er Mostro era tutti denti da coniglio, naso aquilino e tre peli di cane in testa. Brutto come un dispiacere, da qui il nome Mostro, ma simpatico ed estremamente buono.

    Fallo esse pure stronzo, nu je rimane che buttasse dar Pontile!

    Da dietro i Ray Ban scuri da pilota – montatura in oro, lenti change color arrivati direttamente dagli Stati Uniti – il Mostro, ci guarda e dice: Che ve porto?

    Mostro noi volevamo...

    Ma il Mostro si gira e se ne torna dentro al bar, risucchiato dalla nebbia isterica della macchina del caffè.

    Ma che s’è incazzato?

    Boh...

    Vabbè ma che avemo detto?

    Il nostro progetto, appena avviato, preparato con tanta passione, sostenuto a forza di duri sacrifici, sta già per fallire. Spaesati, pieghiamo il capo e smettiamo di parlare. Nemmeno tre minuti, tanto è passato, forse quattro ed ecco che il caro Sergietto, divertito come un fratellone maggiore, affettuoso come un vecchio zio, l’occhiale americano tirato sulla fronte, si presenta al tavolo con un bel vassoio d’acciaio adornato di cucchiaini e tovaglioli, limone a fettine dentro un piattino e tre bicchieri lunghi, da bibita, pieni di un liquido accuratamente colorato con E123, cancerogeno, zuccherato fino all’inverosimile, che sapeva di Montedison e di acqua del Po, ma buono da morire. Felici come paesani la domenica mattina, sorseggiamo questo nettare divino, con una calma da intenditori.

    La maestra Silvia è molto brava... diceva Pallina

    Solo che a volte quando parla non si capisce.

    Perché è cispadana!

    E giù a ridere... Da quel giorno decidemmo che, una volta al mese, ci saremmo seduti per il nostro momento di piacere al bar. Dal quel giorno diventammo attenti risparmiatori, oculati nello spendere, accorti nell’investire, così da poter dire. Mostro che ce porti altri tre bicchieri.

    Stavolta però al baretto c’eravamo solo noi due.

    «Pallina...»

    Biascica Richetto

    «Pallina che?»

    Dico io.

    «Pallina è sparita.»

    Tutti sapevano che Enrico e Pallina prima o poi si sarebbero sposati, con il favore delle stelle, con la benedizione di tutto il quartiere. Io purtroppo non ho potuto fare da testimone a nessuno dei due. Ero all’estero, per lavoro. La vita è così. Diceva sempre nonna Elena: L’omo propone e Dio dispone.

    Un giorno d’inverno, mio malgrado, ho lasciato casa e non ho fatto più ritorno. Sono successe delle cose, cose dolorose che andrebbero raccontate ma che nessuno vuole ascoltare, così le ho tenute per me e da allora vivo come una gondola di rifiuti che galleggia tra i canali di Venezia senza porto. Mi capitava di passare per casa poche volte l’anno e ogni volta, al mio arrivo, trovavo ad accogliermi l’astio di papà e l’indifferenza dei miei fratelli. Forse lo meritavo. Resistevo giusto tre giorni, il tempo necessario a farci sanguinare l’anima, poi come un fantasma, me ne tornavo mesto, da dove ero venuto.

    Sono successe cose, che se ci pensi di cose ne accadono in continuazione, basta che accendi la tv e ascolti il notiziario delle venti. Di cose ne senti, di cose ne accadono, un'astronave che manca la luna, due nazioni in guerra per un pezzo di deserto sassoso, Claudio Villa che vince Canzonissima. Di cose ne accadono, ogni giorno e ogni giorno di nuove. Cose reali, che non significa vere. Fiabe per adulti, raccontate la sera, appena dopo il quiz di Febo Conti, poco prima del film con Aldo Fabrizi e la Magnani, prima dei balletti smodati di Don Lurio. Nonna Elena appiccicata allo schermo di vetro convesso, occhiali calati sul naso e bocca aperta, ipnotizzata e persa ripeteva ogni sera: Ma tu senti che robba... ma che s’ha da sentì!.

    Fiabe per adulti, niente di più, raccontate la sera poco prima di Carosello, favole da grandi che confondono vita e spettacolo, che colpiscono in pieno viso, ma non lasciano tagli evidenti, almeno per ora, che domani c’è già un’altra storia da narrare.

    Sono le cose che accadono a te, quelle sconosciute al resto del mondo, quelle di cui nessun telegiornale si occupa, le cose vere, non reali che lasciano segni, che portano sventura e procurano male.

    Seduto su una sedia di latta guardo mio padre passare, spento, avvilito mentre sputa bestemmie e cubetti di ghiaccio sul mondo.

    Usciamo pa' che ho bisogno di te...

    Se solo avessi più coraggio direi: Usciamo pa', magari parliamo che ci fa bene.

    Ma anche io come lui, vigliacco e impaurito, so solo sputare bestemmie e cubetti di ghiaccio. A volte seduto a quel cazzo di baretto miserabile, vorrei che Enrico mi ascoltasse anche solo per un attimo, che la smettesse di rompermi i coglioni con la sora Maria e Pallina e mi chiedesse: Giuggio come stai? Giuggio ma se po’ sapè dove cazzo vivi?

    Ho bisogno di raccontare, ne avrei tanto bisogno, per rimanere in vita, per provare a resistere alla tentazione di sparire, di non essere più niente. Le storie, anche se inventate, a volte riempiono, proteggono dalla morte, dalla fine del mondo. Ma nessuno chiede, nessuno domanda e le parole, appena proferite, mi si sfaldano in bocca come fossero di sabbia fine mentre i denti di gesso, poggiati su una nera lavagna di ardesia, producono il tipico sibilo da contatto, quel fischio orribile che fa sanguinare le orecchie, che accappona la pelle e allora me ne sto zitto, quieto, come sempre a sopportare gli sguardi di biasimo, colmi di giudizio, più spesso indifferenti.

    «Dovemo parlà» dice Enrico.

    «Oh ma sò appena arrivato!»

    «Beh scenni che dovemo parlà!»

    Ma io non voglio parlare o meglio, voglio parlare, ma della maestra Silvia, del Chinotto e della Gazzosa, anzi chiama er Mostriciattolo, il figlio del Mostro, che Sergietto s’era comprato una casetta ai Castelli e con la moglie s’erano ritirati in campagna, e facciamoci portare da bere, ma non parliamo, non serve, che tanto Pallina, vedrai che torna. E poi non è più tempo di parlare che di tempo ne è passato e che vogliamo fare, rimettere bocca su tutto, farci male con le mani nostre, aprire porte che ormai è meglio lasciare chiuse.

    «Riche' damme retta, va bene così. Io lavoro al Nord e alla fine un po’ de serenità l’ho trovata, per carità, lontano da casa nun è mai piacevole, però nun me posso lamentà. Voi siete sposati, siete felici, l’attività te va bene, Pallina sò che lavora, pensa che è solo una piccola crisi, un momento de affaticamento. Aho, quella poveretta s’è fatta un mazzo tanto all’università, c’avrà bisogno de riprende fiato o no! Vedrai che presto le cose se chiariranno e tutto se rimetterà in ordine».

    Ma sono solo parole pronunciate con superficialità, dette così, giusto per placare gli animi, parole senza onestà e senza prospettive, messe in mezzo per prendere tempo, sperando che qualcosa accada, sperando che la cosa che teniamo tra le mani, una storia acconciata, confusa, arrabattata, senza capo né coda, torni a posto da sé, faccia ordine da sola, si aggiusti. Ma quella che teniamo tra le mani, acconciata, confusa, arrabattata, è una storia senza verità, una storia senza ordine appunto e come tale, non ha alcun valore come pure i suoi inaffidabili protagonisti, spaventati dalle proprie ombre distorte, minuscole comparse che continuano senza alcun imbarazzo ad omettere e manipolare eventi, a creare disordine e caos, impauriti tutti, da quanto potrebbe accadere.

    «No Giù, io devo sapè!»

    Allora lo guardo, seduti, gambe aperte, sulle sedie scomode del bar der Mostro, con un senso di rabbia ma anche di tenerezza per questa sua incapacità di accettare la complessità della vita con le sue sofferenze e le tante fragilità. Non lo fa per egoismo né tanto meno per mancanza d’interesse, Enrico è buono, un pezzo di pane, un ragazzo pulito, semplice, anche ingenuo, forse un po’ viziato dalla madre e da quell’energumeno del padre che avendolo avuto in tarda età lo ha sempre considerato un dono del cielo.

    Enrico, come me e Pallina, è nato nel 1960, figlio desiderato della sora Annarella e der sor Alfredo. Il sor Alfredo era un omone di due metri, conosciuto nel quartiere per il negozio di frutta e verdura che mandava avanti proprio insieme alla moglie.

    L’insegna del negozio era di legno con una scritta nera a vernice, abbastanza pesante: alfredo e anna frutta .

    Dio mio! Ricordo come fosse oggi, il primo giorno di scuola, prima elementare anno 1965/ 66, il primo vero rito misterico, il passaggio iniziatico dalla famiglia alla società civile. Il direttore didattico, Maestro Dinolfi, in qualità di pubblico ufficiale e membro autorevole della comunità scolastica, ci accoglie in cortile con tanto di nastrino e coccarda tricolore sul petto, a nome delle istituzioni nazionali. Un breve, formale saluto per conto del Presidente della Repubblica onorevole Giuseppe Saragat, un richiamo al comune senso di responsabilità, un cenno al futuro da costruire tutti insieme, quindi tronfio e impettito, sostenuto da fragorosi applausi, ci affida, noi piccole esistenze in evoluzione, nelle solide mani della maestra designata che, anche lei, troppo giovane, impacciata, sovrastata dall’onere, dopo averci ricondotto in classe, ci invoca, con voce flebile, uno per uno, per cognome, come figli di un popolo in cammino, verso un domani da realizzare, conferendoci, de facto , lo status di studenti della Repubblica Italiana. Diligenti e fieri alziamo la mano con vigore, consapevoli dell’ardua sfida urlando con una certa enfasi presente. Poi Pallina, insospettita dalla insensata omissione, solleva la manina tremula e con un cinichetto di voce dice: Maestra s’è scordata de chiama Erico.

    Enrico chi?

    Dice la maestra accennando un sorriso.

    Maestra, Erico Frutta!

    La maestra Silvia, al suo primo incarico importante, lontana chilometri da casa, colta di sorpresa, emotiva, fragile, ansiosa, indebolita dalle sue stesse paure, spaventata dal suo stesso coraggio, ricontrolla ossessivamente più volte il registro, in preda al panico lancia in aria stropicciati fogli carta e infine, alle corde, prova a chiedere ordine.

    È vero, maestra, Erico, manca Erico, Erico Frutta.

    È il caos, il sorriso adesso è un ghigno di terrore. La maestra, confusa è presa alla sprovvista. Impaurita, con lo sguardo allucinato apre la porta dell’aula e di corsa, con la disinvoltura e la naturalezza di una ragazza di campagna, cerca di raggiungere la segreteria didattica. Dal corridoio sentivamo ripetere una cantilena drammatica: Primo giorno di scuola, primo problema, manca un bambino, disastro...

    E dietro come un contro canto feroce, a rendere più inquietante la scena, la voce tutta di gola di Tecla, la bidella con l’occhio sguincio, che in un dialetto del basso Lazio urlava: Maestre nun zi core nel coritojo, mica stamo a lolimbiate.

    Enrico stava zitto, immobile, paonazzo, rosso come il dentro di un cocomero.

    Eppure durante l’appello, aveva, come tutti noi, alzato la mano e come ognuno di noi, risposto con entusiasmo, pieno di amor patrio, alla maestra e alla nazione: Presente! quando era stato chiamato come Enrico Fioretti.

    Nessuno però ricordava di averlo sentito. Giuliano Cupellini, Pietra Paola Ferri, Enrico Fioretti... Nessuno! Potrebbe sembrare un fatto strano, da libro dei misteri, da enciclopedia dei fenomeni occulti, se non fosse che per tutto il quartiere la famiglia Fioretti, amata e rispettata, perché famiglia di gran lavoratori, gente onesta che si spezzava la schiena, era meglio conosciuta come: i Frutta.

    Bello de mamma vamme a comprà un chilo de patate dar sor Arfredo Frutta oppure devo passà da Annarella Frutta a pija un po’ de mele. Enrico, in quanto figlio unigenito, era dunque Frutta per discendenza, per casato: Erico Frutta.

    E adesso? E adesso con la testa rintanata tra i gomiti e il colletto del grembiulino azzurro, Richetto se ne stava in un angolo, in silenzio, cupo, a meditare, come tutti noi, mocciosetti, impegnati a fare i conti con i primi grandi misteri della vita, protetti da un sole divertito, poggiato mollemente sui banchi di una classe che sapeva di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1