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Tentacula
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E-book179 pagine2 ore

Tentacula

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Info su questo ebook

Metà anni 80. Un'epidemia di meningite sconvolge la vita di una piccola città del nord Italia.Una coraggiosa giornalista, insieme al marito medico, decidono di indagare sulle misteriose cause di quelle morti, ma si troveranno presto a dover fare i conti con una potente organizzazione criminale decisa ad insabbiare la verità.

Il racconto, "fantastico" ma non troppo si snoda attraverso una serie di colpi di scena che porteranno i due protagonisti alla scoperta di torbidi legami tra mondo della sanità e malavita organizzata.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2018
ISBN9788827824597
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    Anteprima del libro

    Tentacula - Pierluigi Brovero

    Piovra.

    CAP. I

    Quando la radiosveglia si accese anche quel lunedì, come tutte le mattine, alle 6.30, il dottor Alberto Castelli, funzionario del più importante Istituto di credito di quella piccola città del nord Italia, allungò istintivamente il braccio per spegnerla. Non aveva voglia di ascoltare le notizie del giornale radio da sdraiato, come faceva di solito, e preferì rimanere qualche momento in silenzio, al buio, seduto sul letto. Aveva dormito maledettamente male, quella notte, e si era svegliato con un forte mal di testa. Gli sembrò persino di avere qualche linea di febbre, cosa assolutamente insolita per lui che si era assentato per malattia si e no una settimana in trent’anni di servizio. Radunando tutte le energie si alzò in piedi e si trascinò fiaccamente verso la cucina massaggiandosi il collo rigido ed indolenzito. Quando premette l’interruttore per accendere la luce, l’improvviso bagliore gli ferì gli occhi. Un brivido gli scosse il corpo; capì allora che la febbre doveva essergli parecchio salita, tanto che di sicuro non avrebbe potuto partecipare alla riunione prevista per quella mattina con gli altri funzionari della banca. Con mano incerta appoggiò la caffettiera sul fornello e mentre pensava al da farsi lo assalì una forte nausea accompagnata da un conato di vomito. Barcollando percorse i pochi metri che lo separavano dal bagno; entrò, ma non fece in tempo a raggiungere il water.

    Alcuni minuti dopo un forte odore di caffè bruciato raggiunse la camera da letto, dove la moglie ancora dormiva profondamente senza sapere che quelli sarebbero stati gli ultimi attimi di serenità prima della tragedia che stava per abbattersi su di lei. Dapprima la donna fece una smorfia di fastidio, poi, di colpo, spalancò gli occhi e si precipitò in cucina. Un fumo denso e nero fuoriusciva dalla caffettiera, e schizzi di caffè erano sparsi sul piano della cucina a gas come sui i pensili sovrastanti. Istintivamente girò la manopola per spegnere il fuoco e cominciò a chiamare il marito ad alta voce. Si interruppe quasi subito perché, dalla fessura della porta semichiusa del bagno, vide filtrare la luce. Spinse per entrare ma qualcosa glielo impedì. Dovette raccogliere tutte le forze per aprire uno spiraglio più ampio, che le consentisse di scorgere il corpo del suo Alberto riverso sul pavimento. A quella vista si portò le mani alla bocca, trattenendo a stento un urlo di terrore; subito dopo corse al telefono e compose con mano tremante il numero del vicino ospedale.

    Mentre l’ambulanza percorreva a sirene spiegate le strade della cittadina che incominciava appena allora a risvegliarsi, Lisa continuava a fissare il compagno della sua vita: ne osservava angosciata il volto, il cui pallore mortale traspariva attraverso la maschera dell’ossigeno e di tanto in tanto ne accarezzava la fronte imperlata di sudore. Durante quel breve tragitto, ebbe comunque il tempo di rivivere, come in un film, i tanti momenti più o meno sereni che aveva trascorso insieme al marito.

    Ritornò con la mente al giorno in cui quel giovane laureato in economia e commercio, pur non avendo un posto di lavoro stabile, aveva osato chiederla in sposa ai suoi genitori; riudì la voce adirata di suo padre che si opponeva perentoriamente a quella richiesta e le parve di percepire nuovamente il gusto amaro delle lacrime di disperazione che in quell’occasione aveva versato. Si ricordò ancora dell’infinità di domande di assunzione compilate insieme al futuro marito con la vecchia Remington a nastro bicolore, e delle lunghe giornate in attesa di una risposta che sembrava non arrivare mai.

    Poi, una mattina come le altre, quella busta bianca nella cassetta delle lettere, la mano che trema nell’aprirla, e l’urlo di gioia di lui nel leggere l’invito della banca a presentarsi per un colloquio; la stretta del suo forte abbraccio ed il calore di quel bacio appassionato, sincera promessa di una vita insieme.

    Finalmente il matrimonio, la nascita dei figli e, successivamente, dei nipoti; tra un evento e l’altro, dopo anni di sacrifici, la rapida carriera e il raggiungimento della stabilità economica.

    Non era mai stato un freddo uomo di affari, il suo Alberto, e lei lo aveva scelto proprio per questo. Era conscio che i soldi che maneggiava quotidianamente racchiudevano le speranze e le fatiche di tanta gente comune: lavoratori, impiegati, pensionati; per tutti nutriva il massimo rispetto, e cercava, per quanto possibile, di dispensare consigli disinteressati e di favorire lo slancio e le iniziative dei giovani. Per questo motivo era benvoluto da molte persone semplici e inviso a qualche pezzo grosso della sua stessa banca.

    Tutti questi pensieri e molti altri ancora si inseguivano nella mente di Lisa, e le lacrime le scendevano lentamente sul volto.

    Ad un tratto l’ambulanza si arrestò, e il suono acuto della sirena si fece, di colpo, grave fino a smorzarsi del tutto. Gli infermieri aprirono il portellone, estrassero la barella e la spinsero velocemente verso la sala medica. Lisa li seguì, ma giunta sulla soglia della porta, una dottoressa le chiese con gentilezza ma fermamente di attendere fuori. La porta si chiuse e lei, in quel momento, intuì che non avrebbe più rivisto il marito.

    Alle 7.40 il dottor Paolo Comaschi aveva appena preso servizio al terzo piano di quello stesso ospedale, nel reparto di malattie infettive, che da ormai dodici anni era diventato per lui una seconda casa. Trentasette anni, alto e dal fisico asciutto, godeva di notevole popolarità soprattutto presso il personale femminile. Il suo viso, serio e concentrato quando esaminava un paziente, diveniva in altri momenti capace di distendersi in un sorriso aperto e accattivante. Aveva un’ottima preparazione clinica, frutto dello studio, certo, ma anche merito del suo grande maestro, il professor Balestrero, che gli aveva comunicato la passione per l’infettivologia. Ma ancor prima di questa veniva un’altra passione, molto più grande, nata con lui e radicata nella profondità del suo stesso essere: la passione per l’uomo, e in particolare per l’uomo sofferente. Era questa la forza che lo aveva rapito e sostenuto e che, fin dall’infanzia, lo aveva aiutato ad intravvedere, sia pur in maniera confusa, il proprio destino; questo il demone che, da adulto, lo aveva indotto ad intraprendere gli studi di medicina conferendogli infine la certezza che quella fosse per lui l’unica strada percorribile. Esercitando la professione, aveva successivamente imparato a riconoscere l’immensa gratificazione per essere riuscito nell’intento di porre un rimedio alla sofferenza fisica del prossimo; certo, a volte gli era toccato anche provare la frustrazione del fallimento, ma anche questo, diceva il suo maestro, faceva parte del gioco. L’importante era agire sempre in buona fede, e con la massima competenza possibile. Volgendosi indietro nel tempo, si accorse di ricordare perfettamente il giorno in cui prese la decisione di iscriversi alla facoltà di medicina.

    Quella mattina d’estate, lui, studente del penultimo anno del liceo classico, si trovava in aula durante l’ora di Italiano. Era quasi mezzogiorno, e vuoi per la calura, vuoi per la stanchezza, nessuno degli allievi sembrava prestare attenzione all’anziano professore, che scandiva con voce monocorde versi dell’Orlando Furioso, tergendosi di tanto in tanto col fazzoletto il sudore dalla fronte. Ad un tratto forti grida di donna, al di là della porta, interruppero la monotonia di quella lezione: Paolo, come tutti gli altri, ebbe un attimo di esitazione; poi, senza neppure chiedere il permesso, si catapultò fuori e, con alcuni compagni, corse verso il luogo da cui sembrava provenire la richiesta di aiuto. Giunto dinanzi alla porta aperta di uno dei bagni, vide una scena che lo lasciò per un attimo interdetto. Una giovane ragazza era china sul lavandino, in lacrime; fiotti di sangue le uscivano dal naso ed anche dalla bocca: era terrorizzata, e continuava a gridare e ad implorare che qualcuno la aiutasse. Eppure quel piccolo rivolo rosso che le era sceso da una narice poco prima, mentre era in aula, sul momento non l’aveva preoccupata più di tanto. Si era recata in bagno e aveva tenuto premuto sul naso un fazzoletto intriso di acqua fresca, come aveva fatto altre volte. Ma quella mattina l’emorragia sembrava non volersi fermare e Il cuore aveva incominciato a batterle sempre più forte. Il suono lontano della sirena di un’ambulanza le diede il colpo di grazia: la ragazza fu colta dal panico e il sangue colato nella gola cominciò ad uscirle anche dalla bocca, aumentando il suo terrore. Sentendosi perduta, cominciò ad urlare; ma le grida che rimbalzavano tra le pareti vuote del bagno riuscirono solo ad accrescere il senso di solitudine che si era ormai impadronito di lei. Nella sua testa si era fatta avanti un’idea, anzi, una convinzione: si era persuasa di essere destinata a dover morire senza che nessuno se ne avvedesse. Mentre, rassegnata al proprio destino, singhiozzava e versava lacrime che si mescolavano al sangue, la ragazza si sentì afferrare la testa da due forti mani, che le tenevano premute le tempie e la fronte infuocata. In un primo momento non si voltò neppure per tentare di guardare negli occhi chi la stesse aiutando in maniera così decisa, e si abbandonò al sollievo e al senso di sicurezza che quella stretta le procurava. Quasi nello stesso istante l’emorragia rallentò. A quel punto si sentì stringere forte il naso con due dita: d’istinto tirò su la testa, e vide Paolo che le sorrideva. La ragazza, che si sentiva ora più tranquilla, contraccambiò il sorriso. Dopo alcuni minuti, quando furono sicuri che il sangue aveva smesso di fuoriuscire, facendosi strada tra la piccola folla che nel frattempo si era radunata, i due si avviarono verso la saletta medica in una posizione alquanto ridicola: lei aveva la testa reclinata all’indietro mentre Paolo, al suo fianco, le stringeva il naso. Una volta entrati, la ragazza si sdraiò sul lettino, mentre una delle professoresse componeva il numero del pronto soccorso.

    - Sei stato in gamba – disse l’insegnante rivolgendosi al ragazzo.

    Per la prima volta Paolo sentì crescere dentro di sé quel senso di gratificazione che avrebbe poi provato tante altre volte.

    - Grazie – gli disse a sua volta la ragazza, che fino ad allora era rimasta in silenzio.

    - Ora puoi stringertelo anche da sola, quel tuo bel nasino – le rispose Paolo con tono affettuoso. Poi, facendosi improvvisamente serio proseguì:

    - Hai perso molto sangue, lo sai? Forse mezzo litro.

    Fece una breve pausa; poi, notando gli occhi impauriti di lei, subito dopo aggiunse:

    - Per fortuna, te ne sono rimasti altri quattro o cinque!

    Sorrise, mostrando così i denti bianchissimi.

    La ragazza parve rincuorarsi.

    - Davvero ne abbiamo così tanto? Io ero certa che non avrei più rivisto i miei genitori né mia sorella - rispose con una buffa voce nasale.

    - Come ti chiami?

    - Daniela.

    - Che classe fai?

    - Quarta ginnasio.

    Paolo si rese conto che, pur frequentando tutte la mattine la stessa scuola, non aveva mai avuto modo di notare quella ragazza; e di questo fatto rimase un po’ stupito.

    Ma lo sarebbe stato ancor più se avesse potuto immaginare che quello che aveva appena vissuto era solo il prologo di una lunga storia destinata a segnare profondamente la sua vita.

    Quando infatti Daniela raccontò l’accaduto in famiglia, i suoi genitori vollero conoscere a tutti i costi il ragazzo che si era preso cura della loro figliola e alcuni giorni dopo lo invitarono a cena.

    Si sentiva un po’ a disagio quella sera in giacca e cravatta, quando suonò il campanello di casa Parisi. Aveva con sé una bottiglia di vino pregiato, chiusa in un sacchetto di plastica che gli aveva fatto sudare un po’ la mano.

    La porta si aprì, e le apparve una ragazza. Ma non era Daniela.

    Costei aveva i capelli non molto lunghi, ondulati e chiari che le scendevano a incorniciare il viso dai lineamenti delicati. Gli occhi, anch’essi chiari, davano un senso di trasparenza e di tranquillità. Gli parve subito bellissima. Notando il suo imbarazzo, lei cercò di metterlo a proprio agio.

    - Ciao, - gli disse tendendogli la mano – sono Cristina, la sorella di Daniela. E tu devi essere Paolo, immagino!

    Le labbra si erano socchiuse in un sorriso dolcissimo e franco al tempo stesso, lasciando intravvedere un lieve difetto degli incisivi superiori che risultavano leggermente accavallati: ma questo apparve agli occhi di Paolo un dettaglio trascurabile, anzi lo interpretò come una caratteristica del tutto

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