Spazio pubblico e trascendenza
Di Matteo Negro
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Anteprima del libro
Spazio pubblico e trascendenza - Matteo Negro
Matteo Negro
Spazio pubblico e trascendenza
Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura
ed Universale
sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Con il contributo del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania
Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma
ISSN della collana Universale 2612-2812
ISBN 978-88-382-4956-3
www.edizionistudium.it
ISBN: 9788838249563
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
NOTA INTRODUTTIVA*
I. TEOLOGIA E POLITICA IN HOBBES
II. NATURA, NORMATIVITÀ E TRASCENDENZA: LA PROSPETTIVA HOBBESIANA
1. Trascendenza e natura: una rilettura di Hobbes
2. Hobbes e la tradizione
3. Analisi dell’obbligazione
4. Genesi della normatività statuale
5. Psicologia e morale
6. Legge, ragione e potere
III. POTERE, TRASCENDENZA E SECOLARIZZAZIONE*
1. Potere e trascendenza
2. Religione, politica e secolarizzazione
3. Razzismo, antirazzismo e universale politico
INDICE DEI NOMI
UNIVERSALE STUDIUM
UniversalE
Studium
107.
Nuova serie
- Filosofia -
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NOTA INTRODUTTIVA*
* L’autore ha tradotto i testi non in lingua italiana citati nel corpo del volume, dei quali o non esiste o non è stata disponibile l’edizione italiana.
Lo scopo di questo contributo è di mostrare come il passaggio dal cosiddetto secolarismo moderno all’epoca post-secolare apra nuovi scenari in ambito politico e istituzionale. Se la modernità è stata la stagione in cui il politico ha assorbito il teologico o lo ha respinto, il postmoderno, che si dà come ‘post-secolare’, potrebbe capovolgere i termini del confronto. Lo Stato procedurale è sempre meno compreso, non riflette in modo compiuto l’alterità presente nella società e la tensione alla trascendenza. È tempo che la società politica esprima, alla luce delle grandi mutazioni, nuove forme di sintesi istituzionale. Se ciò non accadrà, il religioso, come alterità assoluta dal mondo, prenderà forse le strade dell’utopia rivoluzionaria e del messianismo, travolgendo nella sua corsa anche lo spazio pubblico, il pluralismo e la democrazia.
Il percorso che ha condotto alla stesura di questo volume ha attraversato tappe apparentemente distanti dando l’impressione di snodarsi in modo poco lineare. In parte ciò può essere attribuito alla circostanza che più di tutte ha inciso sullo sviluppo di queste pagine, ovvero alla scelta precisa di dedicare ampio spazio, ben due capitoli, alla filosofia di Hobbes, reperendo in essa le tracce del dissidio latente nella modernità tra secolarizzazione e religione. Alla lettura corrente e dominante di Hobbes quale esponente di punta di un pensiero avviato a passi decisi verso la secolarizzazione, l’ateismo, il dispotismo e l’assolutismo, quasi antesignano dei totalitarismi del XX secolo, si intende qui replicare con la presentazione di un Hobbes teista e fortemente interessato alla salvaguardia dei diritti individuali, il quale ha teorizzato lo Stato moderno come il dispositivo migliore per il contenimento dei conflitti tra le classi e i gruppi sociali, tra i cittadini e l’autorità, e tra le diverse rappresentazioni del politico e del religioso. Certo, non è nostra intenzione aderire al pensiero hobbesiano nella sua globalità: è sin troppo chiaro che la sua filosofia da un canto apre all’empirismo, al nominalismo, al meccanicismo e ad un consequenzialismo che sul piano etico mostrerà i suoi contorni più marcati nei tempi successivi, mentre dall’altro inaugura la stagione del nazionalismo e della ragion di Stato. A questo si aggiunga che alla fine in Hobbes prevale l’idea di un perfezionamento morale di cui lo Stato e il sovrano si assumono la responsabilità e il merito. Non si può tuttavia sottacere la centralità assunta dalla legge naturale, incentrata – è vero – sulla conservazione della vita individuale, ma pur sempre di origine trascendente, in quanto comando naturale di Dio complementare alla rivelazione. Il binomio naturalismo-teologia si assesta su un equilibrio, fragile quanto si vuole, ma pur sempre garantito dalla continuità con la tradizione precedente, esplicitamente combattuta ma non abbandonata. Le armi di Hobbes sono spuntate: il suo strumentario, la sua cassetta filosofica degli attrezzi è per molti versi la medesima di Aristotele, della scolastica tomista e, in particolare, di Francisco Suárez, oltre che dell’aristotelismo italiano del Cinquecento. Le analogie con Suárez, in modo peculiare, sono davvero impressionanti e inattese, se solo si consideri che il teologo gesuita è stato uno dei più convinti difensori dell’ortodossia cattolica in aperto contrasto con la corona inglese. Ma le analogie non riguardano ovviamente né il campo delle scelte politiche né l’apologetica: esse si concentrano sul ruolo della legge naturale e della legge civile, sulla teoria dello Stato e sulla figura del sovrano, senza trascurare alcuni passaggi cruciali relativi al diritto naturale dominativo. L’equilibrio tra natura e fede che Hobbes ha faticosamente mantenuto vedrà la sua fine con la teologia politica di Spinoza e con il razionalismo.
Ma perché è rilevante, in ultima analisi, questa incursione nella riflessione hobbesiana (e suareziana) nell’ambito di uno studio su spazio pubblico e trascendenza? Innanzitutto, perché Hobbes si trova su uno spartiacque. Non è un modello per la nostra era, ma contiene i germi di uno sviluppo che la riguarda direttamente. Difficilmente, e solo con l’utilizzo facile di una terminologia di moda, per migliorare forse la comunicazione e garantire una certa intelligibilità del suo messaggio, Hobbes può essere annoverato tra i teologi politici. Se infatti la teologia politica implica, al seguito di Carl Schmitt, la secolarizzazione di alcuni concetti teologici di cui il dispositivo politico si è servito nella modernità, e se la secolarizzazione è intesa in uno dei due sensi, forse quello più accettato, che Hannah Arendt ha criticato con chiarezza, allora è sufficientemente verosimile che il pensiero di Hobbes non sia da considerare un pensiero secolarizzato. Ma andiamo alle parole di Arendt: «Se per secolarizzazione
s’intende soltanto l’ascesa del secolare
, contemporanea all’eclissi del trascendente, non si potrà negare che la moderna coscienza storica vi sia initimamente connessa. Ciò, tuttavia, non implica affatto un’improbabile trasformazione delle categorie trascendenti e religiose in quei criteri e fini terreni e immanenti, di recente propugnati dagli studiosi di storia delle idee. Secolarizzazione significa innanzi tutto separazione della religione dalla politica; un fenomeno la cui ripercussione su entrambe è così fondamentale da rendere qualunque altra spiegazione più credibile di quella graduale trasformazione delle categorie religiose in concetti secolari, sostenuta dai difensori della continuità ininterrotta» [1] . Se per secolarizzazione, alla luce della puntualizzazione di Arendt, si intende la separazione della religione della politica, allora è possibile riferirsi a Hobbes come ad un autore secolare, al primo vero teorico del secolarismo moderno, anche se è altrettanto innegabile che il peso di questa svolta non gravi sulle sue sole spalle. Il movimento verso la secolarizzazione aveva avuto inizio secoli prima, e possiamo scorgerne le prime timide tracce già in Anselmo d’Aosta, Abelardo, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino. Se la filosofia di Hobbes sia una manifestazione dell’immanentismo, è questione diversa non del tutto rilevante ai nostri fini. Fuor di dubbio, perché comprovata dall’analisi testuale, è la trascendenza della legge naturale in quanto comando divino, articolazione della legge eterna, anteriore logicamente e moralmente ad ogni determinazione prudenziale della ragione e ad ogni norma positiva emanata dal potere sovrano nello stato civile. L’alterità della norma naturale è il correlato trascendentale della disposizione legale, e in quanto tale, limita e condiziona dall’interno il potere costituito e il diritto naturale.
Nella terza parte di questo volume vengono analizzate alcune forme ed esemplificazioni che la dialettica tra politico e religioso ha assunto nell’ultimo scorcio della storia della nostra civiltà. Non esistono soluzioni facili al continuo riaccadere di una polarizzazione volta a fagocitare o a riassorbire l’altro polo. La secolarizzazione ha storicamente ribadito l’autonomia delle due sfere, ma non ha esitato, più perspicuamente nella sua fase ultima, a trasformarsi in un monismo immanentista, snaturandosi e snaturando i propri fini. È questo il carattere distintivo dell’epoca post-secolare, quella dell’antipolitica e del fondamentalismo, due esiti radicali che tendono a negare l’alterità e a rendere irrappresentabile la trascendenza nell’immanenza della condizione umana.
[1] H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999, p. 104.
I. TEOLOGIA E POLITICA IN HOBBES
«Un meccanismo non è capace di totalità» (C. Schmitt) [1]
Prima di inoltrarsi nella lunga esplorazione dei punti più significativi e non privi di asperità e oscurità del pensiero teologico-politico di Thomas Hobbes vale forse la pena di soffermarsi sul binomio, affatto rilevante, di individualismo-olismo, vera matrice esplicativa del percorso politico della modernità, di cui Hobbes non è certo l’antesignano ma l’esponente di punta. Relegare la riflessione hobbesiana alla sua rilevanza storiografica, come spesso e inevitabilmente accade, obbliga a disegnare linee di continuità con teorie e autori, demarcandoli od opponendoli ad altre correnti ed espressioni. Prendere le mosse dalle matrici concettuali o categoriali, invece, permette di cogliere affinità o divergenze ben al di là delle linee di continuità tradizionalmente e grossolanamente individuate. Alla domanda se Hobbes fosse un individualista o meno risponde l’interprete a noi contemporaneo con una visione precisa dell’individualismo (o dell’olismo), che ben si distanzia dalla prospettiva esegetica dell’interlocutore di altre epoche. È il caso, lo vedremo più in dettaglio, della lettura schmittiana, come anche della lettura illuministica, entrambe distorsive. E l’individualismo à la Hobbes quanto condivide dei presupposti teorici dell’individualismo nominalista o del sostanzialismo classico (malgrado le esplicite prese di distanza)? Lo stesso dicasi per il giusnaturalismo. È lecito considerare Hobbes un esponente del giusnaturalismo, forse l’ultimo difensore del diritto naturale (malgrado le esplicite prese di distanza)? Molti autorevoli studiosi lo credono, altri, come Schmitt, lo negano. Valga altrettanto per l’asserito ateismo di Hobbes: a quale ateismo ci riferiamo? Ad una sua personale posizione di negazione rispetto alla fede in un Dio trascendente, oppure alla negazione di un principio organizzatore del cosmo? Si propone in anticipo il corrosivo scontro tra teologia razionale e teologia dogmatica, cui assisteremo nei secoli a venire e che vedrà, ad esempio, l’ebreo Spinoza sposare le verità di un cristianesimo razionale e negare alcune verità dell’ebraismo confessionale, con grande scandalo delle comunità religiose di ambedue le parti.
Ha scritto Louis Dumont, nei suoi importanti saggi sull’individualismo, che «l’ideologia moderna è individualista» [2] . Ma che cosa significa esattamente? L’osservazione ha un fondamento nell’antropologia e nello studio delle società. Nelle società moderne monta un’avversione crescente e sempre più radicata nei confronti delle gerarchie e delle organizzazioni gerarchiche (il caso tipico di sistema gerarchico è per Dumont la società indiana). Il fondamento antropologico dell’individualismo è diverso dal suo equivalente filosofico o politico. Il nazionalismo, a titolo di esempio, viene classificato come qualcosa di concettualmente opposto all’individualismo. Quel che può essere vero sul piano emotivo e psicologico, o forse anche filosofico, mostra di non esserlo più sul piano antropologico [3] . Infatti, chi si considera nazionalista non ha nessuna difficoltà a considerarsi contemporaneamente un individuo, e non saprebbe neanche pensarsi al di fuori di tale descrizione. Che noi siamo individui, è convinzione condivisa nell’Occidente moderno; non così in altre epoche o culture, per le quali nella realtà non si danno individui ma gerarchie e relazioni sociali olistiche. Tant’è vero che – soggiunge Dumont – «ogni preteso ritorno all’olismo sul piano della nazione moderna appare come un’impresa di menzogna e di oppressione» [4] . Il primo cristianesimo, pur avendo originato una certa forma di individualismo, ben distante da quella moderna, ha piuttosto plasmato un’idea, accenna Dumont, di individuo essenzialmente fuori del mondo
, un individuo in relazione con Dio: non l’individuo come valore supremo, ma la relazione uomo-Dio come totalità, come intero
. In Agostino con una certa gradualità si ammette la compresenza dei due principi, quello individuale sul piano della mondanità e della giustizia politica, e quello della totalità organica della Chiesa. La parabola si compirà con Calvino, e con la sua teocrazia intramondana: «Il campo è assolutamente unificato. L’individuo è adesso nel mondo, e il valore individualista regna senza restrizioni né limitazioni. Abbiamo davanti a noi l’individuo-nel-mondo» [5] . La relazione con la trascendenza non è più costitutiva, ma volontaristica: l’individuo decide con la propria volontà di costituire un nesso extramondano, senza che la sua ontologia venga modificata o trasformata in qualche modo. Come in tutte le teocrazie, la Chiesa che incorpora lo Stato si mondanizza completamente e perde il suo precipuo carattere olistico. Filosoficamente, era stato il nominalismo a favorire la dispersione individualistica: il rasoio di Occam ha inteso tagliare le strutture concettuali, ma per una strana eterogenesi dei fini ha separato gli enti dai loro nessi, moltiplicandoli a dismisura. Sul piano politico, gli insiemi si strutturano come collezioni di individui privi di relazioni gerarchiche originarie, e muniti di relazioni gerarchiche acquisite per via ipotetica con il mutuo consenso di tutti gli elementi dell’insieme: «Si ottiene un guadagno in coscienza, in interiorità, ma c’è una perdita nella realtà, giacché i gruppi umani hanno dei capi indipendentemente da un consenso formale, essendo la loro strutturazione una condizione della loro esistenza in quanto tutti
» [6] .
Questa ambiguità si riverbera nel pensiero teologico-politico di Hobbes che, se da un canto secondo alcuni si fa convinto portavoce, forse l’ultimo, della tradizione giusnaturalistica, d’altro canto ingloba la modellizzazione meccanicistica e atomistica della nuova fisica per giustificare lo stato di soggezione degli individui al dominio del sovrano e lo spirito delle relazioni interindividuali. La soggezione è tuttavia pur sempre possibile giacché gli individui detengono una naturale socievolezza, che li spinge a fronteggiarsi quasi in un gioco di riconoscimento al contrario. È questa una riflessione che va fatta. Senza la capacità di rappresentarsi l’Altro come Io non trova fondamento neanche l’inimicizia né la lotta per la conservazione, che non è una pura lotta violenta e predatoria, ma per la pacificazione e la giustizia, attraverso il dominio, benché condannata all’insuccesso. Lo stato di natura è pertanto uno stato incompleto, che anzi ha nell’incompletezza la sua cifra: non vi regna la giustizia, assicurata solo dallo Stato, ma vi si agita l’aspirazione alla giustizia, che è un’esigenza normativa. Commenta Dumont: «La giustizia è assente, perché è affare della società, e non della natura. E tuttavia sono presenti il potere, l’onore, e anche il linguaggio e, fondata su di esso, la ragione. È evidente che si tratta qui dello stato sociale meno qualcosa» [7] . Se lo stato di natura non fosse caratterizzato normativamente, lo Stato stesso, se anche potesse nascere, sarebbe incomprensibile, irrazionale e, in ultima istanza, inefficace. Vi è dunque continuità tra il politico e il prepolitico, ed è garantita dallo sfondo di razionalità, su cui nello stato di natura si stagliano i movimenti e le pulsioni dell’animalità, del tutto assenti dallo stato di soggezione politica, in cui vige l’artificio della legge. Nello Stato l’individuo non raggiunge l’autonomia, non più di quanto non ne godesse nello stato di natura: esso è parte indivisa del Leviatano, e in quanto parte non può costituirsi pienamente individuo. La socialità naturale dell’uomo non può essere afferrata (e conosciuta pienamente) che nell’esperienza politica, in modo indiretto o derivato. Ecco la polarità anti-individualistica della concezione hobbesiana, così speculare al suo individualismo di fondo, parimenti innegabile, se si vuole, con onestà intellettuale, riconoscerne la fecondità e la generatività nei confronti dello Stato liberale moderno, con tutte le tensioni largamente irrisolte tra i diritti dello Stato e i diritti individuali, che la Francia e l’America nel XVIII secolo tenteranno di compendiare e correggere, dando vita all’esperienza della democrazia