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Una ragazza bugiarda
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E-book357 pagine11 ore

Una ragazza bugiarda

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Info su questo ebook

Il thriller di cui tutti parlano

Denunciare la propria madre a soli quindici anni può essere straziante. Dopo quella decisione, la vita di Annie è completamente cambiata. Ora ha un nuovo nome, Milly, e vive insieme alla sua nuova famiglia: Mike, la moglie Saskia e la figlia, Phoebe. Adattarsi ai loro ritmi e alle loro abitudini è molto più complicato di quanto avesse pensato. E il pensiero del processo che si avvicina, nel quale sarà chiamata come testimone, non le dà tregua. Mike, che inizialmente aveva richiesto l’affidamento di Milly sperando di poterla aiutare, è sopraffatto dai suoi impegni di psicoterapeuta. Saskia riesce a malapena a gestire la figlia naturale, e non è in grado di occuparsi anche di quella adottiva. Phoebe ha reagito malissimo all’arrivo di Milly: è sempre di malumore, vorrebbe che se ne andasse e, per rivalsa, comincia a maltrattarla, spalleggiata dalle amiche. Milly si sente isolata e in cerca di sostegno. Avrebbe assoluto bisogno di qualcuno che le desse ascolto: ci sono segreti che riguardano i crimini di sua madre, di cui sa molto di più di quanto non abbia confessato. Eppure nessuno sembra disposto a farlo…

Uno degli esordi più attesi dell’anno
Subito in testa alle classifiche inglesi a pochi giorni dall’uscita
Diritti di traduzione venduti in 20 Paesi

«Il nuovo La ragazza del treno. Questo thriller psicologico è impressionante.»
Cosmopolitan

«Scomodo, scioccante e coinvolgente. Un consiglio: mettete questo libro in cima alla lista delle vostre letture.»
The Sun

«Inquietante. Cattura la nostra attenzione dalla prima pagina. Tutto in questo libro è degno di elogio.»
The Guardian

«Non è solo un fantastico thriller, ma è un’immersione nella psicologia della protagonista. Ci vuole raffinatezza e un equilibrio perfetto per far funzionare una storia oscura come questa. L’autrice non ha mai incertezze e la sua scrittura è ipnotizzante.»
Julia Heaberlin, autrice di Gli occhi neri di Susan

«Affascinante. Di sicuro sarà un libro di cui si parlerà molto quest’anno!»
Daily Express

«La storia avvincente di un’adolescente in attesa di testimoniare al processo contro uno spietato criminale. Inquietante e indimenticabile.»
Heat
Ali Land
Dopo la laurea in Psicologia, ha trascorso dieci anni lavorando negli ospedali e nelle scuole di Regno Unito e Australia. Adesso è una scrittrice a tempo pieno e vive nel nord di Londra. Una ragazza bugiarda è in corso di traduzione in venti Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2017
ISBN9788822705686
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    Anteprima del libro

    Una ragazza bugiarda - Ali Land

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    1597

    Titolo originale:Good Me Bad Me

    Copyright © Bo Dreams Ltd, 2017

    The moral right of the author has been asserted

    Original English language edition first published

    by Michael Joseph, UK

    Michael Joseph is part of the

    Penguin Random House group of companies

    whose addresses can be found at

    global.penguinrandomhouse.com

    Traduzione dall’inglese di Angela Ricci

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0568-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Sandro Ristori

    Ali Land

    Una ragazza bugiarda

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Alle infermiere psichiatriche

    di tutto il mondo

    Le vere rockstar.

    Questo libro è per voi.

    Ma i cuori dei bambini sono organi delicati. E un inizio crudele nel mondo può piegarli in forme strane.

    Carson McCullers, 1917–1967

    Avete mai sognato un posto molto, molto lontano? Io sì.

    Un campo di papaveri.

    Piccoli ballerini rossi, che volteggiano inebriati.

    Piegano i loro petali per indicare un sentiero, che porta alla spiaggia. Pulita. Incontaminata.

    Io fluttuo, di schiena. Oceano turchino. Cielo blu.

    Niente. Nessuno.

    Quanto vorrei sentire queste parole: «Non lascerò che ti accada mai nulla». Oppure: «Non è stata colpa sua, era solo una bambina».

    Sì, sono questi i miei sogni.

    Non so che cosa mi succederà. Sono spaventata.

    Diversa. Non ho mai avuto un’opportunità.

    Lo prometto.

    Prometto che mi sforzerò al massimo per essere una buona persona. Prometto che farò del mio meglio.

    Prometto che ci proverò.

    Otto gradini. Altri quattro.

    La porta sulla destra.

    Il parco giochi.

    È così che lo chiamava.

    Dove si facevano giochi malvagi

    e il vincitore era sempre lo stesso.

    Quando non era il mio turno, lei mi faceva guardare.

    Un buco nella parete.

    E poi mi chiedeva: che cosa hai visto, Annie?

    Che cosa hai visto?

    1

    Perdonami quando ti dico che sono stata io.

    Sono stata io a parlare.

    Il detective. Un uomo gentile, con un bel pancione tondo. All’inizio era incredulo. Poi ho tirato fuori dalla borsa la salopette macchiata. Così piccola.

    L’orsacchiotto sul davanti era tutto schizzato di sangue. Avrei potuto portarne anche altre, ne avevo tante tra cui scegliere. Lei non ha mai saputo che le conservavo.

    Il detective si è spostato sulla poltrona. Un rapido scatto in avanti. Del suo corpo e del suo istinto.

    La sua mano. Ho visto che tremava mentre prendeva il telefono. Vieni, ha detto. Devi ascoltare. L’attesa silenziosa prima che arrivasse il suo superiore. Sopportabile, per me. Non così tanto per lui. Centinaia di domande che gli martellavano nella testa. Sta dicendo la verità? Non può essere, no? Impossibile. Così tanti? Tutti morti? Certo che no.

    Ho raccontato di nuovo tutta la storia. E poi di nuovo. Era sempre la stessa. A essere diverse erano le facce che mi guardavano, le orecchie che mi ascoltavano. Ho detto loro tutto.

    Be’.

    Quasi tutto.

    Il videoregistratore acceso, solo un ronzio sommesso che era l’unico rumore nella stanza mentre terminavo la mia deposizione.

    Forse andrai di fronte al giudice, lo sai, vero? Sei l’unica testimone, ha detto uno dei detective. Dici che possiamo rimandarla a casa, ha chiesto un altro. E se quello che dice è vero? Metteremo insieme una squadra in poche ore, ha risposto il capo, non ti succederà niente. Mi è già successo, volevo rispondere.

    Dopo le cose sono andate più veloci. Era inevitabile. Mi hanno lasciato davanti alla scuola, con una macchina anonima, in tempo per farmi venire a prendere. Da lei. Mi stava aspettando, lei con le sue richieste, ultimamente più pressanti del solito. Due negli ultimi sei mesi. Due bambini. Spariti.

    Comportati normalmente, hanno detto. Va’ a casa. Verremo a prenderla. Stanotte.

    Il ticchettio lento dell’orologio sopra l’armadio. Tic. Tac. Tic. Lo hanno fatto davvero. Sono venuti. Nel cuore della notte, sfruttando l’elemento sorpresa. Uno scalpiccio quasi impercettibile sulla ghiaia all’esterno, io ero già al piano di sotto quando sono entrati forzando la porta.

    Grida. Un uomo alto e magro, abiti normali, non come gli altri. Una serie di ordini che fendevano l’aria pesante del nostro salotto. Voi, di sopra. Voi, di là. Voi due, la cantina. Voi. Voi. Voi.

    Una marea di uniformi blu sparpagliate per tutta la casa. Le pistole strette tra le mani giunte e premute al petto. Il brivido della ricerca contorceva i loro lineamenti. Quello, e il terrore della verità.

    Poi tu.

    Trascinata fuori dalla tua stanza. La piega rossa lasciata dal cuscino sulla tua guancia, lo sguardo confuso di chi in un attimo precipita dal sonno alla realtà. Non hai detto niente. Nemmeno quando ti hanno schiacciato la faccia sul tappeto e ti hanno letto i tuoi diritti, con le ginocchia e i gomiti premuti sulla schiena. La camicia da notte sollevata sulle cosce. Niente mutandine. L’oltraggio, la vergogna di tutto.

    Hai voltato la testa di lato. Verso di me. I tuoi occhi non hanno mai lasciato i miei, riuscivo a leggerli senza difficoltà. Non hai detto niente a loro, e allo stesso tempo tutto a me. Ho annuito.

    Ma solo quando nessuno mi guardava.

    2

    Nuovo nome. Nuova famiglia.

    Nuova.

    Splendida.

    Me.

    Il mio padre affidatario, Mike, è uno psicologo, esperto in traumi. Come Phoebe, sua figlia. Solo che la specialità di Phoebe è causarli, non curarli. Saskia è la madre. Credo che stia tentando di farmi sentire a casa, ma non ne sono molto sicura. È molto diversa da te, mamma. È secca secca e vuota.

    Che fortuna, mi ha detto lo staff del reparto mentre aspettavo che arrivasse Mike. I Newmont sono una famiglia stupenda, abitano a Wetherbridge. Wow. Wow. WOW. Okay, ho capito. Dovrei sentirmi fortunata, invece ho paura. Paura di scoprire chi sono e cosa potrei essere.

    E ho paura che anche loro lo scoprano.

    Mike è venuto a prendermi una settimana fa, verso la fine delle vacanze estive. Avevo i capelli pettinati e tirati indietro con un elastico, mi ero esercitata a parlare, mi sono chiesta se dovevo restare in piedi o seduta. Man mano che passavano i minuti e si sentivano un sacco di voci ma non la sua, semmai quella delle infermiere che scherzavano tra loro, mi convincevo sempre più che lui e la sua famiglia avessero cambiato idea. Che fossero rinsaviti. Sono rimasta ferma, immobile, in attesa che qualcuno mi dicesse mi dispiace, oggi non andrai da nessuna parte.

    Poi è arrivato. Mi ha salutata con un sorriso e una stretta di mano salda, non formale, ma gentile, sì, era bello sapere che non aveva paura di me. Di essere contaminato. Ricordo che ha notato che non avevo effetti personali, solo una piccola valigia. Dentro c’era qualche libro, dei vestiti e altre cose nascoste, ricordi di te. Di noi. Il resto l’avevano portato via come prova quando hanno saccheggiato la nostra casa. Non preoccuparti, ha detto lui, andremo presto a fare shopping. A casa ci sono Saskia e Phoebe, ha aggiunto, ceneremo insieme, un benvenuto come si deve.

    Abbiamo parlato con il caporeparto. Piano piano, ha detto, affronta un giorno alla volta. Volevo dirgli che erano le notti a farmi paura.

    Scambio di sorrisi. Strette di mano. Mike ha messo la sua firma, si è voltato verso di me e mi ha detto: pronta?

    No, in realtà no.

    Ma sono andata via con lui lo stesso.

    Il viaggio in macchina non è durato tanto, meno di un’ora. Tutte quelle strade e i palazzi erano nuovi per me. C’era ancora luce quando siamo arrivati, una casa grande, con delle colonne bianche. Tutto okay?, mi ha chiesto Mike. Ho annuito anche se non mi sentivo okay. Ho aspettato mentre apriva la porta d’ingresso e mi è saltato il cuore in gola quando ho visto che non era chiusa a chiave. Siamo entrati subito. Avremmo potuto benissimo essere dei malintenzionati. Lui ha chiamato sua moglie, l’avevo già incontrata qualche volta. Sas, ha detto, siamo a casa. Sto arrivando, ha risposto. Ciao Milly, ha detto, benvenuta. Ho sorriso, ho pensato che fosse la cosa giusta da fare. Anche Rosie, il loro terrier, mi ha salutata, mi è saltata sulle gambe e ha starnutito di gioia quando ho allungato la mano e le ho grattato le orecchie. Dov’è Phoebs, ha chiesto Mike. A casa di Clondine, sta tornando, ha risposto Saskia. Perfetto, ha detto lui, allora ceniamo tra una mezz’ora. Ha suggerito a Saskia di farmi vedere la mia stanza. Ricordo che le ha fatto un cenno con il capo, come una specie di incoraggiamento. Per lei, non per me.

    L’ho seguita su per gli scalini, sforzandomi di non contarli. Nuova casa. Nuova me.

    Ci siete solo tu e Phoebe al terzo piano, ha spiegato Saskia, noi siamo di sotto. Ti abbiamo dato la camera sul retro, dal balcone c’è una bella vista sul giardino.

    La prima cosa che ho visto è il giallo dei girasoli. Il loro colore vivace. Dei sorrisi in vaso. L’ho ringraziata, le ho detto che erano tra i miei fiori preferiti e lei mi è sembrata contenta. Sentiti libera di dare un’occhiata in giro, ha detto, ci sono dei vestiti nell’armadio, poi te ne compreremo altri ovviamente, potrai sceglierli tu. Mi ha chiesto se mi serviva qualcosa, ho risposto di no e lei è andata via.

    Ho posato la valigia e sono andata alla portafinestra del balcone, a controllare se era chiusa. Sbarrata. A destra l’armadio, alto e di legno di pino antico. Non ho guardato dentro, non volevo pensare all’idea di metterci dentro i vestiti, di togliermeli. Mi sono girata e ho visto dei cassetti sotto il letto, li ho aperti, ho passato la mano sul fondo e sui lati. Non c’era niente. Al sicuro, per adesso. Un bagno grande, la parete di destra tutta coperta da uno specchio. Ho distolto lo sguardo dal mio riflesso, non volevo che mi trasmettesse dei ricordi. Ho controllato che la serratura della porta del bagno funzionasse e non si potesse aprire dall’esterno, poi mi sono seduta sul letto e ho provato a non pensare a te.

    Dopo un po’ ho sentito dei passi salire le scale. Ho provato a restare calma, a ricordare gli esercizi di respirazione che mi aveva fatto vedere lo psicologo, ma mi sentivo stordita e quando lei è comparsa sulla porta mi sono concentrata sulla sua fronte. Il contatto visivo più intenso che potevo permettermi. La cena è pronta, e la sua voce era morbida come le fusa di un gatto, cremosa, con una punta di malizia, esattamente come la ricordavo da quell’incontro con gli assistenti sociali. Non potevamo vederci al reparto, lei non poteva sapere la verità, né avere la possibilità di immaginarsela. Ricordo di essermi sentita intimidita. Il suo aspetto, bionda e sicura di sé, annoiata, costretta ad accogliere una sconosciuta in casa sua. Durante l’incontro aveva chiesto per due volte quanto sarei rimasta. E per due volte era stata azzittita.

    Papà mi ha chiesto di venirti a chiamare, ha detto con le braccia incrociate sul petto. Sulla difensiva. Ho visto lo staff del reparto decifrare il linguaggio del corpo dei pazienti, etichettarlo. Ho guardato tutto in silenzio, ho imparato molte cose. Sono passati diversi giorni ormai, ma l’ultima cosa che mi ha detto prima di girare sui tacchi come una ballerina piena di rabbia mi è rimasta in testa: ah, benvenuta nella casa dei matti.

    Ho seguito il suo odore dolce e rosa fino alla cucina, fantasticando su cosa si provasse ad avere una sorella. Che genere di sorelle saremmo potute diventare noi. Lei sarebbe stata Meg, ho pensato, e io Jo, la nostra versione di Piccole Donne. Al reparto mi avevano detto che la speranza era la mia arma migliore, che mi avrebbe aiutata a superare tutto.

    E come una sciocca io ci ho creduto.

    3

    Quella prima notte ho dormito con i miei vestiti. I pigiami di seta che Saskia aveva scelto per me sono rimasti inutilizzati, li ho toccati solo per spostarli dal letto. Il tessuto scivoloso sulla mia pelle. Adesso riesco a dormire meglio, anche se non per tutta la notte. Sono molto migliorata da quando ti ho lasciata. Al reparto mi hanno detto che per i primi tre giorni non ho parlato. Sono rimasta seduta sul letto, con la schiena contro la parete. Con gli occhi fissi. In silenzio. Hanno detto che era lo shock. È qualcosa di peggio, volevo dire. Qualcosa che entrava nella mia stanza tutte le volte che mi concedevo di dormire un po’. Arrivava strisciando, sotto la porta, e mi sibilava contro, diceva che era la mia mamma. Lo fa ancora.

    Quando non riesco a dormire non conto le pecore, conto i giorni che mancano al processo. Io contro di te. Tutti contro di te. Lunedì saranno dodici settimane. Ottantotto giorni, il conto alla rovescia prosegue. Li conto e li riconto. Li conto finché non mi metto a piangere e poi ancora finché non smetto, e so che è sbagliato ma da qualche parte tra quei numeri cominci a mancarmi. Dovrò lavorare molto da qui ad allora. Ci sono cose che devo rimettere a posto nella mia testa. Cose che dovrò saper spiegare, se mi toccherà parlarne davanti alla corte. Molte cose possono andare male quando tanti occhi guardano nella stessa direzione.

    Mike ha un ruolo importante nel lavoro che devo fare. Il piano terapeutico elaborato da lui e dallo staff del reparto prevede una seduta a settimana fino al processo. È un’opportunità di discutere qualsiasi dubbio o preoccupazione con lui. Ieri ha suggerito di farla il mercoledì, a metà settimana. Ho detto di sì, ma non perché lo volessi. È perché lo voleva lui. Crede che mi aiuterà.

    Domani comincia la scuola, siamo tutti in cucina. Phoebe sta dicendo grazie a Dio, non vedevo l’ora di tornare, di uscire di casa. Mike ci ride su, Saskia ha l’aria triste. Nell’ultima settimana ho notato che c’è qualcosa che non va tra madre e figlia. Coesistono in maniera quasi del tutto indipendente l’una dall’altra, l’unico mediatore, l’intermediario, è Mike. A volte Phoebe la chiama Saskia, non mamma. La prima volta che l’ho sentito pensavo che sarebbe stata punita, ma no. Non che io sappia. E poi non le ho viste toccarsi neanche una volta, e credo che toccarsi sia una manifestazione di amore. Non intendo il toccarsi che hai sperimentato tu, Milly. C’è un toccarsi buono e un toccarsi cattivo, mi hanno detto al reparto.

    Phoebe annuncia che sta uscendo, deve incontrare una certa Izzy, che è appena tornata dalla Francia. Mike suggerisce di portare anche me, di presentarmi. Lei alza gli occhi al cielo e dice avanti, non ho visto Iz per tutta l’estate, posso presentargliela domani. Sarebbe bello per Milly incontrare una delle tue amiche, insiste lui, potresti portarla in qualcuno dei posti dove andate di solito. Va bene, acconsente lei, ma non capisco perché devo farlo.

    «È carino da parte tua», dice Saskia.

    Phoebe punta gli occhi su sua madre. Continua a fissarla, e alla fine ha la meglio. Saskia distoglie lo sguardo, ha le guance rosse.

    «Stavo solo dicendo che ti sei comportata da persona gentile, tutto qui».

    «Be’, nessuno te l’ha chiesto, no?».

    Aspetto una reazione, con una mano o con un oggetto. Invece niente. Solo Mike.

    «Per favore, non parlare così a tua madre».

    Quando usciamo c’è una ragazza in tuta da ginnastica seduta sul muro di fronte al nostro vialetto. Ci guarda passare. Phoebe le dice vaffanculo stronzetta, trovati un altro muro. La ragazzina risponde mostrandole il dito medio.

    «Chi era?», chiedo.

    «Solo una poveraccia del condominio».

    Con un cenno del capo indica i palazzoni sul lato sinistro della nostra strada.

    «Comunque non ti ci abituare, quando la scuola ricomincia sul serio mi farò gli affari miei».

    «Okay».

    «La strada privata laggiù passa oltre il nostro giardino, non c’è granché, solo qualche garage e roba così, ma di là si fa prima ad arrivare a scuola».

    «A che ora esci di solito la mattina?»

    «Dipende. Di solito mi vedo con Iz e andiamo insieme. A volte ci fermiamo da Starbucks e restiamo lì per un po’, ma questo semestre c’è il campionato di hockey e io sono il capitano, perciò quasi tutte le mattine uscirò prima per gli allenamenti e roba del genere».

    «Devi essere brava se sei il capitano».

    «Immagino di sì. E tu che mi dici? Dove sono i tuoi?».

    Sento una mano invisibile alla bocca dello stomaco, stringe forte e non mi lascia andare. La testa che si riempie di nuovo. Rilassati, mi dico, mi sono esercitata a rispondere a queste domande con lo staff del reparto, un sacco di volte.

    «Mia madre se n’è andata quando ero piccola. Ho vissuto con mio padre, poi lui è morto un po’ di tempo fa».

    «Cazzo, è davvero una merda».

    Annuisco e non aggiungo altro. Il silenzio è d’oro, così mi hanno detto.

    «Papà probabilmente ti ha già fatto vedere qualcosa la settimana scorsa, ma alla fine della nostra strada, proprio qui, c’è una scorciatoia per la scuola».

    Indica verso destra.

    «Attraversi la strada, prendi la prima a sinistra e poi la seconda a destra. Da lì sono cinque minuti».

    Faccio per ringraziarla, ma qualcosa la distrae e sul suo volto compare un sorriso. Seguo il suo sguardo e vedo una ragazzina bionda che attraversa la strada per venire da noi, mandando baci come una pazza. Phoebe ride e la saluta con la mano, e mi dice che quella è Iz. Le sue gambe abbronzate risaltano contro i jeans strappati, corti. È carina, come Phoebe. Molto carina. Osservo il modo in cui si salutano e si abbracciano e cominciano a parlare a mille all’ora. Fioccano domande e risposte, poi tirano fuori i cellulari e si mostrano le foto a vicenda. Ridacchiano parlando di ragazzi e di una ragazza di nome Jacinta, Izzy dice è fichissima in bikini, ti giuro che quando è entrata in acqua tutta la cazzo di piscina si è svuotata. La conversazione in realtà dura solo pochi minuti, ma a me sembrano ore. È imbarazzante sentirsi così ignorata. Poi Izzy mi guarda e chiede a Phoebe: «Allora lei chi è, l’ultimo acquisto del centro di soccorso di Mike?».

    Phoebe ride e risponde: «Si chiama Milly. Starà da noi per un po’».

    «Pensavo che tuo padre non prendesse più nessuno a casa».

    «Che ci vuoi fare. Sai che non riesce a trattenersi con i casi umani».

    «Vieni a Wetherbridge?», mi chiede Izzy.

    «Sì».

    «Sei di Londra?»

    «No».

    «Hai un ragazzo?»

    «No».

    «Ehi ma parli sempre come un robot? Sì. No. No». Agita le braccia e simula un suono meccanico, come Dalek nell’episodio del Doctor Who che ho visto al corso di teatro nella mia vecchia scuola. Scoppiano a ridere tutte e due, poi ricominciano a guardare i cellulari. Vorrei poter spiegare che parlo così lentamente e scandisco con tanta precisione le parole solo quando sono nervosa, e anche per filtrare il rumore. Il rumore bianco, quello in cui ogni tanto c’è la tua voce. Persino adesso, soprattutto adesso, sei qui, nella mia testa. Comportarti normalmente non ti richiedeva grandi sforzi, ma per me è come scalare una montagna. Quanto ti amavano al lavoro, era sempre una sorpresa per me. Niente violenza né rabbia, il tuo sorriso gentile, la tua voce rassicurante. Li tenevi in pugno, li isolavi l’uno dall’altro. Prendevi da parte le donne e parlavi loro all’orecchio. Le facevi sentire al sicuro. E amate. Ecco perché ti affidavano i loro figli.

    «Magari torno a casa, non mi sento bene».

    «Okay», risponde Phoebe, «ma non mettermi nei guai con papà».

    Izzy alza la testa e mi rivolge un sorriso provocatorio. «Ci vediamo a scuola», dice, e mentre mi allontano la sento aggiungere: «Potrebbe essere divertente».

    La ragazzina in tuta non è più sul muretto. Mi fermo a guardare i palazzoni che arrivano fino al cielo, il mio collo si piega all’indietro. Non ci sono palazzoni nel Devon, solo case e campi. Ettari interi di privacy.

    Quando torno a casa, Mike mi chiede dov’è Phoebe. Gli racconto di Izzy e lui sorride, credo per scusarsi.

    «Sono amiche da sempre», dice. «E devono aggiornarsi sull’intera estate. Ti va di fare una chiacchierata nel mio studio? Facciamo un po’ il punto prima che cominci la scuola domani?».

    Rispondo di sì. Dico di sì un sacco di volte ultimamente, è una buona parola, mi ci posso nascondere dietro. Lo studio di Mike è una stanza grande con delle finestre a bovindo che si affacciano sul giardino. Una scrivania color mogano, una cornice, una lampada verde finto-antico, pile di giornali. C’è anche la biblioteca di casa, con file di scaffali a muro pieni di libri, mentre il resto delle pareti è color malva. Sembra tutto molto solido. Sicuro. Lui si accorge che sto guardando gli scaffali e ride. Lo so, lo so, dice, sono troppi, ma detto tra me e te, non credo sia possibile avere troppi libri.

    Annuisco, sono d’accordo.

    «C’era una bella biblioteca nella scuola che frequentavi?», chiede.

    Non mi piace quella domanda. Non mi piace pensare alla vita di prima. Ma rispondo lo stesso, per mostrarmi disponibile.

    «Non era granché, ma nel villaggio vicino ce n’era una, ogni tanto ci andavo».

    «Leggere è molto terapeutico. Fammi sapere se vuoi prendere in prestito qualche libro. Come vedi ne ho in abbondanza».

    Mi fa l’occhiolino, però non in quel modo che mi mette a disagio, e mi fa cenno di sedermi su una poltrona. E rilassarmi. Mentre mi siedo mi accorgo che la porta dello studio non è aperta. Mike deve averla chiusa mentre io guardavo i libri. Indica la poltrona su cui sono seduta.

    «Comoda, vero?», dice.

    Annuisco e cerco di sembrare più rilassata e a mio agio. Voglio fare le cose per bene. È anche reclinabile, aggiunge lui, devi solo tirare la levetta sul lato, fallo, se ti va. Non mi va e non lo faccio. Immagino di stare con qualcuno in una stanza, su una sedia reclinabile, distesa di schiena. No. Non mi piace l’idea.

    «So che ne abbiamo già parlato al reparto prima che ti dimettessero, ma è molto importante ritornare con calma sul nostro accordo prima che le prossime settimane di scuola ti fagocitino».

    Comincio ad agitare un piede. Lui se ne accorge.

    «Non mi sembri convinta».

    «Non molto».

    «Ti chiedo solo di aprire la mente, Milly. Prendi queste sedute come un momento di relax, in cui fare una pausa e respirare un po’. Mancano meno di tre mesi all’inizio del processo, perciò dedicheremo un po’ di tempo a prepararci per quel momento, ma continueremo anche con le tecniche di rilassamento che hai cominciato con lo psicologo del reparto».

    «Dobbiamo farlo ancora?»

    «Sì, sul lungo periodo ti sarà utile».

    Come faccio a dirgli che non è vero. Non è vero, se le cose che mi fanno paura troveranno il modo di uscire.

    «Fa parte della natura umana cercare di evitare le cose da cui ci sentiamo minacciati, Milly, le cose che ci fanno sentire come se perdessimo un po’ il controllo. Eppure è importante non sottrarsi. Cominciare un percorso che ti permetterà di mettere via alcune cose. Vorrei che pensassi un posto in cui ti senti al sicuro, ti chiederò qual è nella prossima seduta. All’inizio potrà sembrarti una cosa difficile, ma ho bisogno che ci provi. Può essere qualsiasi posto, una classe della tua vecchia scuola, l’autobus che prendevi di solito».

    Mi accompagnava lei a scuola. Tutti i giorni.

    «O qualche posto nel villaggio vicino al tuo, per esempio il bar della biblioteca di cui mi hai parlato. Va bene un luogo qualsiasi, basta che tu vi associ delle sensazioni confortanti. Capisci cosa intendo?»

    «Ci provo».

    «Bene. Ora, come ti senti riguardo a domani? Non è mai facile essere la ragazza nuova a scuola, vero?»

    «Spero di avere tanto da fare, mi aiuterà».

    «Bene, stai serena e vacci piano, Wetherbridge sa essere impegnativa, ma non ho dubbi che ce la farai. C’è qualcos’altro di cui ti va di parlare, o che vuoi chiedere, qualcosa che ti fa sentire insicura, magari?».

    Tutto.

    «No, grazie».

    «Allora per stasera può bastare, ma se tra adesso e la prossima seduta viene fuori qualcosa, la mia porta è sempre aperta».

    Mentre torno in camera mia la frustrazione mi invade: Mike vuole continuare con l’ipnosi. Pensa che se le chiama tecniche di rilassamento io non capirò di cosa sta parlando, ma si sbaglia. Al reparto ho sentito lo psicologo dire a un suo collega che le tecniche di ipnosi che stava usando con me potevano essere un buon modo per scardinarmi. Meglio lasciare tutto chiuso, avrei voluto rispondergli.

    Quando passo davanti alla stanza di Phoebe sento della musica, dev’essere tornata. Raccolgo tutto il mio coraggio e busso alla sua porta, voglio chiederle cosa devo aspettarmi domani a scuola.

    «Chi è?», grida lei.

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