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Al di là dei mondi possibili
Al di là dei mondi possibili
Al di là dei mondi possibili
E-book193 pagine2 ore

Al di là dei mondi possibili

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Info su questo ebook

Sono qui raccolte, in un unico volume, i racconti scritti dall’autore tra il 2014 ed il 2015 contenente “Storia di un ragazzo qualunque”, “Cronache di un mondo malato. Diario di un sopravvissuto (anormale)”, “Giornate paranormali”, “Der Amerikanische Traum” e “Bellum Activa”: racconti di amore e guerra, dove il paranormale si mescola con l’horror e di vite difficili e precarie. Poiché è utile ogni tanto scorgere all’orizzonte la possibilità che ci sia speranza e futuro al di là di questo mondo, che i nostri “mondi possibili” possono diventare delle realtà concrete e non un semplice sogno astratto, anche solo per essere coscienti di vivere appieno le nostre esistenze.

“Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni.”

Paulo Coelho
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2015
ISBN9788892512429
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    Anteprima del libro

    Al di là dei mondi possibili - Cristiano Ruzzi

    L’ERRORE

    STORIA DI UN RAGAZZO QUALUNQUE

    PRIMO GIORNO

    Sono le otto del mattino e come tutti i giorni, esclusi il sabato e la domenica, la sveglia del telefono comincia a suonare, con quel drin drin da suoneria predefinita, come la si può trovare in tutti i cellulari.

    Allungo il braccio per cercare di trovarla. Dopo due tentativi la trovo, gli do due pugni e la spengo.

    Sono ancora inconscio, mi alzo seduto sul letto e cerco di riconoscere, nel buio semi – illuminato dalla serranda della mia camera da letto, i mobili e gli altri oggetti che la compongono.

    Dopo due minuti, tempo sufficiente per connettere il cervello con il resto del corpo, mi alzo e, come ogni santa mattina, apro la porta della camera per andare in cucina a fare colazione.

    Prima di arrivare in cucina devo attraversare un corridoio della casa in cui mia madre ha poggiato una croce, un rosario e le foto dei suoi defunti di cui una sua zia, morta l’anno scorso e suo padre, morto di cancro ai polmoni due anni prima.

    Quando ha fatto questa cosa, l’estate scorsa, ho protestato. Ma lei niente, ha voluto creare questo mini santuario per ricordarli, quella testa dura, manco fossimo al cimitero.

    Pazienza.

    Cerco di evitarlo, distogliendo lo sguardo e facendo segni scaramantici.

    Apro la porta della cucina.

    Appena entro trovo mia madre che, inaspettatamente, sta facendo colazione.

    «Che ci fai qui? Oggi non dovevi andare a fare le pulizie negli uffici?»

    «Oggi no, è il mio giorno libero, vado a lavorare domani.»

    Vado davanti ai fornelli, prendo il caffè dalla macchinetta e lo verso in una tazza presa dalla dispensa.

    Il caffè è freddo.

    Prendo i biscotti, mi siedo e comincio a fare colazione.

    «Guarda Luca, che oggi devi andare a fare la spesa, ti ho già fatto la lista delle cose da prendere, inoltre ricordati di prendere il pane e che…»

    «Lo sai bene che non mi devi fare questi discorsi la mattina, appena sveglio. Sai bene che, a meno che non trascorrano due ore da quando sono sveglio, la mattina sono sempre semi – rincretinito.»

    «Hai ragione. Scusa.»

    Finisco di fare colazione e prendo, da uno dei scaffali posti in alto, sulla credenza, le mie medicine.

    Vado in bagno e, non appena mi metto davanti allo specchio del lavandino, i miei tic nervosi riappaiono, questa volta facendomi muovere la gamba destra su e giù per circa cinque minuti. Tengo duro e aspetto che mi finisca.

    Quando andai in cura dal mio psicologo per questi tic, un anno a questa parte, gli spiegai come mi erano venuti inconsapevolmente, da un giorno all’altro. Lo psicologo, appena ebbe sentito la mia descrizione, li definì rituali. Rituali sto’ cazzo, avrei voluto rispondergli. Mi prescrisse delle medicine che, il mese successivo, cambiò con qualcosa di più pesante sotto mia insistenza.

    Attualmente le medicine che prendo mi danno una mano, ma non risolvono il problema.

    Finito il tic comincio a lavarmi e, dopo venti minuti, esco dal bagno e mi dirigo in camera mia.

    Alzo la serranda, rifaccio il letto e scelgo la roba che indosserò oggi.

    Mi vesto, vado alla stanza d’ingresso, metto le scarpe, prendo la lista della spesa, faccio un accenno di saluto a mia madre ed esco.

    Prendo le scale.

    All’ingresso del condominio guardo la cassetta delle lettere. So bene che, escluso il sabato e la domenica, giorni in cui non arriva, la posta verrà messa dentro le cassette non prima delle undici. Ma non posso farci niente, è più forte di me.

    Non c’è niente, non ancora.

    Vado oltre, attraverso il portone del condominio ed esco in strada.

    Il supermercato è a due isolati da qui, vicino alla piazza del quartiere, perciò devo fare un pezzo a piedi.

    Mentre cammino incrocio le solite figure, strane per chi magari viene da fuori ma non per chi, come me, è cresciuto e vive alla periferia di Roma: relitti umani di 70/ 80 anni che, con o senza bastone, con o senza bombola dell’ossigeno, con o senza badante, cercano di muoversi o di camminare piegati in basso, con la mano tremolante e la gobba in stile Andreotti. Bambini piccoli portati a passeggio dai genitori o dai nonni. Persone di tutte le età che portano a spasso i loro cani di tutte le razze ma che, per la maggior parte, sono pincher e chihuaua oppure cani meticci spellati. Ritardati mentali che sembrano usciti dalle categorie fenomeni da baraccone di un circo equestre. Obesi di tutte le età che vanno a prendersi un gelato, un hamburger o una pizza, pur sapendo che una di queste cose prima o poi li ucciderà. Musicisti che suonano i loro strumenti sperando di ricevere qualche spiccio sul fondo della cassa, dove rimettono lo strumento a fine giornata. Mendicanti di tutti i tipi e generi che chiedono l’elemosina. Filippini con i loro classici baffi alla Speedy Gonzales. Arabi con la barba lunga accompagnati dalle loro mogli con il velo che gli copre la testa.  Gipsy con il carrello della spesa che rovistano nei cassonetti. Asiatici con i loro negozi che oramai spuntano come funghi. Edicole con il cartello vendesi. Ragazzi e ragazze che avranno quindici – sedici anni, i primi vestiti in stile rapper con i jeans, le treccine e le collanine e le seconde con i piercing e l’ombelico scoperto, ma tutti e due i gruppi con gli iphone, ipad, ipod e altre puttanate di ultima generazione.

    All’inizio, tre anni fa, quando avevo diciott’anni, quando ho cominciato a vedere queste figure, pensavo a come fosse stato possibile che un quartiere come il mio si fosse ridotto in questo modo e che, se questo era il futuro che ci aspettava, eravamo fottuti. Adesso non ci penso più.

    Mi sono solo abituato a vederli.

    Quando sono sul marciapiede devo fare attenzione soprattutto alle cacche dei cani, che non puoi fare dieci passi che rischi di pestarne una.

    Una volta, davanti al portierato del mio condominio, c’era merda di cane sparsa dovunque. Non si poteva uscire senza rischiare di metterci i piedi.

    Incivili.

    Ogni tanto, mentre cammino, sento il rumore di un’ambulanza che si avvicina in zona, per poi allontanarsi. Non passa giorno senza che si abbia notizie di qualcuno nel quartiere che si è sentito male, si è ferito o si è suicidato, ventiquattr’ore su ventiquattro, giorno e notte.

    Il problema non è il quartiere, siamo noi. Siamo troppo numerosi.

    Sono quasi arrivato. Devo solo attraversare la piazza.

    La piazza è abbastanza grande, per un quartiere come il nostro. Un tempo, dove c’era la piazza, sorgeva un parcheggio ma poi l’amministrazione del municipio decise di creare uno spazio verde per gli abitanti, con i giochi per i bambini e le panchine.

    Il progetto, adesso che ci penso, era buono.

    La realtà è tutta un’altra storia.

    La piazza non è nient’altro che un grande blocco di cemento con i muri pieni di graffiti e scritte, per la maggior parte di matrice fascista, con le piante quasi tutte strappate mentre quelle poche rimaste sono schiacciate, nella quale i giochi per i bambini sono stati distrutti mentre le panchine sono sporche e accanto, appoggiate ad esse, spuntano come funghi bottiglie di birra vuote.

    In una parola, uno schifo.

    Può non sembrare, alla prima vista, ma la piazza è divisa in due aree, appartenenti a due gruppi.

    La prima area appartiene a un gruppo che io chiamo ragazzi stecca: ragazzi tra i diciotto e i diciannove anni, alti tra un metro ottanta e novanta, magrissimi, con i giubbotti da fighettini e i pantaloni in stile militare, con accanto le fidanzatine di solito alte trenta centimetri in meno di loro e i motorini sempre parcheggiati vicino alla piazza, a poca distanza dal gruppo. Si trovano là ogni santo giorno, dal lunedì alla domenica, di mattino o di sera, a qualunque ora. Non so cosa fanno tutto il santo giorno, né se hanno un lavoro o se vanno a scuola. So solo che, fisicamente, non sembrano normali. Assomigliano a delle stecche da biliardo. Dei ragazzi stecca, appunto.

    Gli passo accanto. Provo solo astio per questi ragazzi.

    La seconda area appartiene a un gruppo di anziani che si mettono o vicino a un muro o in circolo, seduti su delle sedie che si portano da casa, passando il loro tempo a chiacchierare di quanto faccia schifo vivere con la pensione minima, del governo ladro, a giocare a carte o a riscaldarsi tutti insieme con una griglia da barbecue portata da uno di loro quando arriva l’inverno.

    Mi avvicino. Stanno chiacchierando tra di loro.

    Uno di loro, un amico di mio nonno, mi riconosce e mi saluta.

    Ricambio il cenno.

    Per loro rimane solo la mia indifferenza, alla quale applico la regola del vivi e lascia vivere.

    Supero la piazza. Oramai il supermercato è a pochi metri.

    Davanti all’ingresso c’è la solita gipsy che chiede l’elemosina. Non passa giorno, senza leggere i giornali o le notizie che si trovano sul web, senza scoprire di gruppi di gipsy che hanno accoltellato o dato fuoco a delle persone, che possiedono appartamenti o case popolari a costo zero, con i rubinetti bagnati d’oro, che vanno in giro con gli orologi e le auto ultimo modello o che hanno conti correnti postali di decine di migliaia di euro.

    Fanno questo e poi vanno in giro con il carrello a cercare il rame, a rovistare nell’immondizia, fingendo di essere poveri e di chiedere l’elemosina. Che popolo di ambigui.

    Faccio finta di niente e la sorpasso.

    Entro dentro il supermercato.

    Controllo la lista della spesa. Tra salumi, pasta e mozzarelle devo comprare un bel po’ di roba.

    Mamma sa benissimo che da quando papà se n’è andato di casa dobbiamo stringere la cintura un po’ tutti, soprattutto Marco che è ingrassato, in questi ultimi mesi.

    Continua a fare finta di niente.

    Peggio per lei.

    Faccio la spesa, evitando di comprare roba costosa e di cercare i generi alimentari di cui ho bisogno tra le offerte disponibili.

    Mentre giro attorno ai vari reparti, incrocio gli addetti agli scaffali che stanno smistando la merce nei ripiani.

    Ragazzi all’incirca della mia età, precari, con un contratto lavorativo a tempo determinato, che lavorano otto ore al giorno, dal lunedì al sabato, per una paga da fame, sufficiente a pagare le spese economiche e familiari.

    Probabilmente e così che finirò.

    Mi dirigo alla cassa. Alla postazione c’è una ragazza che conosco.

    «Oggi hai fatto una spesa più grande del solito?»

    «Purtroppo sì, mi è toccato.»

    «Vuoi una busta?»

    «Sì, grazie.»

    Mi fa un sorriso e, dicendomi il totale, mi porge lo scontrino.

    Pago la spesa.

    Esco e mi avvio verso il panificio.

    Fortunatamente si trova vicino al condominio dove abito, a due passi perciò, escluso il ritorno, non devo camminare molto.

    Arrivo al panificio. Entro.

    Ci sono tre persone, davanti a me, a chiedere il pane.

    Aspetto.

    Una signora, la prima della fila, chiede quanto costa il pane. Conta i soldi che ha dentro il borsello, li dà alla commessa ed essa gli dà il resto e lei, con il palmo della mano aperta, li esamina pezzo per pezzo.

    Questo genere di persone mi fa provare solo disprezzo.

    Avete voluto la democrazia? Avete voluto, fin da giovani, votare per i partiti politici collusi con i poteri forti e le mafie? Avete voluto, anche dopo che si è scoperto che lo erano, continuare a votare per loro? Avete voluto le liberalizzazioni, le privatizzazioni i tagli economici e l’entrata dell’euro? Beh, peggio per voi. Adesso ve lo prendete in quel posto.

    Ci sono altre due persone davanti a me dopodiché è il mio turno.

    «Cosa ti do oggi Luca?»

    «Dammi i soliti quattro panini, grazie.»

    Me li dà in una busta.

    «Sono un euro e venti.»

    Glieli porgo.

    Me ne ritorno a casa.

    Entro dentro al condominio.

    Guardo l’orologio. Sono le undici passate. Adesso dovrebbe essere arrivata la posta.

    Mi avvicino alla cassetta delle lettere.

    Non c’è niente. Pazienza.

    Prendo l’ascensore. Fortunatamente è al piano terra.

    Arrivo davanti alla porta di casa, giro la chiave ed entro dentro l’ingresso.

    «Sono tornato. Ho preso il pane e fatto la spesa.»

    «Scusami Luca ma ho dimenticato di dirti che, oltre alla spesa, devi andare a prendere l’acqua.»

    «Non potevi dirmelo

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