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Sette delitti sotto la neve
Sette delitti sotto la neve
Sette delitti sotto la neve
E-book320 pagine4 ore

Sette delitti sotto la neve

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Info su questo ebook

Il candore della neve si può all’improvviso macchiare di rosso…

Una nevicata straordinaria a Napoli accompagnata da tre barbari omicidi: tutte le vittime sono marchiate con una lettera sulla fronte. Anche la tranquilla Roccaraso, ai giorni nostri, può mostrare un volto più inquietante di quel che appare a turisti e sciatori. Non vanno meglio le cose sul Gran Sasso, quando le giornate di sole fanno sciogliere la neve e restituiscono il corpo di una donna. Un altro cadavere fa la sua comparsa nella periferia di Roma, improvviso teatro di combattimenti clandestini intorno ai quali ruotano scommesse da capogiro. Sempre a Roma, un uomo e una donna sono in fuga da un  sperimento che ha segnato il loro destino. Nel frattempo, in un ospedale di Bari giunge, a bordo di un’ambulanza bersagliata dalla neve, un uomo vicino a una morte annunciata e misteriosa. Assassini da trovare, misteri per cui si è pronti a uccidere, come quello che avvolge una piccola piramide di pietra nera: un enigma che ha più di 4000 anni, per sciogliere il quale si è disposti a tutto…

Gli assassini a Natale non vanno in vacanza…

Una raccolta di racconti dei migliori giallisti italiani

G. L. Barone - Il mistero della piramide nera
Letizia Triches - A fior di pelle
Diana Lama - Notte di neve
Massimo Lugli - L’ultima sfida
Fabio Delizzos - Il paradosso dei cadaveri identici
Martin Rua - La maschera del diavolo
Francesco Caringella - Una famiglia meravigliosa
LinguaItaliano
Data di uscita16 set 2015
ISBN9788854187863
Sette delitti sotto la neve

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    Sette delitti sotto la neve - Massimo Lugli

    G.L. Barone

    IL MISTERO DELLA PIRAMIDE NERA

    Capitolo 1

    Pré-Saint-Didier, Valle d’Aosta, 28 dicembre. 19:00

    «Uno, due, tre. Prova. Prova. Si sente?». L’attempato oratore si spostò di un passo sul palco e sfiorò ripetutamente il microfono con l’indice. «Se vi avvicinate, direi che possiamo iniziare».

    Si udiva un lieve brusio e la grande sala, un caleidoscopio di legni a vista, travi e parquet, era avvolta nella penombra. Sulle capriate campeggiava un grande striscione con la scritta INTERNATIONAL CONVENTION DEEP SPACE XIII e alcuni addetti stavano regolando le luci. Dall’imponente vetrata – dalla quale in giornate serene si poteva ammirare il massiccio del monte Bianco – si scorgeva invece solo un muro di buio e nebbia.

    In quel momento una ventina di ospiti, che fino ad allora erano rimasti nell’atrio aggirandosi come avvoltoi attorno al tavolo del buffet, varcarono la soglia. Alcuni si sedettero timidamente nelle ultime file, altri invece raggiunsero le poltroncine a ridosso del palco.

    «Buonasera. Buonasera a tutti», li accolse l’uomo al microfono, il tono suadente. Aveva una stazza imponente, che lo costringeva a movimenti goffi, e per quella ragione si appoggiò con una mano al pulpito. Subito dopo si allacciò un bottone del blazer e si sistemò i capelli canuti, raccolti in un’appariscente coda di cavallo.

    «Benvenuti. Qui davanti ci sono posti liberi», disse ancora, voltandosi verso lo schermo acceso dietro di lui. L’immagine proiettata raffigurava una serie di oggetti di pietra e argilla sistemati su un tavolo. Era parte della sua collezione privata e conteneva numerosi OOPArt, i cosiddetti manufatti fuori dal tempo. Reperti archeologici che a causa di ciò che raffiguravano risultavano di difficile collocazione storica. L’esempio più conosciuto era la famosa navicella di Toprakkale, una statuetta risalente al mille avanti Cristo, che però richiamava la forma di un veicolo spaziale. Ma ne esistevano moltissimi che, in un modo o nell’altro, suggerivano presunti contatti alieni avvenuti agli albori della storia umana.

    E quella era la ragione per la quale tutti quegli appassionati si erano ritrovati come ogni anno al raduno della Fondazione Deep Space.

    Il presidente, Argan Alborghetti – lo stesso che era pronto a cominciare il suo discorso di apertura – era l’erede di una delle famiglie più ricche di Milano. Suo padre era stato il fondatore della più importante aziende dolciaria del nord. I suoi panettoni natalizi erano stati assaporati da generazioni di italiani fino a quando, alla sua morte, gli eredi avevano venduto a una multinazionale svizzera. Argan, come la sorella Luce, aveva intascato un assegno da seicentottanta milioni di euro che gli aveva consentito di dedicarsi alla filantropia e alle sue passioni.

    Fin da bambino aveva adorato le opere letterarie di Jules Verne e H.G. Wells, i precursori della fantascienza. Aveva poi imparato a conoscere Isaac Asimov e più tardi Gene Roddenberry, il creatore di Star Trek. In onore della sua saga televisiva preferita – ma anche alle missioni NASA degli anni Novanta – aveva costituito la Fondazione Deep Space.

    Per il tredicesimo anno di fila, appassionati da tutto il mondo erano accorsi alla sua Convention, divenuta ormai avvenimento imperdibile. La stampa – che aveva criticato la scelta di monopolizzare le terme di Pré-Saint-Didier per un convegno così fuori dal comune – l’aveva perfino definito "ritrovo di stramboidi". I pochi invitati, alcuni dei quali si erano fatti quindici ore di aereo per essere lì, la pensavano però in modo molto diverso.

    «Il tempo è un po’ inclemente, quest’anno». Indicò fuori dalla vetrata verso le piscine termali illuminate. I fiocchi di neve cadevano insistentemente. «Ma la buona notizia è che il piatto forte di quest’anno è già arrivato».

    Dietro la figura imponente di Argan, sul grande display a parete, un’immagine nera sostituì le fotografie della sua collezione.

    «Devo ringraziare la dottoressa Irina Smallstorm, che insieme al suo assistente Elias Méndez, ha deciso di essere qui con noi... e ha ceduto alla mia richiesta di acquisto».

    Ci fu un lieve brusio quando tutti si resero conto che i due posti riservati in prima fila erano entrambi vuoti.

    «Non li vedo», insistette Argan Alborghetti, socchiudendo gli occhi come un gatto per scrutare nella penombra.

    «Mia moglie si scusa...», sospirò invece, dalle poltroncine limitrofe, una voce con lieve accento anglofono. «Sta arrivando... sa come sono le donne». Accompagnò la battuta con un sorrisetto, dal quale emersero due incisivi ingialliti dalla nicotina.

    Alborghetti allargò le braccia in segno di resa e poi puntò il telecomando verso il monitor. «So che volete vederla dal vivo e, credetemi, anche io non vedo l’ora...». Dietro di lui comparve la fotografia di un piccolo oggetto a forma piramidale, alto una trentina di centimetri. Accanto, per farne comprendere le esatte dimensioni, era stata sistemata una banconota da un dollaro che ne copriva circa un terzo. «Intanto, però, mentre aspettiamo i nostri due studiosi, direi che possiamo dire qualcosa sulla nostra nuova acquisizione: la Piramide Nera, o piramide di luce, come la chiama qualcuno».

    La fotografia dietro ad Alborghetti cambiò di nuovo, questa volta era un particolare della sommità, dove si vedeva uno strano occhio.

    «Come sapete fu ritrovata nella giungla di La Manà, in Ecuador, nel 1984. La sua particolarità è certamente la fluorescenza, se esposta alla luce ultravioletta, ma sicuramente avrete notato la simbologia che richiama gli Illuminati di Baviera.

    L’immagine della piramide fu affiancata ancora una volta da quella di un dollaro. Le incisioni della pietra, tra il grigio e il nero, erano del tutto simili a quelle raffigurate sulla moneta americana: si notavano tredici file di mattoni sormontate da uno strano bulbo oculare.

    «Molti pensano che l’occhio raffigurato non sia umano, come se l’incisore avesse voluto renderlo diverso, quasi divino», chiosò Argan, tutto sommato soddisfatto del modo in cui stava alimentando la suspence, in attesa che la dottoressa Smallstorm li raggiungesse con la piramide.

    «Altra stranezza è questa incisione, presente sulla base del nostro reperto». Per qualche istante si concentrò sulla fotografia dietro di sé.

    01

    Vi fu un timido applauso, anche se molti dei presenti avevano già visto l’immagine su Internet.

    «Le incisioni sono riempite d’oro e l’alfabeto è simile al sanscrito». Per essere sicuro che le sue parole avessero l’effetto sperato, Alborghetti si interruppe per poi riprendere subito dopo. «Sanscrito, signori. Secondo alcuni studiosi sarebbe addirittura più antico, forse risalente a seimila anni fa».

    Dalla platea si alzò un mormorio e poi una mano. Esattamente ciò che Argan si aspettava. «Mi scusi, posso farle una domanda?», esordì una voce.

    Con la mano grassoccia e un gesto teatrale, Alborghetti invitò l’ospite a parlare. «Prego».

    «Avete formulato un’ipotesi su come simboli così distanti nel tempo possano convivere?».

    Proprio la domanda che voleva. «Questa, naturalmente, è la cosa che ci ha incuriosito, gentile amico».

    L’uomo annuì e si accomodò sulla sua poltroncina accavallando le gambe.

    «Le decorazioni massoniche sono simboli che risalgono al XVIII secolo», illustrò Argan, azionando di nuovo il telecomando. «Quelle che abbiamo chiamato pre sanscrito potrebbero essere, invece, di circa tremila o quattromila anni prima di Cristo».

    Sul monitor comparve una nuova immagine: da un lato si vedeva la piramide disegnata sul dollaro, dall’altro la strana incisione d’oro. «La spiegazione più razionale è che i mattoni siano stati disegnati in un secondo momento, ma questo non spiega la strana fluorescenza. Oppure, più semplicemente, la Piramide Nera ci sta dicendo che gli Illuminati hanno radici ben più antiche di due secoli».

    «Scusate! Scusate l’intrusione». Dall’altro lato della sala un omino di mezza età stava avanzando veloce verso il pulpito. Ansimava. «La dottoressa Smallstorm... si è sentita male. C’è un medico in sala?».

    «C’è un medico?», ripeté anche Alborghetti, visibilmente scosso.

    Dalla fila centrale di sedie si alzò in piedi un uomo distinto, capelli castani, abito elegante. Era lo stesso che aveva rivolto la domanda all’oratore. «Eccomi!», annunciò con calma, mentre si spostava verso il corridoio centrale.

    Gli altri invitati lo fissarono atterriti e un vociare convulso lo accompagnò fino a che non fu uscito dalla sala.

    Capitolo 2

    19:06

    Mentre arrancava nella neve fresca, l’assistente di Irina Smallstorm si voltò verso l’edificio principale. Il buio era suo alleato: sembrava che nessuno l’avesse visto allontanarsi. Meglio così.

    Il complesso termale, un edificio basso e lungo, con vasi di fiori alle finestre e tetto di ardesia, risplendeva dalla parte opposta del parco ammantato di neve. Sorgeva poco lontano da Courmayeur, ai piedi del monte Bianco, e pur essendo molto conosciuto fin dall’Ottocento, nessuno aveva mai pensato di adibirlo a centro congressi. Fino a quell’anno.

    Argan Alborghetti, innamorato del luogo, aveva però insistito con la direzione per poter organizzare in quello spazio la sua convention annuale. Naturalmente aveva offerto un’ingente corrispettivo e – complici una serie di lavori di ristrutturazione di cui necessitavano gli stabili – la regione Valle d’Aosta l’aveva accontentato. La struttura era stata chiusa per due giorni e al posto del normale pubblico erano arrivati gli invitati della DEEP SPACE XIII. Proprio l’evento da cui stava fuggendo a perdifiato il dottor Elias Méndez.

    Si sistemò il borsone sportivo sulle spalle e cercò di avanzare in direzione delle luci del paese. Nevicava fitto e faceva un gran freddo. Ma aveva fatto bene a scappare da quella parte. Se fosse uscito dall’ingresso principale sarebbe stato certamente riconosciuto e, con il carico che portava con sé, non era una cosa raccomandabile.

    Il parcheggio dove aveva lasciato l’auto era distante poche centinaia di metri. Per raggiungerlo senza passare dalla strada doveva però attraversare un grosso avvallamento e, subito dopo, una riva scoscesa e innevata. Non era un percorso facile per uno come lui che aveva visto la neve sì e no due volte nella vita, però ce la poteva fare. Doveva farcela. La dottoressa la doveva pagare.

    Altro che assistente!, rifletté. Quella donna era come una sanguisuga che succhiava tutta l’energia positiva dal prossimo. Teneva per sé tutti i meriti e addossava agli altri le colpe. L’ultimo affronto era stato la decisione di vendere la Piramide Nera alla fondazione Alborghetti, né più né meno che un gruppo di fanatici.

    Elias Méndez emise un grugnito, a metà strada tra lo sdegno per i pensieri che lo affliggevano e la fatica per la scarpinata. Era bagnato fino alla vita, con le gambe pesanti e i piedi mezzo congelati, e stava affrontando l’ultimo tratto della discesa. Davanti a lui, le luci lontane dell’abitato gli apparivano come un miraggio.

    E fu in quel momento che accadde qualcosa: senza sapere esattamente come, il ricercatore equadoregno si sentì mancare il terreno sotto i piedi. Forse a causa di una lastra di ghiaccio celata sotto la neve fresca, o più probabilmente per colpa della stanchezza, cominciò a ruzzolare come una palla da bowling. Prima piano, quasi al rallentatore, poi sempre più veloce. Si ritrovò con la faccia e gli arti nella neve e per un tempo che gli parve infinito scivolò inesorabilmente verso la vallata. La sua caduta si arrestò, con un dolore lacerante alla schiena, su un masso di roccia sporgente.

    Emise un monosillabo gutturale e qualche colpo di tosse, poi scrollò il capo, intontito. Dolore a parte, sembrava non avesse nulla di rotto. Prima di provare ad alzarsi provò a muovere una mano, sotto il manto nevoso: per fortuna rispondeva agli stimoli.

    Si guardò intorno, ma ebbe l’impressione di essere un cieco disperso nell’oceano: dalla sua posizione poteva vedere solo nuvole nere che incombevano tutt’intorno. I fiocchi di neve, grossi come albicocche, cadevano fitti.

    Si mise seduto, cercando di pulirsi con una mano ghiacciata e per un istante fu folgorato: il borsone?

    Scattò in piedi, ansimante, senza curarsi degli spasmi alla schiena, e spaziò con lo sguardo da una parte all’altra della distesa innevata. I suoi occhi si stavano abituando all’oscurità, ma nonostante ciò non riuscì a individuarlo. Niente. Non c’era.

    «Per sicurezza mettiamo a disposizione dei nostri ospiti un segnalatore GPS, utile in caso di valanghe». Le parole della receptionist gli rimbalzarono in mente come una molla. Il trasmettitore era nel borsone – ce lo aveva messo lui poco prima di uscire – ma in ogni caso non aveva alcuna attrezzatura per rilevarne il segnale.

    Si sentì mancare. Doveva basarsi solo sulla vista. Si spostò, cercando di tornare sui suoi passi e incespicò di nuovo. Alla sua sinistra, sul fianco della montagna, ora si intravedevano nella nebbia le sagome di alcuni abeti. Dalla parte opposta, oltre il buio, le luci di Pré-Saint-Didier baluginavano sul ghiaccio.

    Risalì il pendio di pochi passi e finalmente individuò, a un decina di metri sopra di lui, un logo Adidas catarifrangente. Era il borsone. Senza sapere esattamente come, lo raggiunse, incredulo, e si mise seduto. Si fece coraggio e lo aprì, trattenendo il fiato.

    La Piramide Nera, avvolta in un foglio di plastica imbottita, sembrava integra. Scostò il pluriball con le dita intorpidite e cercò di scrutarla al buio, per averne conferma. L’occhio onniveggente che sormontava le file di mattoni incisi sembrava guardarlo e per fortuna non aveva subìto danni. Come il resto della scultura.

    Tirò un sospiro di sollievo e mentre la sistemava nuovamente nel borsone, lo sguardo gli cadde sul bigliettino che aveva ricevuto una decina di minuti prima. Recitava: Hai dieci minuti a partire da adesso. La porta è aperta.

    Subito dopo averlo letto, Elias Méndez, che come gli altri attendeva l’inizio del convegno nell’androne delle terme, si era precipitato su per le scale. Irina Smallstorm era stata alloggiata in una stanza al primo piano e aveva sempre tenuto con sé la piramide, custodita in una teca di cristallo. Ma la persona che gli aveva recapitato il biglietto era stata di parola: la porta era aperta.

    Entrato nella camera, Méndez aveva afferrato la piramide ed era sceso di corsa. E dieci minuti dopo si trovava lì, in mezzo alla neve.

    Si alzò a fatica e, mettendo un piede davanti all’altro, ripercorse i suoi passi. Scese nell’avvallamento e risalì il pendio fino a raggiungere la strada. I lampioni emettevano una luce giallognola, al riflesso della quale sembrava che i fiocchi di neve cadessero ancora più fitti. Non c’era anima viva.

    In pochi minuti fu al parcheggio, liberò il parabrezza e si chiuse nella piccola Toyota 4x4. Ce l’aveva fatta, credeva, ma quella sera sembrava che nulla volesse andare per il verso giusto: provò ad avviare il motore e l’auto si limitò a tossire senza accendersi. Riprovò. Stesso risultato. Poteva dipendere dalla batteria? Dal freddo?

    Sfinito, si appoggiò con la fronte al volante, senza sapere cosa fare, e in quel momento ebbe l’idea.

    Stella Alpina, rifletté. Sì. Può funzionare.

    Capitolo 3

    19:15

    «Dottoressa Smallstorm, mi sente?». Il medico era inginocchiato accanto alla donna, riversa sul pavimento del bagno. Le slacciò la camicetta avorio e provò a sentirle il polso. «Sono il dottor Visconti: sono qui per aiutarla».

    L’archeologa non si mosse. Respirava a fatica ed era in ipotermia.

    «C’è un odore strano», commentò Visconti, guardandosi attorno, in cerca di una cassetta di medicinali. Ma nel bagno sembrava non esserci alcun kit di pronto soccorso. Il suo sguardo si fermò allora su una boccetta di vetro con un tappo di sughero, sistemata sul lavandino.

    Possibile?.

    Si avvicinò all’archeologa e le annusò l’alito.

    Nel frattempo, il direttore delle terme, un valdostano di mezz’età di nome Franco Trichet, se ne restava impalato sulla porta. Sembrava una statua di marmo con le mani tese sui fianchi e il viso cinereo.

    «È odore di zafferano. Non lo sente?», chiese il medico, voltandosi verso di lui.

    Trichet scosse il capo, ma era evidente che fosse sotto shock. Quell’incidente, se così lo si poteva chiamare, rischiava di fargli perdere il posto.

    «Ho bisogno di una bombola d’ossigeno», sentenziò Visconti, alzandosi in piedi. «Meglio ancora del nalmefene o del naloxone, se l’avete».

    L’uomo si limitò a muovere la testa come un automa. Annuì ripetutamente ma non si mosse di un centimetro.

    «Subito!».

    Questa volta il direttore si scosse, come colpito da uno schiaffo. Annuì ancora e uscì di gran carriera, diretto verso il corridoio.

    Visconti si slacciò la giacca dell’abito in pied de poule e si avvicinò nuovamente al corpo esanime della Smallstorm. Aveva già visto quella donna dai capelli canuti e la pelle rugosa. Era successo lo stesso pomeriggio, quando era arrivata alle terme accompagnata da un uomo alto e ossuto.

    «Allora, ti muovi con quella teca?», aveva inveito lei, davanti a tutti. «No. Non lì, sei sempre il solito. È delicata, non lo sai?».

    Il tizio, che sorreggeva una teca di vetro a forma piramidale, aveva sorriso stancamente. Poi, con un accento da gentiluomo inglese, si era appoggiato al bancone di accettazione. «Siamo i coniugi Irina e William Smallstorm», aveva comunicato all’addetta. «Ci stavate aspettando».

    Visconti aveva assistito esterrefatto alla scena. Non era sposato, ma lui una donna che l’avesse trattato così non l’avrebbe mai tollerata. Oltretutto, doveva considerarlo un comportamento normale, visto che non aveva avuto reazioni iraconde.

    Il medico scacciò quei pensieri e provò a fare ciò per cui era stato chiamato. Non perse tempo, non ce n’era. Scattò in piedi e tornò nella camera da letto.

    Nello stesso istante, Trichet stava infierendo con una piccola chiave sulla serratura dell’infermeria. Era dovuto tornare alla reception, cercare tra decine di portachiavi ed etichette, e poi di corsa aveva raggiunto quella porta. Gli tremavano le mani, ma al terzo tentativo riuscì ad aprire e spalancò l’uscio.

    Non mi pagano abbastanza per questo!, rimuginò tra sé, immaginando già le conseguenze se la scienziata fosse morta.

    Era un uomo minuto, vestito di nero, che non avrebbe sfigurato in un’impresa di pompe funebri. «L’ha trovata una delle nostre inservienti», aveva spiegato poco prima a Visconti, mentre dalla sala conferenze raggiungevano la stanza al primo piano preparata per la dottoressa. «È svenuta. A volte capita a chi non è abituato alla sauna o alle piscine riscaldate. È stata una fortuna che ci fosse lei in sala».

    Mentre rimuginava su quanto accaduto nei minuti precedenti, accese i neon dell’infermeria e adocchiò una vetrinetta, spaesato. Sorprendentemente ci mise solo un secondo a individuare una grossa borsa di plastica, poco distante: vi era raffigurata una croce con il simbolo di Ippocrate. La afferrò e cominciò a rovistare freneticamente nell’armadietto attiguo.

    Cosa doveva cercare? Naloxone? Nalmefene? Non era neppure sicuro di ricordare bene. Non trovò nulla il cui nome si avvicinasse minimamente a quanto gli aveva chiesto Visconti. Si limitò quindi alla bomboletta d’ossigeno e alla mascherina, appese al muro. Se li mise sotto il braccio e uscì senza indugiare oltre.

    Si precipitò giù per le scale e corse verso la stanza della dottoressa.

    Galeazzo Visconti era in piedi, gli occhi grigi fissi sulla paziente e le mani sprofondate nei pantaloni. Per uno che faceva la sua professione, avvenimenti come quello che aveva affrontato erano all’ordine del giorno.

    Poco prima aveva preso in braccio la dottoressa, in evidente crisi respiratoria, e l’aveva adagiata sul letto, coprendola con due coperte. Non aveva potuto fare altro e sapeva che era improbabile che nell’infermeria ci fossero le medicine adatte a salvarla.

    Si voltò verso la porta. In attesa. Di certo il direttore stava per arrivare, ma con ogni probabilità sarebbe stato troppo tardi: la situazione della dottoressa era molto più seria di quanto aveva immaginato.

    Cominciò a camminare avanti e indietro nervosamente, cercando di concentrare la mente su altro. Fissò la parete grigia: era spoglia, a eccezione di un piccolo specchio dai bordi in ottone e una commode. Sul piano di betulla erano sistemati una brochure delle terme, un quadernetto di pelle e una lampada con motivi floreali. La stanza non aveva molto altro da offrire.

    In quel momento uno scalpiccio appena percettibile attirò la sua attenzione. Finalmente. Allungò una mano, si avvicinò alla porta e aprì. Il responsabile delle terme era lì, trafelato e con la valigetta del pronto soccorso stretta in grembo.

    «Me la dia», gli ordinò il medico. La portò sul letto, la spalancò ed estrasse con foga il contenuto. Nulla che potesse essergli utile.

    Il direttore fece un passo in mezzo alla stanza, circospetto. Ma invece di concentrarsi su Visconti e sulla Smallstorm, la sua attenzione si focalizzò altrove: la teca di vetro in cui era custodita la Piramide Nera, la stessa che aveva visto quel pomeriggio, era aperta e vuota.

    Rimase senza fiato. «L’hanno rubata», riuscì solo a borbottare, incredulo. Ma le sue parole furono interrotte da quelle del medico.

    «Presenta i sintomi dell’avvelenamento», chiarì Visconti che, piegato sulla paziente con la bomboletta d’ossigeno, non sembrava essersi accorto del furto. «L’odore di zafferano che sentivamo è tipico della tintura d’oppio».

    E in quell’istante accadde l’irreparabile. Le labbra violacee della dottoressa si spalancarono e la donna aprì gli occhi di scatto: erano iniettati di sangue e rabbia. Sembrava volesse dire qualcosa. Ma non ne fu capace.

    Il suo ultimo respiro fu preceduto soltanto da un rantolo sordo.

    Capitolo 4

    19:20

    Argan Alborghetti scarpinava avanti e indietro come un toro nell’arena, la testa ciondolante e le mani sui fianchi. Accanto a lui, con una flûte di champagne ancora tra le dita, c’era William Smallstorm, lo sguardo perso su un punto indefinito del pavimento.

    «Ma come diavolo è possibile?», inveì all’indirizzo di Trichet, appena arrivato con le pessime notizie che provenivano dal piano superiore. Si trovavano nella cosiddetta Stanza del sale: un locale con pietre a vista in cui si poteva respirare l’odore dell’acqua del mare. Al direttore, naturalmente, non interessava l’aroma del sale dell’Himalaya, ma solo la vicinanza con la sala conferenze: per ciò che aveva da

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