Il libretto rosso di Cuba: Il Líder Maximo spiega la giustizia sociale e difende la causa della rivoluzione
Di Fidel Castro
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Il libretto rosso di Cuba - Fidel Castro
IL LIBRETTO ROSSO DI CUBA
Il 26 luglio del 1953, un pugno di rivoluzionari guidati da un giovane Fidel Castro decide di dare «l’assalto al cielo» e, tentando il tutto per tutto, attacca due importanti avamposti militari cubani. La sortita, programmata per le cinque del mattino e condotta malgrado una clamorosa disparità di forze, è costretta a fare i conti con le avversità delle circostanze e si conclude in una disfatta.
Quel giorno, la causa della rivoluzione cubana lasciò decine di morti sul campo di battaglia, mentre molti altri combattenti sarebbero stati crudelmente torturati e quindi uccisi dai soldati del dittatore Fulgencio Batista. Lo stesso Fidel Castro sarebbe stato catturato e condannato a un lungo periodo di carcere duro. Nel corso del processo che lo riguardava, però, Fidel prese la parola per urlare al mondo intero le sue ragioni grazie a una formidabile arringa difensiva – La storia mi assolverà – trascritta e, in seguito, adottata come programma dal Movimento del 26 Luglio: il gruppo che, nel ricordo dei martiri cubani, continuerà a combattere fino alla vittoria. Dedicato a questo celebre e glorioso episodio, Il libretto rosso di Cuba recupera la profetiche parole di Fidel Castro per tornare a spiegare la giustizia sociale e continuare a difendere la causa della rivoluzione.
FIDEL CASTRO
Nato a Birán, nell’attuale provincia cubana di Holguín, il 13 agosto del 1926, è stato uno dei principali artefici della rivoluzione cubana. Uomo di eccezionale tempra fisica e di indiscusse doti intellettuali, ha retto i destini di Cuba per oltre mezzo secolo riuscendo, malgrado l’odio anticomunista della politica estera degli Stati Uniti, a migliorare drasticamente le condizioni di vita delle masse popolari e a trasformare la sua isola in un punto di riferimento per chiunque si opponga al capitalismo e al liberismo sfrenato.
Il libretto rosso di Cuba
Prima edizione ne «I libretti rossi»: gennaio 2013
stampato presso Cimer S.n.c., Roma
Red Star Press
è un marchio di Arto S.n.c., Roma
www.facebook.com/libriredstar
redstarpress@email.it
La riproduzione, la diffusione, la pubblicazione su diversi formati e l’esecuzione di quest’opera, purché a scopi non commerciali e a condizione che venga indicata la fonte e il contesto originario e che si riproduca la stessa licenza, è liberamente consentita e vivamente incoraggiata.
Fidel Castro
Il libretto rosso di
CUBA
Il Líder máximo spiega la giustizia sociale e difende la causa della Rivoluzione
A cura di Cristiano Armati
INDICE
Il libretto rosso di Cuba
INTRODUZIONE
«Ribellarsi è giusto». L’orizzonte di Fidel Castro e della Rivoluzione Cubana, di Cristiano Armati
Fidel Castro
La storia mi assolverà
NOTE
BIBLIOGRAFIA SELEZIONATA IN LINGUA ITALIANA
INTRODUZIONE
«Ribellarsi è giusto»
L’orizzonte di Fidel Castro e della Rivoluzione Cubana
Si potrebbe parlare del 10 ottobre del 1868 e sostenere di trovarsi in quel di Yara, la cittadina della provincia di Oriente dalla quale Carlos Manuel de Céspedes y Quesada aveva lanciato il famoso «grido» con cui si invitavano tutti i cubani a imbracciare le armi e a lottare per l’indipendenza. Non fosse stato chiaro in quel momento, ci avrebbe immediatamente pensato Antonio Maceo, il «Titano di bronzo», uno dei comandanti del primo esercito rivoluzionario, a precisare che «la libertà non si mendica, ma si conquista con il filo del machete».
In realtà, quasi un secolo divide il periodo glorioso in cui a Cuba si iniziava a combattere per abolire la schiavitù e per cacciare gli spagnoli rispetto al momento in cui un pugno di giovani male armati, capitanati dall’avvocato Fidel Alejandro Castro Ruz, decide di assaltare la caserma Moncada e la stazione militare di Bayamo con l’intenzione di incitare il popolo e l’esercito alla ribellione, sconfiggere il dittatore Fulgencio Batista, instaurare un governo rivoluzionario e, finalmente, grazie all’adozione di precise misure politiche ed economiche, dare un senso compiuto alla tanto sospirata «indipendenza» e alla così a lungo agognata «libertà».
I giorni di Fidel Castro sono quelli successivi al 26 luglio del 1953 quando, alle 5 e 15 del mattino, era stato lanciato il coraggioso attacco agli obbiettivi militari prescelti e quando, subito uno sfortunato rovescio, il manipolo di ribelli era stato costretto a organizzare una veloce ritirata, braccato dai soldati di Batista, immediatamente pronti a uccidere e a torturare, a sparare colpi a bruciapelo su prigionieri inermi ma anche a cavare occhi e a strappare testicoli per ottenere impossibili confessioni pur di mantenere un regime fondato sul più bieco nepotismo e sulla corruzione dilagante e generalizzata dei pochi approfittatori a cui appartenevano le leve del potere.
Sconfitti, ma come si vedrà niente affatto vinti, i resti della piccola avanguardia castrista – cioè il nocciolo duro del Movimento «26 luglio» – si ritroveranno, rigorosamente isolati, nelle celle di un carcere e quindi, in momenti diversi, alla sbarra degli imputati nel tribunale improvvisato all’interno della Sala delle Infermiere dell’Ospedale «Saturnino Lora» di Santiago di Cuba, il luogo in cui Fidel pronuncerà il discorso divenuto famoso in tutto il mondo con il titolo di La storia mi assolverà.
In realtà, nella Sala delle Infermiere, tutto sembrava sapientemente e violentemente orchestrato dal regime affinché la voce del malcontento popolare raccolta dal Movimento «26 luglio» fosse soffocata nel silenzio insieme alle istanze della parte più progressista della gioventù cubana; quella «Generazione del Centenario» che, a cento anni dalla nascita di José Martí, era pronta a battersi per pretendere le conquiste sociali già annunciate da «L’Apostolo» dell’indipendenza, ma, nei fatti, disattese da governi asserviti al proprio tornaconto personale oltre che al giogo dei nuovi padroni statunitensi e agli interessi dei vari potentati economici e mafiosi, colpevoli di aver trasformato Cuba in un bordello a cielo aperto, sempre pronto a soddisfare i voraci appetiti dei corrotti signori locali e/o dei ricchi turisti e uomini d’affari nordamericani.
Così, mentre le multinazionali della frutta prosperavano sulle spalle dei contadini e le aziende statunitensi del telefono e dell’elettricità pretendevano dalla popolazione cubana tariffe triple rispetto a quelle applicate nella madrepatria, a Cuba una fascia sempre più ampia di sottoproletariato urbano e rurale pativa la fame, sopravvivendo a stento in capanne senza né acqua né luce o in misere baraccopoli mancanti di tutto, preda dell’analfabetismo di massa e della piaga endemica della disoccupazione.
La situazione – gravissima – non poteva certo definirsi «casuale». Al contrario, non era altro che la diretta conseguenza della realtà neocoloniale: un assurdo sistema che rapinava (e continua a rapinare) i paesi come Cuba delle loro materie prime per poi derubarli una seconda volta, rivendendo a prezzi maggiorati il frutto delle lavorazioni industriali eseguite esternamente. In teoria si tratta di un perfetto strumento di sfruttamento e di dominio, nella pratica – come è stato dimostrato – soltanto una feroce «tigre di carta», capace di perpetuarsi a patto di mantenere (a spese dei dominati) un implacabile esercito di dominatori e, a livello ideologico, di spacciare come «giusto», «normale» o «naturale» ciò che, in realtà, è il frutto amaro dello sfruttamento e dell’arbitrio.
Questa è la situazione in cui, dopo settantasei giorni di isolamento, il 16 ottobre del 1953, Fidel Castro prende la parola. Il Pubblico Ministero si è già espresso spendendo appena qualche minuto per chiedere nei confronti del leader del Movimento «26 luglio» ben ventisei anni di carcere. Che una simile pretesa si fondi su un testo di legge contrario alla stessa Costituzione cubana, stravolta dopo il colpo di Stato di Batista del 10 marzo del 1952, non sembra avere nessuna importanza. E che esercitare il proprio diritto alla difesa all’interno di un finto tribunale, circondato da militari armati fino ai denti, sia quanto meno una beffa, non crea alcun problema al regime di Batista, per il quale il processo a Castro e al «26 luglio» è soltanto l’ultimo atto di un copione repressivo già messo in scena con successo. Invece, messo con le spalle al muro, Castro non accetta neppure per un minuto di vestire i panni della vittima predestinata. Al contrario, il futuro Líder Máximo della rivoluzione cubana capovolge i termini della questione e, da accusato, si trasforma in accusatore, ridicolizzando la giurisprudenza di Batista insieme ai suoi strumenti di dominio e alla sua ideologia totalitaria. In questo modo, la liquidazione dell’opposizione diventa l’inizio della fine per la dittatura che regge le sorti dell’Isola: un passaggio che sarebbe un grave errore considerare di semplice natura retorica, venendo a fondarsi, all’interno del discorso di Castro, su una strategia ben precisa, destinata a demolire le armi dell’avversario e, contemporaneamente, a indicare una precisa alternativa politica per la gestione dei destini di Cuba. Rispetto a questo discorso, i punti salienti de La storia mi assolverà, riguardano:
- Le forze messe in campo dal nemico
Non ha nessuna importanza, nota Castro, che il regime di Batista possa contare sulla protezione di un esercito ben armato e ben addestrato, e su un servizio di spionaggio foraggiato con milioni di pesos. La storia (non solo) cubana – insieme all’attualità della protesta sociale in America Latina – insegna che un esercito più numeroso di quello di Batista, cioè l’esercito spagnolo, è già stato sconfitto da cubani disposti a lottare persino a mani nude oltre che a colpi di machete. Perché: «Così lottano i popoli quando vogliono conquistare la loro libertà: lanciano pietre contro gli aerei e capovolgono i carri armati!».
- La definizione delle parti in lotta
La visione castrista è quanto mai chiara. Il campo della battaglia è diviso tra due schieramenti. Da una parte l’esigua minoranza degli oppressori e i loro sostenitori, cioè: «Quegli strati agiati e conservatori della nazione sempre pronti a inchinarsi davanti al padrone di turno fino a spaccarsi la fronte per terra»; dall’altra la stragrande maggioranza degli oppressi, vale a dire l’intero «popolo», che si definisce come tale – superando qualunque mistica reazionaria fondata sul «sangue», sulla «lingua» e sul «territorio» – proprio nel momento in cui riconosce se stesso all’interno di una «comunità in lotta».
- I limiti della legalità
Il processo al «26 luglio», da un punto di vista strettamente giuridico, è di per sé frutto di un paradosso. Come è possibile infatti che un regime – quello di Batista – apertamente fondato sulla violazione della Costituzione cubana, stravolta dal colpo di Stato del 10 marzo, si possa permettere di giudicare nei termini della legge chi a quella Costituzione si richiama e che quella Costituzione difende?
E come possono i rappresentanti di un pugno di sfruttatori ergersi a pontefici della voce della massa di sfruttati; processare cioè quello stesso «popolo» a cui tutti i poteri dovrebbero essere costituzionalmente demandati?
- Il diritto alla ribellione
È il passaggio a cui Fidel Castro dedica maggiore energia, evidentemente sulla scia della convinzione che sconfiggere l’ideologia del nemico sia più difficile che avere la meglio su un esercito di uomini armati. Compiendo l’impresa, l’arringa di Castro si trasforma in un saggio di storia del diritto costituzionale che, partendo dagli albori greco-romani, si spinge fino alle dottrine politiche contemporanee. L’analisi di