Il gelido re del deserto: Harmony Collezione
Di Kate Walker
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Info su questo ebook
Kate Walker
Autrice inglese originaria della regione di Nottingham, ha anche diretto una libreria per bambini.
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Anteprima del libro
Il gelido re del deserto - Kate Walker
successivo.
1
«Felice anniversario!»
Nabil bin Rashid Al Sharifa, sceicco di Rhastaan, levò alto il bicchiere per un brindisi, indirizzando l'omaggio alla coppia sua ospite. A dispetto del passato, i due festeggiati erano comunque i suoi migliori amici.
«Congratulazioni per questi dieci anni di vita felice insieme.»
Parole che gli rimasero in gola e uscirono quasi a fatica. Per i suoi amici erano stati dieci anni felici, quanto a lui, mai e poi mai avrebbe accettato di riviverli.
«A Clemmie e Karim» riprovò.
L'elegante donna bruna in abito scarlatto e oro, regale come una regina, si girò e gli rivolse un caldo sorriso. Al suo fianco, lo sceicco Karim al Khalifa, in abito da cerimonia appena un po' più sobrio di quello di Nabil, ma altrettanto sontuoso, alzò il suo bicchiere per onorare il brindisi dell'amico. Un festeggiamento che nessuno avrebbe previsto, poco più di dieci anni prima, quando Clemmie era ancora la moglie designata per Nabil. Poi, l'impetuosa passione per la giovanissima Sharmila aveva spinto Nabil a ripudiare la fidanzata e a sposare al suo posto la nuova amante, che era incinta. Nessuno, allora, si sarebbe immaginato di festeggiare a palazzo dieci anni di vita felice insieme di Clemmie e Karim.
Allietati dai figli.
Nabil posò il bicchiere sul tavolo più vicino e il cristallo tintinnò. Anche se non gli avessero dato la notizia, sarebbe stato impossibile non notare il nuovo arrotondamento del ventre di Clemmie sotto la seta pesante del vestito. Clementina era sempre stata una bellezza, ma ora la nuova gravidanza la rendeva splendida.
«Congratulazioni» ripeté Nabil, sforzandosi di sorridere.
Naturalmente era felice per loro. Davvero, dal profondo del cuore. Ma al tempo stesso non poteva fare a meno di confrontare la loro vita con la propria.
Non c'erano speranze che la sua diventasse a breve un'esistenza altrettanto ricca e felice.
Dieci anni prima, al loro matrimonio, lui aveva creduto di avere tutto: una bella moglie, un figlio in arrivo, un futuro sereno e luminoso per il suo paese. Era stato uno sciocco. Giovane, cieco e avventato. Aveva dato retta solo alla sua vena ribelle, e in tal modo si era condannato a un futuro ancora più buio.
«Dieci anni magnifici!»
Karim lo disse a voce così alta da raggiungere ognuno degli illustri ospiti presenti nella stanza, ma gli occhi erano puntati solo sulla moglie. Era come se entrambi fossero chiusi in uno spazio privato, a vivere un momento di emozione perfetta.
L'attimo venne interrotto da un'irruzione. Grida di bambini, piccoli passi che si rincorrevano sul marmo del salone.
«Adnan, Sahra...» La voce di Clemmie era dolce anche in quel tentativo di rimprovero. «È così che un principe e una principessa si comportano in un evento pubblico?»
«Non è un... vento pubblico» dichiarò Adnan, dall'alto dei suoi cinque anni compiuti. «È la festa per mamma e papà!»
Un sorriso passò tra Clemmie e Karim, lui abbassò la mano per arruffare i riccioli neri del figlio. L'affetto che li legava era qualcosa che Nabil non aveva mai sperimentato con suo padre, un uomo freddo e distaccato che a malapena sapeva il suo nome.
«È anche un evento pubblico» ribadì Karim, pacato. Nabil provò l'impulso di girarsi verso la porta e andarsene, ma era il padrone di casa...
Resisti...
Incrociò per un attimo lo sguardo caldo di Clemmie. La vide fare un cenno impercettibile, come per indicargli le grandi porte affacciate sulla terrazza. Lei aveva intuito i pensieri che gli agitavano la mente e lo incoraggiava a prendersi un attimo di libertà, una boccata d'aria.
«Voi due non dovevate cantarci una canzone speciale?»
Con abilità, Clemmie aveva focalizzato l'attenzione di tutti sui bambini, distogliendola da Nabil.
Lui ringraziò mentalmente la donna che un tempo suo padre aveva scelto per lui, e che invece era diventata una vera amica, e colse l'occasione per uscire sulla grande terrazza di marmo.
La brezza fece ondeggiare la tunica da cerimonia mentre il buio della notte veniva rischiarato appena dai primi raggi della luna che si affacciava all'orizzonte. Nabil prese fiato, e a lunghi passi raggiunse la balaustra, per guardare la distesa di luci che si stendevano al di sotto delle mura del palazzo. Nelle case, la sua gente si riposava dopo una lunga giornata di lavoro, le madri mettevano a letto i bambini, con il bacio della buonanotte.
«Dannazione!»
Senza accorgersene aveva stretto la mano a pugno. Tutto, quel giorno, congiurava per ricordargli quello che mancava nella sua vita, eppure un tempo aveva pensato che sarebbe bastato allungare la mano per avere ciò che voleva. Con un gesto ormai diventato abituale, Nabil si passò la mano sullo zigomo sinistro, dove una lunga cicatrice era nascosta appena da un velo di barba. Ogni volta che si guardava allo specchio vedeva in quell'ombra l'impronta di Caino.
Un suono leggero, inaspettato nel buio, gli ricordò che si trovava allo scoperto. Con un passo tornò indietro, nell'ombra.
Forse era stato solo effetto dell'immaginazione?
Il suono si ripeté, alla sua sinistra. Nabil girò la testa di scatto, mandando all'aria i pensieri. Chi diavolo...?
«Altezza.»
La voce era bassa, e tradì un pizzico di apprensione. Una donna, e questo avrebbe dovuto rassicurarlo. Qualcosa, però, in quella voce, gli riportò alla mente una serie di ricordi che avrebbe voluto sepolti per sempre. Esperienze che gli avevano insegnato come non dovesse mai fidarsi di nessuno, uomo o donna che fosse.
«Chi sei? Mostrati.»
Si udì un fruscio e un rumore di passi leggeri sul marmo. Alla luce della luna comparve un viso pallido incorniciato da capelli bruni, una figuretta snella avvolta in un mantello che le copriva anche il capo.
Per un attimo lui si sentì fermare il cuore. Trattenne il fiato, e il nome gli sfuggì senza quasi pensarci.
«Sharmila?»
Non credeva nei fantasmi, eppure c'era qualcosa...
«Vi chiedo perdono, sceicco.»
La donna si toccò la fronte e chinò il capo in un inchino di rispetto e sottomissione. Il gesto ebbe due effetti. Il primo è che diffuse nell'aria una folata di profumo, di fiori di gelsomino e sandalo, misterioso e sensuale. Un profumo che risvegliò all'istante i sensi di Nabil, per un istinto che non c'entrava nulla con la difesa, anzi. Inspirò, e gli sembrò che quel profumo gli fluisse nelle vene come un vino inebriante. Sbatté le ciglia per schiarire la vista. E fu allora che notò un secondo particolare. Il dito mignolo della ragazza sembrava leggermente disallineato, come per evidenziare una piccola frattura.
Da qualche parte, nella memoria, riaffiorò un ricordo. Aveva già visto un particolare del genere. Ma dove? E quando?
La donna gli parlò di nuovo, riportandolo al presente.
«Perdonatemi, Altezza. Non immaginavo che ci sarebbe stato qualcun altro qui fuori... Pensavo che nessuno mi notasse.»
Aziza si sentì tremare la voce. Avrebbe dovuto immaginare che rischiava di essere vista. Lo sceicco Nabil aveva dettato regole molto precise e severe, per la sicurezza, e non si poteva dargli torto, dopo quello che gli era accaduto. Peccato che, a un certo punto, il frastuono della festa le fosse risultato insostenibile. Quasi come guardare sua sorella Jamalia flirtare con tutti gli scapoli presenti, nonostante l'occhio vigile dei suoi genitori.
Così aveva scelto di cercare un posto dove stare in disparte, e smettere di recitare la parte dell'erede di riserva. Del resto, suo padre si aspettava appunto che lei si tenesse in disparte, al pari di una domestica. Al massimo, il suo ruolo era quello di chaperon. Peccato che Jamalia non la volesse con sé, e che lei avrebbe preferito trovarsi in qualunque altro posto dell'universo, tranne che con sua sorella. Non avrebbe neppure voluto venire alla festa, ma il padre aveva insistito. Chiunque avesse un nome, aveva detto, non poteva mancare alla cerimonia o la sua assenza sarebbe stata notata.
«Non la mia» aveva commentato Aziza, sottovoce. Sua madre l'aveva fulminata con lo sguardo. Così, dopo aver inghiottito le proteste, lei aveva indossato il vestito rosa che le era stato assegnato e aveva seguito la famiglia nel grande palazzo dorato.
Jamalia aveva sicuramente pensato che odiasse l'idea di farle da chaperon. Sapeva bene che la sorella non era mai del tutto a proprio agio, in compagnia maschile. Ma c'era di più.
E ora, il motivo di tanta riluttanza era proprio lì davanti ai suoi occhi, alto e bellissimo, con il viso in controluce sotto i raggi della luna.
Era abituata a stare nella sua ombra, pensò. Lo aveva visto chinarsi su di lei dall'alto fin da quando, a dodici anni, Nabil era arrivato in visita a casa sua ed era smontato da cavallo con un balzo. A lei, che di anni ne aveva cinque, era sembrato altissimo e regale.
«Chi sei?» le aveva chiesto, gettando le redini a uno stalliere.
Le stesse parole di poco prima, tanto che era difficile distinguerle dai ricordi. Lui serrò le labbra e Aziza capì che doveva rispondergli.
«Sono...»
Una serva? Un'ancella? Il vestito rosa era uno di quelli smessi da Jamalia. «Andrà benissimo per Zea» aveva detto il padre. Perché non era certo lei quella da esibire davanti allo sceicco nella speranza di un matrimonio vantaggioso.
«Sono... al servizio di Jamalia, vostra Altezza.»
D'istinto allargò la gonna e abbozzò un inchino. Sperò che, mostrandosi deferente, sarebbe riuscita ad alleggerire la tensione che sentiva arrivare a ondate dall'uomo che aveva di fronte. Sua madre temeva sempre che lei si cacciasse in qualche situazione imbarazzante, e ora sembrava proprio che avesse ragione. Imbarazzante per le mire della famiglia, si capisce.
«Il tuo nome?»
«Zea, vostra Altezza.»
L'istinto le suggerì di dare il nomignolo che tutti usavano in casa. Così, lui non l'avrebbe immediatamente associata ai suoi genitori e alle loro manovre per innalzarsi nella scala sociale. Impossibile non ricordare con disappunto la genesi di quel diminutivo.
«Aziza eh?» aveva detto il padre. «Un nome che significa la più bella per una cosina così piccola e insignificante? Guardiamo le cose in faccia, la nostra secondogenita non potrà mai gareggiare in bellezza con la sorella maggiore.» E così, le aveva abbreviato il nome in Zea.
«Avevo bisogno di un po' d'aria. Vi chiedo scusa...»
Lui tagliò corto con un cenno spazientito e Aziza si ritrasse, confusa. Era stata imprudente a farsi sorprendere lì, per non parlare del rischio di diventare un bersaglio per gli uomini della sicurezza. Se le cose avessero volto al peggio sarebbe stata solo colpa sua.
Forse avrebbe dovuto dargli il suo vero nome, ma il cuore si ribellò anche solo all'idea. Da quando, anni prima, il dodicenne Nabil aveva dato la sua attenzione a lei, e non a Jamalia, Aziza gli aveva donato il proprio cuore. Per giorni, da quel momento, lo aveva seguito passo passo come un cucciolo, sperando in un altro istante di attenzione. L'adorazione infantile non si era certo spenta con gli anni, nessun altro aveva mai risvegliato in lei emozioni altrettanto assolute e potenti.
Ora lo aveva riconosciuto all'istante, nonostante la barba scura che gli copriva il mento. Ma qualcosa, in fondo all'anima, le aveva impedito di rivelargli il proprio nome. E se lui avesse dimenticato? Se l'avesse fissata con lo sguardo vacuo, perché non gli veniva in mente nessuna Aziza conosciuta in passato? Suo padre avrebbe giudicato ridicolo sperare di essere riconosciuta, avrebbe senz'altro riso di lei. Ma quella piccola speranza nascosta in fondo al cuore le impedì di esporsi troppo.
«Se volete scusarmi...»
Si girò in fretta verso le porte del terrazzo, per rientrare, ma lui la fermò con la forza della propria voce.
«Non te ne andare!»
Nabil non capì che cosa lo avesse spinto a trattenerla. La sua anima ferita aveva bisogno di silenzio e solitudine, dunque perché avrebbe dovuto volere qualcuno con sé? Eppure, vedendo quello scricciolo di donna così impaziente di sfuggirgli, lui si era sentito all'improvviso troppo solo.
«Vostra Altezza?»
Neanche lei si aspettava di essere trattenuta. Fu chiaro da come si girò di scatto. Alla luce della luna, i suoi occhi sembrarono ancora più grandi e profondi.
«Non andare via. Rimani un