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Sul nesso quantità-qualità: Un contributo teorico al rapporto tra Materia e Spirito
Sul nesso quantità-qualità: Un contributo teorico al rapporto tra Materia e Spirito
Sul nesso quantità-qualità: Un contributo teorico al rapporto tra Materia e Spirito
E-book332 pagine5 ore

Sul nesso quantità-qualità: Un contributo teorico al rapporto tra Materia e Spirito

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Questo libro intende scrutare nel profondo il sistema di relazioni generali che si sono venute a determinare nella società reale, tra la diffusione del capitalismo in Occidente ed il persistere di una mentalità radicata, in primo luogo, sulla materia, qui vista ed esaminata come mera matrice quantitativa. In particolare il testo osserva come, perdurando il “teorema quantitativo”, lo stesso determini un’involuzione ed un ridimensionamento dell’altro corno del dualismo che è la qualità. Ricacciata nel profondo di totali accademismi, essa è riuscita ad emergere solo quando ha saputo parlare sopra al quanto, avallandone le ideologie dirimenti e determinandone un’esplosione del consenso. Per altri versi, assimilato all’Io morale, il quale ha sempre perduto la scommessa con l’Es epocale, qui curiosamente esaminato come l’elemento di prensilità e di bieco potere – possesso che fa parte delle coordinate generali dell’uomo, qui visto come inconscio collettivo. E non è il solo riferimento alla psicoanalisi.
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita11 feb 2013
ISBN9788867520367
Sul nesso quantità-qualità: Un contributo teorico al rapporto tra Materia e Spirito

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    Anteprima del libro

    Sul nesso quantità-qualità - Giancarlo Carioti

    Giancarlo Carioti

    Sul nesso quantità-qualità

    Un contributo teorico al rapporto tra Materia e Spirito

    Abel Books

    George Grosz : Le colonne della società (1926), olio su tela. Berlino Staatliche Museen.

    Proprietà letteraria riservata

    © 2013 Abel Books

    Tutti i diritti sono riservati. È  vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Abel Books

    via Terme di Traiano, 25

    00053 Civitavecchia (Roma)

    ISBN 9788867520367

    INTRODUZIONE

    Il sottile discrimine che unisce e dissipa il rapporto: Quantità-Qualità è intimamente connesso all’estrinsecazione del Modello Occidentale, intendendo per modello lo status ascrittivo del sistema socio-economico europeo e mondiale, con evidenti ricadute politiche circa la condizione della facies legittimante.

    Dimostreremo di seguito come il Modello quantitativo abbia avuto nei secoli una straordinaria prevalenza sull’altro, a meno che lo stesso non abbia dato chiari segni di volervisi adeguare(1). È il caso del rapporto tra capitalismo e religione, per dirne uno, ma anche di predisposizione al profitto come molla preponderante ma quanto contraddittoria di petizione al Quanto rispetto ad altri tipi di pressante richiesta, circa, soprattutto, un’economia solidamente avvitata al parametro qualitativo. Se questo è il meccanismo di base, resta però evidente che la pura QUANTITÀ non è sufficiente ad imprimere, da sola, una spinta dirimente verso l’affermazione di un modello puramente COSALE, se non si tiene conto che la sovrastruttura (2) ha avuto ed ha una decisiva importanza nel determinare, soventemente, l’esito finale delle vicende socio-politiche che si sono succedute nel corso delle epoche storiche. Ciò che qui andiamo configurando è il segno manifesto dell’incidenza della Storia Materiale su altre componenti della vita eziologica complessiva, quindi con preponderanze legittime della materia sullo spirito, almeno sin là dove essa è stata legittimata dall’equazione MATERIA-NECESSITÀ, da intendersi qui come portato indispensabile che la materia ha nella gestione della vita umana, sin quando prevale il BISOGNO, sin quando cioè le esigenze riproduttive della società sono legate alla condizione NECESSARIA, nel senso di essere espressione del bisogno sociale che, dalla scarsità della materia, deduce leggi necessitanti atte ad imprimere prevalenza al dato quantitativo, anche a scapito di una qualità che appare, in certo senso, pleonastica.

    Ma, come accennavo, non v’ha dubbio che anche questa egemonia della materia è messa a dura prova da fughe dello spirito che forse completano e rendono leggibile la categoria della qualità, anche da parte della stessa quantità, nel senso, e lo vedremo, che quest’ultima si ferra di cause ideologiche, lì dove ravvisi il terreno comune alla vittoria dell’equazione quantitativa. Prendiamo la guerra dei trent’anni (3); non v’ha dubbio che essa sia scatenata dal redde rationem con cui le Monarchie europee cercano la resa dei conti con gli Asburgo, per prevenire le loro mire espansionistiche e strappare territori e mercati vantaggiosi al capitale dalla loro gestione moderata; resta indubbio però che essa è, anche, l’ultima guerra di Religione, con cui i Principi Boemi, che in uno chiedono autonomia dall’Impero, richiedono che vengano applicati i principi della Pace di Augusta (1555), con cui Carlo V accordò libertà di culto a Cattolici e Protestanti, e che le successive intransigenze degli Imperatori, fomentate dalla Cattolicissima Spagna, in pratica subornarono, a danno della egemonica posizione di preponderanza dei Calvinisti nei confronti della Chiesa tradizionale. Leggiamoci pure la lotta per il potere, troviamoci anche la preponderanza dello spirito capitalistico (4) che la religione professava: vi troveremo comunque due inscindibili componenti che, a torto, il capitalismo plebeo cerca di ignorare, senza avvedersi che la sovrastruttura si è stavolta allegata alla struttura quanto-materiale, da cui consegue una vittoria di entrambi gli schieramenti, se è vero che l’Impero entra in crisi verticale, e la Spagna bigotta e piagnona sconta una profonda decadenza che, grandi autori come B. Croce (5), hanno nei fatti evidenziato e descritto.

    Ma non sempre è così, nella misura in cui, non sempre, la quantità ravvisa nell’alleanza strategica col quale i caratteri impositivi della vittoria storica. Vi sono casi per cui la mera Quantità, prescindendo da ogni forma morale, si prende una secca distanza dai caratteri qualitativi espressi dalla stessa, imponendo il suo digitur. Cosa che si verifica, ad esempio, nel ‘700, quando l’Inghilterra, già puritana, separa nettamente la Scienza del capitale da ogni forma di ingresso moralistica, costringendo la Chiesa a bofonchiare inutilmente contro l’usura delle grandi ricchezze private che, taluni critici, considerano intangibili, anche a danno della miseria cronica del popolo, considerata come condizione indispensabile per il mantenimento dei privilegi di taluni capitalisti (6). In questo caso il capitale isola la morale, introducendone una sua, che, niente altro è, se non il portato della protervia di pochi su tutti, come le lettere di E. Burke ci hanno tramandato. Lo stesso accade con la guerra, quando essa è mera espressione della torva volontà di conquista da parte degli Stati, o, soventemente, immagine degli interessi economici determinanti, come succede alle guerre coloniali, sino a tutto il 1870. Eventi catastrofici come i due conflitti mondiali sono il segno manifesto di un’offesa che il teorema del puro quanto incide sulla pelle del qualitativo, benché accada anche questo: che cioè gli istanti i conflitti si dotino di un’ideologia della guerra, che passa per qualità relativa, cioè morale ideologica, attorno a cui si avvita, addirittura, un consenso tra i governanti ed i popoli, segno, mi pare, di un’inevitabile commistione tra struttura e sovrastruttura.

    Che ne è, ad oggi, di questa rapportualità? Forse non erriamo, sostenendo che il peso di una maggiore QUALITÀ va facendosi strada nel contesto dei generali rapporti QUANTITATIVI. Oggi, tanto da parte degli uomini pubblici, quanto da quello che resta del capitalismo, è tutto un impetrare una crescente collocazione del mondo in una teoria qualitativa. Così l’industria scopre la qualità, mentre qualitativo ed armonico diventa il rapporto tra popoli e stati, che hanno giustamente fatto, di 60 anni ininterrotti di pace, il vessillo di nuovi rapporti etici tra nazioni. Non che la quantità non abbia il suo peso, come, drammaticamente, si evidenziano le politiche di fiscal drag a sostegno del contenimento dei deficit spending; ma sempre più chiaro appare l’obiettivo che solo la qualità possa essere il giusto punto di approdo, in cui riconvertire la quantità in una giusta ETICA quanto-qualitativa. Ragione per cui, così impagineremo il libro:

    1) Una prima parte che ci parli prevalentemente delle politiche della quantità.

    2) Una seconda Sezione che illustri il peso assunto nella storia da parte dell’etica qualitativa.

    3) L’ultima Sezione che indicherà nel nuovo modello quanto-qualitativo, l’unico presupposto per una coesistenza tra quantità e qualità, qui da intendersi come rifondazione del rapporto tra materia e spirito (ossimoro).

    Questi aspetti concatenati risulteranno la sintesi di una serie di ricerche da me compiute, a far data da Prolegomena all’Etica Teorica, sino all’ultimo libro dal titolo: Per l’unità Etico-Estetica.

    PARTE I: IL TEOREMA QUANTITATIVO

    Il passato è un lusso da proprietari… Sporcaccioni!

    J. P. Sartre

    Capitolo I: IL MEDIOEVO, O L'ETÀ PALEO-MODERNA.

    Faremo qui di seguito espresso riferimento alle tematiche di tipo QUANTITATIVO, per significarne l’immanenza, dal momento che, a noi pare, si è nei fatti profilata un’egemonia quantitativa nel contesto del modello socio-politico-economico di tipo Occidentale, giacché ci sembra si sia determinata, tra Quanto e Quale, una vittoria del primo, anche se sarà nostro compito, nella 2° Sezione, di commentare le parti qualitative del modello, nella misura in cui la qualità ha interagito con la quantità, magari per ribadire e sottolineare la mera istanza quantitativa.

    Cominceremo l’osservazione storico-critica a partire dai secoli remoti, quando si leva, dopo il 1.000, una ventata di rinnovamento che scuote il mondo feudale, rattrappito nelle Riserve ed incapace di garantire pace e sviluppo democratico, essendo visualizzazione del protervo attacco del potere ai ceti più bisognosi, da cui conseguirono terribili effetti devastanti, come la gleba, ed in generale quella servitù che fa del popolo lo schiavo del Signore, tutto proteso a garantirsi poteri ed onori da satrapo e completamente avulso da ogni tipo di concessione ai subalterni. Come è noto la risposta fu la nascita della Libera Città, in cui i capitali che si erano arricchiti alle spalle del feudo, tra cui i balengi, va ad ingrossare le fila di una paleo-borghesia mercantile, che rappresenterà significativamente l’espressione della riconquistata libertà, su cui si ingaggerà, secolarmente, una lotta intestina con il feudo. Che questi mercanti (1) rappresentino, di gran lunga, il ceto forte delle nuove comunità urbane, è testimoniato dalla tendenza allo sviluppo ed all’accumulazione dei capitali civici, che porterà i Comuni a condizioni di privilegio, creando le premesse di quella nascita dello sviluppo economico, su cui si fissa, a partire dal ‘200, l’attenzione dell’osservatore che nota come, più che medioevo, questo sviluppo sia già un fatto moderno ed evoluto, che ci fa giustamente parlare di una crescita, in senso paleo-moderno (2).

    Noteremo due fasi nel commercio urbano: quella iniziale in cui lo sviluppo della città può definirsi come: non saturo; e quella successiva, a partire dalla seconda metà del XIII sec., in cui l’accumulazione raggiunge punte di saturazione, inducendo un’aspra lotta di tipo concorrenziale. Ma andiamo con ordine. Uno dei primi segnali forti che giunge dalle economie urbane in espansione è molto remoto. Esso, più o meno, coincide con quel Concilio di Clermònt con cui nel 1089, Urbano II bandisce la I Crociata, esso è cioè dipendente da un fattore extra-economico e di stampo sacro–mistico, in cui, come si sa giurarono fedeltà al Papa ed alla sua sacra missione, molti principi Europei che, apparentemente, condividevano gli scopi della missione in terra d’Oriente. In realtà spingeva, alle spalle, questo arcaico capitalismo delle città, il quale fiuta il grande AFFARE, cioè mettere le mani sulle immense ricchezze di quelle sponde estreme, costituendo dei possessi, che poi di fatto prosperarono,tant’è che il forte Comune di Venezia ha già, nel 1100 corrispondenti finanziari in Egitto e Siria, mentre con la Contea di Tripoli,il Regno di Gerusalemme (Goffredo di Buglione) ed il Principato di Antiochia (Boemondo) si costituiscono nei fatti i primi principati Europei in Medio Oriente, giustificando in sostanza l’apparente fanatismo con cui i Principi avevano aderito entusiasticamente alla proclamazione del Papa, circa la necessità di strappare all’infedele il sacro soglio in cui era seppellito il Redentore. Forti di questo, i Papi, di già in aperta rottura con l’Impero –il movimento cluniacense è già nato così come quel Dictatus Papae con cui Gregorio VII (1073-1085) nel 1075 metteva in mora e scomunicava Enrico IV, imperatore, che nel 77 si umilia a Canossa –chiesero, da allora in poi crescenti appoggi al Potere Temporale, allo scopo di convertire l’infedele, lì dove, vedemmo, il Potere Politico trovava vantaggiose quelle spedizioni per esorbitare l’espansione verso territori vergini.

    La storia urbana è pertanto contrassegnata da avvicendamenti di classi in espansione, in cui domina la figura del mercante-imprenditore, cui si affiancano gli altri ceti sociali, dagli artigiani ai contadini. Dico contadini, non a caso, giacché caratteristica della città, almeno nel caso Italiano, è quella di avere un comprensorio agricolo extra moenia, con cui solitamente scambiare manufatti produttivi con merci base atte alla alimentazione. La città, cioè si organizza per Contadi ed è dalla velocità di rotazione, oltre che dal raggio chilometrico dello scambio, che dipende la capacità egemonica del Comune nei confronti di altre unità territoriali, nella misura in cui caratteristica essenziale della politica inter-comunale è la concorrenza e la lotta per il predominio in materia di possesso e di vantaggio di scorte di merci lucrative. Sino a quando la produzione di merci è di tipo non saturo, e la possibilità di scambio con l’hinterland agricolo è di agevole praticabilità, la politica cittadina (3), è improntata a cooperazione anche con i mercanti stranieri, nel senso che il commercio è quasi sempre di tipo ambulante e subisce, da parte delle autorità comunali, questa o quella restrizione, in gran parte espressa dal gravame di tasse sulla possibilità di esercitare il commercio in terra forestiera, lì dove esiste, almeno nei primi tempi, una forte selettività circa la prelazione del tipo di merce primaria, o meno,da allocare nella griglia di appetibilità dei prodotti in vendita. Quasi sempre, soprattutto se il Comune non ha contado, ed è pertanto costretto ad uno scambio difficoltoso con le campagne in termini di distanze chilometriche, vengono preferite le offerte di derrate alimentari, cui poi seguono, per priorità necessitanti assolutamente rigide, i beni voluttuari, come il tessile o le calzature, giacché scopo degli Amministratori civici è il soddisfacimento della domanda sociale e la garanzia della riproduzione fisica del consumatore (4). Da ciò si evince quel peculiare interesse, da parte del potere, nei confronti del fine collettivo, cosa di cui diremo nella 2° parte, a proposito appunto degli obiettivi politici qualitativi, che si traducono in una concezione morale araldica su cui si leva l’eterno concetto di cooperazione, vale a dire lo strumento tramite cui, peculiarmente la Città, esprime quella necessità sintetica dominante, su cui si plasma la collettività sociale del domani.

    Solo più tardi, quando alla fine del XIV sec si espande con così grande intensità il commercio anche di lunga distanza, ne consegue il limite stesso del modello che, di fronte ad un clima saturo delle aziende, non può non esasperare quei livelli gerarchici della concorrenza su cui assisteremo tanto all’egemonia politica di città forti su altre deboli, quanto soprattutto alla nascita del teorema sul potere e la sua entificazione, nella misura in cui, la Città, dopo 3 secoli di intransigenza, si allea nuovamente col Feudo, a condizione che cedendo il potere all’autarca - lo stesso sottometta al suo controllo una vasta estensione di realtà Comunali, sino alla costituzione di un Ducato o di una Marca, con cui garantire la riproduzione plurima dei collettivi. Nascono così le Signorie che il genio di Federico II Hohenstaufen aveva in certo senso ventilato. Qui, infatti, tra storia economica e storia universale, cerchiamo ora di cogliere gli aspetti politici di un secolo che va dal 1156 discesa di Barbarossa in Italia al 1250 morte di Federico II -, per cogliere, in uno specifico che è quello Italiano, il paleosviluppo dei Comuni nazionali, additati da tutti gli osservatori come peculiari di un ruolo egemonico che essi esercitano su quasi tutte le comunità continentali, giù, giù, vedemmo, con le remotezze dell’estremo oriente, lì dove si costituiscono, di fatto, le prime forme di colonia commerciale, che avrà poi un inusitato sviluppo a partire dal XVI secolo.

    Conjunctio Regni ad Imperium: la congiunzione tra il Regno d’Italia e l’Impero fu il grande sogno di Federico II, in parte concretizzatosi, ma non stabilmente. Lo avversarono, infatti, molti Comuni Italiani, che vedevano nella politica integralistica degli Hohenstaufen un pericolo alla loro indipendenza, arroccati com’erano in municipalità, spesso litigiose, e votati, come vedemmo, ad una politica di equilibrio tra prodotti presenti nel mercato e possibilità di accesso agli stessi, da parte del consumatore e, più in generale, del collettivo. Li dirigevano dei Consoli o Baili, soventemente espressione di quel mercato che sembra assurgere a funzione centrale della vita civica. Talora il Console, o primo cittadino, è espressione dell’aristocrazia feudale, ma più di sovente è manifestazione dei mercanti, o, come venne definita, dell’aristocrazia mercantile. Scopo essenziale del Podestà è la riproduzione elementare della collettività, che sovente leva lo stendardo orgoglioso della libertà, per significare l’affrancamento da ogni tipo di dominio. Ne sa qualcosa il Barbarossa che, come è noto, fu fermato a Legnano nel ’76 dalla Lega Lombarda, costringendolo a quella pace di Costanza, con cui in pratica l’Imperatore conferiva autonomia ai Comuni Lombardi, anche se non desisteva dall’idea di unificare l’Italia sotto un’unica corona. Il nipote, Federico come lui, dopo il breve Regno del Padre, Enrico VI, riprende il digitur imperiale sull’Italia, vanamente ostilato dai Pontefici che si succedono, da Innocenzo III, che ne fu il tutore, ad Onorio III che tentò di controllarne la prorompenza, a Gregorio IX che lo scomunicò, per non essersi recato in Terra Santa, secondo il volere di Innocenzo ed Onorio. Ma, nonostante le scomuniche e molte avversità, tra cui il tradimento del figlio Enrico, Federico procede con irruenza e illuminazione sulla via della Riforma dello Stato, che pone in essere a Melfi nel 1226 con le Costitutiones. L’effetto Melfi è quello di scatenare un’altra reazione violenta da parte dei Comuni, che allestiscono nuove leghe antimperiali, sonoramente sconfitte da Federico a Cortenuova nel 1237. Ma cosa vuole in realtà lo Svevo? Qui la critica si divide in due tranche, quella che lo vede come espressione tipica del Medioevo, arroccato nell’idolatria e nel culto del Sacro Sovrano, ultimo Re feudale, per via dei patti che sovente stringe con alcuni feudatari (vedi Ezzellino da Romano), ed in sostanza un assoluto che non capirebbe la petizione libertaria e democratica dei Comuni; l’altra interpretazione, invece, lo vede come un Re moderno, fondatore di uno Stato unitario astratto che riprendeva un po’ lo schema di Roma repubblicana, per adeguarlo alla situazione attuale di primus inter pares, quale vuole essere un Sovrano, neutrale, nato per rappresentare, attraverso il monismo dello Stato, il vantaggio erga omnes dei cittadini che, nei Comuni erano soffocati dalle fazioni e dalle guerre inter-municipali. Uomo di pace, Federico si prodiga affinché tacciano le armi; solo se provocato, le impugna, ed è insommaio propendo per questa seconda tesiun Re ed un Imperatore lungimirante che avrebbe potuto far dell’Italia la prima nazione moderna della Storia, se le connivenze ibride tra Papi e Comuni, oltre agli avversari naturali del Re in Italia, non avessero cospirato a suo danno. Egli muore e, con lui, defunge l’ultimo sogno monocentrico europeo, ragione per cui i Comuni avrebbero partita vinta sui desideri centralistici dell’Impero. Ma, come accennammo, i Municipi soffrono di un male endemico: essi risentono quella guerra di concorrenza che si scatena sul finire del ‘200, quando la ricchezza sociale si è talmente diffusa, da generare nei fatti un sovrappiù di imprenditori, simultaneamente presenti nei grandi mercati comunali, divenuti ora sempre più ristretti per esprimere compiutamente il bisogno di intrapresa dei mercanti, senza che tutto questo generi una saturazione crescente ed una diffusione delle guerre di concorrenza. Gli storici duelli tra le Repubbliche marinare ne sono l’effetto, ma sanciscono altresì la crisi strutturale su cui si fonda l’equilibrio dei singoli comuni che, se non hanno la forza di sottomettere con le armi gli altri, devono soccombere in una crisi di sovrapproduzione, cui consegue un’altrettanta lacerante crisi di recessione (5). Cambiano inoltre le esigenze stesse dello scambio di merci, che diventa molto sofisticato e complesso. Il primo segno è la diffusione del conio monetario che emargina le forme di baratto diretto delle merci ed esige, a lungo andare, veri e propri agenti di cambio che sono, di norma, gli stessi mercanti; questo istituto si tramuta ben presto in un prestito forzoso di danaro, in funzione, anche, degli interessi cambiari. Nascono, alla fine del ‘200 le prime Banche, che sempre più diffonderanno l’uso del danaro a scala planetaria. L’altro fattore è che il Commercio si fa stanziale e non più ambulante. Ben presto la lettera commerciale sostituisce l’incontro diretto tra venditore e compratore; inoltre la scala dell’intervento del Commercio si fa continentale, ed avviene per il tramite di agenti di commercio presenti in tutte le piazzeforti europee. Città come Venezia e Firenze hanno agenti di cambio dappertutto e tramite essi collocano il prodotto italiano nel mondo occidentale. Mi pare abbastanza evidente che tra i due corni del problema vi sia una sotterranea corrispondenza, nella misura in cui, chi commercia su vasta scala, ha bisogno simultaneo di grande quantità di contanti, presenti sotto l’aspetto delle più diffuse divise europee. Già dicemmo della coincidenza tra mercante e banchiere; l’altro effetto fu che si andò consolidando, sempre per il tramite del capitale finanziario, l’uso diffuso di Società Commerciali, il cui modello base è la Commenda, in cui si delineano due tipi di imprenditori: quello che resta in loco, detto comunemente stans, e che si occupa sostanzialmente dell’investimento finanziario dell’impresa, ed il tractor che si assume oneri, spese ed alee per la buona riuscita del viaggio e dell’impresa, stando il fatto che questi ultimi fattori sono soventemente a rischio, per via delle strade malsicure, a seguito di guerre e brigantaggi; vuoi anche per le incertezze dei viaggi via mare, soventemente funestati da naufragi, con conseguente perdita del carico e del mezzo, e fallimento economico dell’impresa. Con la Societas Maris, la Commenda si trasforma in un accordo oneroso tra stans e tractor, nel senso che, a quest’ultimo, possono venire imputate, in proporzione le somme dovute ai danni conseguenti al fallimento dell’impresa. La Societas Maris evolverà nel ‘5–‘600 nell’accordo così detto di Coupientia, in cui il Cupito paga di persona i rischi della spedizione, il cui costo viene valutato percentualmente, con la stessa tecnica della Società per Azioni (6).

    Se ne evince un rapporto contrastante; da un lato la municipalità raccolta in sé stessa e protesa ad un puro teorema di riproduzione della collettività e del consumatore; dall’altro un commercio che ha sempre più bisogno di liberi spazi e dell’abbattimento delle barriere fisiche rappresentate dai mercati urbani, sempre pronti a tutelare il commercio locale ed il consumo dei generi di prima necessità. Aggiungeremo che la situazione è complicata dalle organizzazioni che tutelano il lavoro, alias le Corporazioni, che avranno, come è noto, ampia diffusione anche nei secoli successivi. La pressione sugli utili, da parte dei lavoratori, induce a grosse divergenze coi mercanti che, sempre meno, otterranno disponibilità di scorte a buon mercato; c’è da aggiungere che, nonostante il perdurare di un podestà, coincidente soventemente nella emanazione dell’aristocrazia commerciale, i baili ed i consoli, temendo sommosse popolari, non si sentono di comprimere il saggio di riproduzione della forza-lavoro, al di sotto di certi livelli (7). Le congiunture di aumento dei prezzi e di concorrenzialità inter–mercantile determinano ben presto una crisi delle Municipalità, al punto tale che ora, a partire dal ‘300, le stesse si rivolgeranno sovente al Signore Feudale, per accrescerne il potere e farlo garante di un ruolo egemonico più vasto, tramite cui l’autarca impera dispoticamente sul collettivo, anche se, sovente, riesce, con la politica della guerra, ad annettersi ampie fasce territoriali, con cui, dicemmo, nasce il Ducato che è un’espressione di tipo regionale o sub-regionale che, almeno nel caso Italiano, concorrerà a creare i presupposti di un forte sviluppo delle entità territoriali, anche se mancherà quello stimolo alla petizione di una Autorità Nazionale che, come vedemmo, Federico II aveva vanamente cercata. Il secolo ‘100-‘200 si chiude pertanto con una bipolare sconfitta. Perito il sogno unitario ed integralistico degli Hohenstaufen, anche i Comuni perdono la loro reale autonomia, costringendo le collettività ad esprimere voti augurali ad una nuova figura totalitaria, quale sarà sempre più anche nel XV sec., quella del Signore. Ne sanno qualcosa i Milanesi, che, a partire dal ‘300 danno potere ai Della Torre, tramutando il loro seggio in una deputazione a vita, ragion per cui, in molti casi, il passaggio dai Comuni alle Signorie avviene senza colpo ferire, attraverso l’estensione dello Jus ad ponendum, in Diritto pratico-comparato di tipo su–espositivo, per il quale non vi è opposto né formale, né sostanziale, ma vi è lagutica non opposta di tipo concessorio (8). Rinviamo ai testi storici classici, per uno studio delle singole Signorie. Restiamo nel solco della storia socio–economica per significare l’importanza di un luogo deputato del lavoro e della sua tutela come le corporazioni, che adombrano, proprio a partire da quei secoli, l’incessante separazione tra capitale e lavoro che vedrà nella politica di spossesso della classe contadina dai requisiti di appartenenza alla terra, il fattore precipuo di diffusione del Capitalismo che, sempre più assurge a collocatore di manodopera nel contesto della crescita urbana. Il medioevo, anche con le sue rivolte, diffusissime nel ‘300, quale quella famosissima dei Ciompi a Firenze nel 1378, rappresenta la stura di una crescente divaricazione presente nel TEOREMA QUANTITATIVO, in base a cui, con la nascita del primo capitale, si afferma e si situa la storia della lotta di classe, nei cui ambiti il capitalismo deve cedere terreno ad uno strenuo arroccamento del lavoro, in termini di una nuova QUALITÀ che esamineremo nell’ultimo capitolo di questa Sezione.

    Per ogni capitolo di questa parte opereremo una sintesi epistemica, una sorta di filosofia della storia, quale vuole essere questo saggio che, certo, non aspira ad esprimere le linee quantitativistiche di una storia economica europea che, pure, rappresenta il collume empirico che ci ha ispirati, a condizione che le sintesi fossero, non solo di tipo qualitativo, vieppiù di tipo teoristico, nel senso di esprimere il contenuto epistemico che, sinteticamente, ci forniva lo spirito del secolo. Qui a me pare, dobbiamo premettere, non sia ancora sviluppato quello che in Prolegomena (9) definimmo il Valore Epocale, coordinato e diffuso dalla Qualità Sociale. Per quanto, apparentemente, espressivo di alti livelli di civiltà, il gradiente etico si dimostra, nei fatti, sostanzialmente arretrato ed inadeguato. La logica di una pura riproducibilità dei collettivi singoli, quali sono le città, non rappresenta infatti i caratteri moderni della civiltà, da cui emerge, in primo luogo quello della cooperazione tra poli produttivi. Le intransigenze e le competitività di tipo municipalistico, le guerre di prevalenza tra varie potenze commerciali, le leggi impositive della concorrenza con cui vengono emarginati i mercanti stranieri, sono segni palpabili della immaturità dei reticoli sociali che non vedono ancora la nascita della libera intrapresa, allargata ad una mondializzazione degli scambi, nonostante l’uso di agenti commerciali e la prima diffusione del danaro. La qualità sociale è,di conseguenza, di basso profilo, caratterizzata da una litigiosità crescente tra i membri della società che, come è noto, peculiarizza la formazione di fazioni politiche antagoniste tra loro, mentre si acuisce il divario di classe tra varie manifestazioni di aristocrazie e i ceti non abbienti, nonostante la politica di allargamento della base amministrativa e consensuale, da parte delle

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