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Dottor proteus
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E-book208 pagine2 ore

Dottor proteus

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Info su questo ebook

Otis Bonviso è un archeologo subacqueo, ingaggiato suo malgrado per recuperare alcune opere d’arte in un Cessna inabissatosi nel mare di Malta. Giovane e avventuroso, soffre, tuttavia, di personalità multiple che emergono nei momenti cruciali della sua esistenza. Fino ad oggi non ha avuto difficoltà a conviverci, anche perché lo hanno sempre aiutato nei momenti di difficoltà. C’è Obi, abile e intelligente; Kairo, forte e coraggioso; Rollo, grasso e compagnone; Zeppo, magro e brontolone; persino Tarita, un conturbante trans. Una volta a Malta per assolvere il suo impegno, il giovane Bonviso e la bella Kyra Lantos, capitano del peschereccio, che lo accompagna nelle esplorazioni subacquee, si trovano coinvolti in una pericolosa guerra tra contrabbandieri. Per salvare se stesso e Kyra, la ragazza della quale si è innamorato, deve ricorrere alle sue straordinarie facoltà e ad altre delle quali neppure sospetta l’esistenza. La soluzione è nella storia dell’antica civiltà maltese e, soprattutto, in fondo al mare, dove tra i ruderi di un tempio megalitico sommerso, i due giovani troveranno la salvezza e faranno la più incredibile delle scoperte.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2013
ISBN9788868550424
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    Anteprima del libro

    Dottor proteus - Alberto Levi Kessler

    Il tempio sommerso

    Nessuno dei pochi avventori che quella sera di fine aprile si trovavano ad occupare i tavoli dell’Old Venice, un locale tipico del porto di Marsamxett della Valletta, avrebbe mai sospettato che la figura trafelata materializzatasi sulla soglia della trattoria fosse quella di un noto archeologo maltese. L’uomo, avanti negli anni ma ancora prestante, sembrava essere appena uscito da un bagno: capelli ancora gocciolanti, appiccicati disordinatamente sul cranio, sandali di gomma infradito, camicia bianca e pantaloni grigi mostravano larghe chiazze d’umidità che davano l’impressione che si fosse rivestito in fretta e furia senza nemmeno essersi asciugato. Dopo essersi guardato attorno spaesato con l’aria di chi è alla ricerca di qualcuno, la sua espressione sembrò illuminarsi. Si mosse a passi svelti lungo il corridoio centrale, in direzione del tavolo attorno al quale sedeva sir Rufus Houseberry, curatore del Museo nazionale d’archeologia della Valletta, e la sua famiglia: la moglie Carlotta e le due figlie, Virginia, di quattordici anni e Lucrezia, di dieci. L’esimio curatore era intento in una delicata operazione: spinare una grossa spigola arrosto.

    Dottor Houseberry, l’ho trovato!, farfugliò l’uomo, con voce strozzata, appoggiandosi al bordo del tavolo con entrambe le mani.

    Dottor Lentini, Jacob, mi fa piacere vederla. Prego, si accomodi con noi, invitò il grand’uomo con un gesto teatrale del braccio per indicare il posto a capotavola. Prenda una sedia e mi racconti che cosa ha trovato. Vuole pranzare con noi?.

    Lentini fece segno di no con il capo. Si girò verso il tavolo accanto occupato da due uomini concentrati nel gustarsi una frittura di pesce. Nonostante l’aria calda della giornata, indossavano un completo nero con camicia bianca senza cravatta. Calcata sul cranio portavano una coppola con la visiera abbassata. Senza meravigliarsene più di tanto, l’anziano archeologo, con le mani sulla seggiola vuota del tavolo, lanciò loro uno sguardo interrogativo, ricevendone in cambio un’alzata di spalle. Con un cenno di ringraziamento, Lentini tornò a girarsi, accomodandosi al tavolo di sir Rufus.

    Prima di raccontarmi tutto, però, toglimi una curiosità, lo accolse Houseberry con un sorriso quasi di compatimento, spiegami perché sei scappato in fretta e furia dalla vasca da bagno.

    La battuta suscitò l’ilarità della moglie e delle figlie. Lo stesso Lentini, osservando le condizioni del proprio abbigliamento, si sentì obbligato a convenirne. Si mise a ridere anche lui.

    Domando scusa, dottor Houseberry, spiegò poi appena ritornò la calma. Ero così eccitato che, appena sono sceso dal battello, ho indossato i primi abiti a portata di mano.

    Deve esserle capitato davvero qualcosa d’importante se è venuto fin qui nel giorno dedicato al Signore, replicò il curatore del Museo della Valletta.

    Questo è garantito!, ribatté a sua volta Lentini con gli occhi lucidi di eccitazione.

    Mi dica, allora, non mi faccia stare sulle spine.

    Ancora una volta le figliole Houseberry scoppiarono a ridere: era chiaro il riferimento alle spine della spigola.

    L’ho trovato!.

    È la seconda volta che me lo ripete. Mi dica una buona volta che cosa ha trovato, s’innervosì Houseberry, che mal sopportava i continui giri di parole.

    Il tempio sommerso.

    Il curatore cadde dalle nuvole.

    Quale tempio?, domandò sorpreso.

    Lei sa bene qual è la mia tesi circa il maremoto che distrusse parte del territorio maltese in epoca preistorica.

    Che c’entra questo con il tempio?.

    C’entra eccome, dottor Houseberry. A un paio di chilometri da Sliema, a circa venti metri di profondità, ho scoperto un tempio megalitico sottomarino.

    La notizia non parve turbare eccessivamente il curatore, il quale continuò con cura certosina a diliscare il pesce arrosto.

    Interessante.

    In quel tratto di mare ho trovato i rottami del Cessna, caduto la scorsa estate. Si ricorda l’incidente, vero? Pensi, l’aereo si è arenato sul plateau davanti all’ingresso del tempio.

    Mi compiaccio con lei, Jacob. Adesso, però, me ne dia le prove.

    Lentini fissò su Houseberry uno sguardo sconcertato.

    Che prove? Non le basta la mia parola?.

    A me basterebbe anche, ma per l’opinione pubblica e, soprattutto, per gli accademici, la sua parola non è sufficiente. Mi porti le foto del sito subacqueo e le assicuro che organizzeremo subito una conferenza stampa. Daremo la massima pubblicità possibile al ritrovamento.

    Le parole del curatore non provocarono alcuna reazione da parte dell’archeologo. Protraendosi il silenzio, Houseberry sollevò gli occhi dalla delicata operazione di deliscamento per scrutare l’interlocutore.

    Ha capito, Jacob? Mi porti le fotografie, la planimetria, e ne riparleremo, insistette e poi aggiunse, tagliando corto: Adesso, sia gentile, mi lasci desinare con la mia famiglia. È domenica anche per noi, lo sa?.

    Lentini non sollevò obiezioni. Tirò indietro la sedia per alzarsi da tavola e salutò in maniera compita la signora Carlotta, le bambine, infine il curatore.

    Bene, dottore, accetto il suo consiglio, disse con un mesto sorriso. Domattina avrà le foto del tempio sommerso sulla sua scrivania. Almeno così mi crederà.

    Houseberry non rispose. Con un sorriso di circostanza accomiatò il suo ospite che, più lentamente di quando era arrivato, si avviò in direzione dell’uscita. Nessuno fece caso al fatto che anche i due uomini con la coppola avevano lasciato il locale sulla sua scia.

    Lentini si diresse a passo spedito lungo il molo dov’era parcheggiato il Nettuno, strano nome per un luzzu, caratteristico peschereccio maltese variopinto e decorato con gli occhi di Horus sulla prua. Si ritenne fortunato nel trovare il capitano del battello ancora a bordo.

    Si rivolse alla bella ragazza bionda abbigliata con un paio di calzoncini di tela, camicia celeste con i lembi annodati sotto il seno a liberare l’ombelico e scarpe da ginnastica bianche. Per qualche attimo si fermò ad ammirarle le gambe lunghe e affusolate.

    Kyra, se sei libera, vorrei affittare il tuo natante anche per questo pomeriggio. È possibile?.

    Kyra Lantos, capitano del Nettuno, si rivolse interrogativa al suo secondo, il tunisino Ben Hassim.

    So che è domenica, Ben, aggiunse precipitosamente Lentini. Di’ al tuo capitano che le raddoppio il costo del noleggio.

    Ben Hassim annuì con un sorriso che mise in mostra l’arcata superiore con due denti mancanti.

    Va bene, professore. Il capitano ha detto che ci sta. Salga pure a bordo. Si salpa immediatamente.

    Intendiamoci, Jacob, lo accolse Kyra, le concedo non più di mezz’ora di esplorazione subacquea. Sta avvicinandosi una procella che non promette nulla di buono.

    Non preoccuparti, portami dove siamo stati stamani. Desidero soltanto scattare delle foto. Non ci metterò molto.

    Ok, voglio crederle. Kyra si girò verso la plancia portandosi le mani a coppa vicino alla bocca. Avanti tutta, zio Ben. Si parte!.

    In poco meno di mezz’ora il battello raggiunse l’area di ricerca. Il tempo della traversata fu occupato dall’archeologo nell’indossare la muta, le bombole e nel magnificare lo straordinario ritrovamento del tempio megalitico sotto le acque del Mediterraneo.

    Straordinario, dottor Lentini, si entusiasmò Kyra, sono felice per lei. Finalmente, questa è la prova che cercava da tutta la vita!.

    Pronto, Jacob?, intervenne Ben Hassim, indicando la superficie mossa del mare, siamo sul punto da te indicato.

    Bene, signori, ci vediamo, salutò l’archeologo con gli occhi scintillanti di euforia. Si adattò la maschera sul volto. Afferrò la macchina fotografica subacquea che Kyra gli porgeva. Fece ancora un gesto di saluto, prima di lasciarsi affondare nelle acque del mare.

    Fu l’ultima volta che Kyra e Ben Hassim lo videro.

    Una proposta equivoca

    Chi era poi questo Capitan Kidd? Un pirata, giusto?.

    Un bucaniere, Alice, che ha solcato l’oceano in lungo e in largo razziando e depredando.

    Ha pagato con la morte le sue razzie, no? Da quanto ne so, è stato impiccato sotto un ponte del Tamigi, insistette Alice.

    In questo contesto importa poco discutere della morale di un pirata, vero professor Bonviso?.

    "Hai ragione, Luigi. Ai miei occhi d’archeologo interessa di più cosa ha lasciato a bordo della Quedach Merchant", replicò Otis sorridendo.

    Forzieri colmi di dobloni, oro, argento, pietre preziose…, enumerò un altro studente con aria sognante.

    Il sorriso di Otis si trasformò in risata.

    Non capite, ragazzi. A un ricercatore subacqueo fanno più gola le suppellettili, gli arredi, le attrezzature e gli armamenti di una nave pirata del diciassettesimo secolo. Lì sotto, nelle acque di Santo Domingo, c’è un vero e proprio museo!.

    A parte tutto, morirei di paura a tuffarmi da sola nel buio degli abissi marini per esplorare i resti di un relitto, commentò Alice con una smorfia.

    Di’ la verità, sogghignò Luigi, voltandosi di tre quarti verso di lei, "temi d’incontrare il capitano dell’Olandese volante, Davy Jones, con la sua testa di piovra e tutti quei bei tentacoli?".

    Non dire sciocchezze!, ribatté la ragazza risentita. Sto parlando di un altro tipo di paura, quella di non essere all’altezza, di fallire l’obiettivo.

    E qui entrano in gioco le convinzioni, interloquì un altro giovane. Otis Bonviso lo riconobbe per uno studente di psicologia del terzo anno. Si chiamava Alessandro, se non ricordava male.

    Che c’entrano le convinzioni?, ribatté Luigi, se uno ha paura, non c’è convinzione che tenga.

    Sbagli. Quando siamo davvero convinti di qualcosa, è come se impartissimo alla nostra mente il comando di agire come se quel qualcosa fosse oggettivamente vero. Se gestite con efficacia, le convinzioni, ovviamente quelle potenzianti, ci aiutano ad attingere alle risorse più potenti dentro di noi, permettendoci di raggiungere qualunque obiettivo. Il giovane si rivolse a Bonviso che lo ascoltava: Ho ragione, professore?.

    Otis non fece in tempo a rispondere. La porta dell’aula che si apriva per fare entrare gli studenti della lezione successiva, gli troncò sul nascere le parole affiorate alle labbra. Fece un gesto di saluto. Raccolta la sua borsa, seguì la scia di studenti fuori dell’aula. Rispose meccanicamente ai cenni di saluto dei suoi allievi e andò a chiudersi nel bugigattolo che passava per il luogo deputato ai colloqui con i laureandi. Si lasciò cadere a peso morto sulla poltroncina dietro il tavolo ingombro di fascicoli, strappando un gemito alle molle. Gli tornarono alla mente le parole di Alessandro. Non poteva che sottoscrivere il concetto espresso sulle convinzioni. Lui stesso, Otis Bonviso, docente di archeologia subacquea, ricercatore di relitti sottomarini, di anni trentaquattro, era la prova vivente che le convinzioni non si limitano a determinare le emozioni e le azioni umane, ma sono persino in grado di cambiare letteralmente il corpo in un batter d’occhio.

    Da quanto si ricordava, il fenomeno era cominciato presto, a tre o quattro anni di età, quando aveva un nome diverso, un’altra famiglia, e viveva in una cittadina balneare sul Mar Nero, al confine tra la Georgia e la Turchia. I suoi genitori erano scomparsi presto, deceduti in seguito ad un incidente stradale quando era ancora in fasce ed era stato allevato dal nonno materno. A parte le volte che andava a pesca con lui e si tuffava nelle acque profonde del Mar Nero a caccia di conchiglie, il piccolo Otis aveva condotto una vita solitaria, senza amici. Finché non se l’era creato… un amico.

    Obi non era un amico immaginario come quelli che spesso s’inventano i figli unici costretti a vivere in solitudine. Obi era il suo alter ego, con il quale intavolava lunghi dialoghi e inventava giochi fantasiosi e, all’epoca, molto divertenti. Certo era stato bizzarro il suo modo di rappresentarselo. Era accaduto una sera d’estate, al tramonto, davanti alla distesa del mare, calmo e liscio come un olio. Gli ultimi raggi radenti del sole avevano giocato con le lievi increspature dell’acqua ricreando il riflesso della sua fisionomia. All’inizio aveva creduto di vedere il suo viso riflesso nell’acqua, ma non era vero. Sì, aveva gli stessi capelli neri ricciuti, i medesimi occhi vivaci, ma aveva un’aria meno timida. Presto il suo alter ego si era mostrato molto più furbo di lui e con maggiori capacità di stare al mondo. Insomma, era Obi, il suo migliore amico.

    Quando anche il nonno passò a miglior vita, non avendo nessuno al mondo, Otis, grazie ai buoni uffici del sindaco del paese, fu accolto in un istituto d’accoglienza russo, l’Internat n. 47. D’improvviso, s’era trovato in mezzo a tanti altri bambini, alcuni più piccoli, altri più grandi di lui. All’inizio, non essendo abituato a socializzare e ignorando i comportamenti più opportuni da usare per convivere nel modo migliore, si era trovato a disagio. Erano stati momenti difficili che, all’inizio, neanche Obi era riuscito a gestire. Aveva dovuto subire i soprusi dei più grandi e ingoiare umiliazioni, finché dal suo subconscio non era emerso un altro alleato: Kairo.

    Anche Kairo non era molto diverso da lui, forse un poco più robusto e, bizzarria delle bizzarrie, aveva gli occhi grigi. Era saltato fuori nel modo più inaspettato. Quel pomeriggio, dopo le lezioni, – frequentava la scuola elementare – era a caccia di grilli nel parco che circondava l’istituto quando si era imbattuto nei tre peggiori bulletti dell’Internat. Erano il terrore dei bambini più piccoli: arroganti, violenti, sopraffattori, non avevano il minimo scrupolo ad umiliare le povere vittime, costringendole a mortificanti comportamenti.

    Guarda chi c’è, il piccolo Otis, il secchione della classe, lo canzonò Kaishka, il peggiore dei tre.

    Secchiooone! Secchiooone!, gli fecero eco gli altri due, Misha e Timur.

    Otis cercò di accelerare il passo, senza rispondere.

    Kaishka lo prese per una spalla, facendolo voltare.

    Dove credi di andare? Devi pagare il pedaggio.

    Sì! Il pedaggio, sogghignarono i due compari.

    Che pedaggio?, balbettò Otis spaventato.

    Misha, presentagli Oleg, la nostra mascotte, ordinò il capo del terzetto.

    L’interpellato, un biondino allampanato, dalla faccia cosparsa di brufoli, si affrettò ad estrarre dalla tasca del grembiule un rospo gracidante.

    Ecco qui, Otis, dai un bel bacio al nostro rospetto. Può darsi che si trasformi in una bella principessa, invitò Kaishka con una smorfia che era solo una parvenza di sorriso. Dai, non farti pregare, che poi ci divertiamo. Con la principessa, dico. E giù a ridere, imitato dagli altri due.

    Otis girò la faccia davanti al rospo che Misha gli tendeva.

    Dai, non farti pregare, cantilenò Timur. Bacia il rospo.

    Non voglio!, si ribellò Otis.

    Timur, tienilo fermo, ordinò Kaishka. Glielo faremo fare per forza. Nessuno può trattare così Oleg.

    Nel veder convergere su di sé Timur e Kaishka con fare minaccioso, Otis non ci pensò due volte. Con un veloce dietro-front corse via verso l’istituto.

    Dove vai, fifone? Ti prenderemo lo stesso. Non ci sfuggirai, gli gridò dietro Kaishka, buttandosi alle calcagna del fuggitivo, seguito dai due compari, compreso il povero Oleg, sballottato e gracidante tra le dita di Misha.

    Otis s’infilò come una freccia nel portone d’ingresso

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