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Come eravamo e come siamo
Come eravamo e come siamo
Come eravamo e come siamo
E-book209 pagine2 ore

Come eravamo e come siamo

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Info su questo ebook

Un po’ per diletto e per amore per la mia terra, in un tempo come il nostro scandito da statistiche, percentuali e illuminato da autorevoli opinion leaders, ho affidato a queste pagine riflessioni e ricordi che man mano mi affiorano alla mente. Li ho scritti in comode rate, ascoltando, guardando e ripensando a quello che è stato e a quello che ora mi sta attorno. Curioso di quello che non conosco e testimone di quello che vedo e che ho vissuto. Sono cronache che ruotano attorno alle boe di un tempo marcato dai riti del lunario, tra le cui pieghe si sono intrufolate storie e personaggi del vivere quotidiano. Dal baule dei ricordi ho tratto i meno polverosi, quelli per i quali è bastato un leggero soffio per farli tornare palpitanti. Per l’attuale ho colto alcuni dei tanti gesti quotidiani, punte di iceberg di stive sommerse, stipate di antiche memorie e creanze. Parlando di gente comune penso invece che di comune ci sia solo una piccola parte, il resto è prototipo, biografia unica, non fotocopiabile. Scorrendo questi fogli non troverete quindi uno schema preconfezionato ma un vagare libero tra figure e fatti che sono patrimonio di quello spicchio di umanità, di cui ognuno di noi è parte irrilevante e allo stesso tempo, universo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2018
ISBN9788884498601
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    Anteprima del libro

    Come eravamo e come siamo - Luigi Girardi

    viene

    Introduzione

    Un po’ per diletto e per amore per la mia terra, in un tempo come il nostro scandito da statistiche, percentuali e illuminato da autorevoli opinion leaders, ho affidato a queste pagine riflessioni e ricordi che man mano mi affiorano alla mente. Li ho scritti in comode rate, ascoltando, guardando e ripensando a quello che è stato e a quello che ora mi sta attorno. Curioso di quello che non conosco e testimone di quello che vedo e che ho vissuto.

    Sono cronache che ruotano attorno alle boe di un tempo marcato dai riti del lunario, tra le cui pieghe si sono intrufolate storie e personaggi del vivere quotidiano. Dal baule dei ricordi ho tratto i meno polverosi, quelli per i quali è bastato un leggero soffio per farli tornare palpitanti. Per l’attuale ho colto alcuni dei tanti gesti quotidiani, punte di iceberg di stive sommerse, stipate di antiche memorie e creanze. Parlando di gente comune penso invece che di comune ci sia solo una piccola parte, il resto è prototipo, biografia unica, non fotocopiabile.

    Scorrendo questi fogli non troverete quindi uno schema preconfezionato ma un vagare libero tra figure e fatti che sono patrimonio di quello spicchio di umanità, di cui ognuno di noi è parte irrilevante e allo stesso tempo, universo.

    L’autore

    A tavola con le tradizioni

    L’anitra, il cotechino con la lingua, il pollastrello con le patate novelle, solo per citare alcuni cardini della tradizione rurale nostrana in cucina, un mondo duro che sapeva coniugare lavoro e godimento; riti regolati dalle stagioni che coincidevano con i piaceri della tavola, che generavano rare e per questo ambite feste della famiglia e della comunità. Erano i rari momenti dell’abbondanza, vedi quello del travaso del vino dalle botti che invitava a tracannare senza risparmio o quando in occasione della mattanza del maiale, si attingeva allegramente dalla massa del macinato per i salami quanto serviva per condire senza risparmio bìgoli o gargati per la pausa di mezza giornata del mazzolin (norcino) e i suoi aiutanti.

    E giusto per rimanere in tema, il pensiero corre al salume più povero, il cotechino ed esattamente quello che racchiudeva la lingua intera del suino che non poteva mancare sulle tavole nel giorno dell’Ascensione, quaranta giorni dopo Pasqua. Contrariamente agli altri salumi, i cotechini vanno cotti per bollitura e quindi non devono coprirsi di muffa come i fratelli più pregiati; nella cantina devono essere conservati nella parte più asciutta e ventilata e comunque – per non prendere el ransin - dovevano essere consumati prima dei calori estivi (oggi con frigo e freezer il problema è superato). Poiché il più grosso si conserva meglio e perché la lingua affogata nel macinato richiede tempo per assorbire la salatura, era quindi riservato a questo, l’onore di essere gustato a primavera, el dì de l’Asensa appunto, fumante, stuzzicato con il cren e accompagnato con purè di patate o altre verdure cotte. Esiste pure un’interpretazione popolare della tradizione; me l’hanno confermata sia la mamma dell’amico Paolo Scattolaro di Thiene sia il calidoniense Natalino Carraro originario da Ignago e la simpatica Rosina Maggi da Monte Pian sopra Malo: era convinzione che il cibarsi della lingua del maiale preservasse chi lavorava nei campi e nei boschi dal pericolo dei morsi delle vipere e altri serpenti più o meno pericolosi che tuttora si incontrano nel nostro territorio. Stessa proprietà si attribuisce a una innocente pratica pagana che ancora sopravvive nelle nostre contrade: far bere alle donne un bicchiere di vino bianco il primo giorno di agosto.

    Incontriamo ancora questo salume povero, contornato da lenticchie stufate, servito in tavola su piatti bollenti come gran finale della cena o cenone di San Silvestro, tra scoppi di petardi e prima del botto dello spumante di mezzanotte. Anche in questo caso si consuma quello che al momento la dispensa può offrire. Due prodotti poveri che quando eravamo meno ricchi, bastavano da soli per onorare la tavola e allietare gli animi. Cotechino perché era prodotto di fresco e non richiedeva stagionatura e le lenticchie conservate secche, da sempre considerate auspicio di prosperità e abbondanza per il nuovo anno che sta per cominciare.

    Per la stessa occasione, dalle parti di Gambellara e di Breganze era ed è ancora uso gustare qualche acino di uva passa, l’ua picà come la chiamano i contadini.

    Nei venerdì di Quaresima ma soprattutto per la vigilia di Pasqua, nelle nostre cucine si diffondeva il pungente odore delle sardine o alici sotto sale, condimento base e quasi esclusivo per il piatto della vigilia, i bigoli con la sardea.

    Erano tempi in cui si rispettavano le feste religiose, anche quelle non necessariamente legate alla tradizione e non c’era colore politico che tenesse; la domenica era domenica e le ricorrenze scandivano il susseguirsi dei mesi e delle stagioni.

    Il giorno di Ferragosto, alla tavola di Napoleon, casolin al Laghetto e di tanti agricoltori, si gustava il pollastrello in umido con le patate novelle appena raccolte, quelle di piccola pezzatura comunemente chiamate uvi de galo. Il mondo rurale ha sempre cercato di accostare il sacro al profano ossia due piccioni con una fava. Una filosofia che troviamo anche all’origine di un’antica tradizione particolarmente radicata nella nostra regione, dove più che in altre era praticato l’allevamento dell’anitra.

    L’appuntamento è per il 7 Ottobre, la festa del Rosario quando l’anitra cotta nel forno era regina della tavola. In questo periodo le anatre incrociano le punte delle ali, inequivocabile segno che lo sviluppo è concluso e siccome il 7 era festa grande di precetto, la padrona sceglieva l’anitra che riteneva più adatta – poteva essere una Germanata veneta (unica razza autoctona italiana) oppure una Muta di Barberia o una Polesana o la nostrana Vicentina - tutte adatte a preparare i bigoli co’ l’arna, ricetta con la quale Zanè si è guadagnato il marchio De.C.O. e ne ha fatto bandiera. Arna in tecia e bigolo tondo, al Rosario i contenta el mondo recita un vecchio adagio. La festività venne istituita per onorare la vittoria riportata a Lepanto il 7 ottobre del 1571 dalla flotta della Lega Santa su quella ottomana; all’origine la chiamarono Festa della Vittoria in seguito trasformata in Festa della Madonna del Rosario in quanto si attribuì il successo della flotta cristiana alla protezione della Madonna, invocata dagli equipaggi con la recita del Rosario prima dello scontro.

    Altro ancora - anche se non necessariamente legato a date o un motivi particolari - rallegrava le tavole rustiche dei nostri nonni: la polenta con la renga o con el pesse popolo o con il famoso scopeton dal sapore acuto, che si racconta venisse appeso a una trave sopra la tavola, alla portata dei commensali che vi insaporivano la polenta con un pur fuggevole contatto, per poterlo così riciclare per altri pasti ancora. Arrivava poi la stagione delle castagne e vin novo, degli ossi de mas-cio col cren, del brulè col clinto, broche de garofano e canela in cana. Roba preistorica per i palati ormai indeboliti dalle proposte dei fast food, delle paninoteche e le varie cucine vegane, macrobiotiche o vegetariane. Mai però dire mai: chissà,… a volte ritornano.

    Giornale & Caffè

    Circola una testata di categoria titolata Bargiornale ma non di questa vogliamo parlare, bensì di ciò che potremmo definire un rito e che proprio al bar trova il palcoscenico dove quotidianamente, con punte nelle ore antimeridiane, si rinnova un appuntamento che coinvolge un eterogeneo campionario di personaggi, senza limiti di età o di sesso: occupati, disoccupati, pensionati o sfaccendati; artigiani, professionisti, casalinghe o autisti. Distinte o anonime persone che varcano la soglia dei bar per il caffè o la colazione con brioche e cappuccino ma a volte sembra soprattutto per scorrere i titoli del quotidiano, locale, nazionale o sportivo.

    A spanne potremmo stilare una classifica, anche se non supportata da autorevoli fonti statistiche ma palese all’occhio attento; senza ombra di dubbio si potrebbe redigere un indice di gradimento che vede in testa alla classifica il quotidiano per eccellenza dei vicentini e La Gazzetta dello Sport che, come afferma una gentile barista di Caldogno, gode dell’assoluto privilegio del pubblico maschile. Locali più attenti mettono a disposizione anche il Corriere della Sera e nel caso di qualche circolo ricreativo, anche altri fogli di informazione di chiaro orientamento politico. Non mancano gestioni particolarmente avvedute che si dotano addirittura di due copie del quotidiano locale, onde evitare l’inconveniente che incombe su un bel Caffè di Borgo Scrofa, dove due imperterrite mature signore, ogni giorno sequestrano per tre quarti mattinata, sia il Giornale di Vicenza che la Gazzetta. La maggior parte degli abituè si sono rassegnati, qualcuno ha cambiato bar, ma loro non mollano e la proprietà non si decide a investire in un raddoppio delle copie.

    Gran parte dei clienti considera inscindibile il binomio giornale-consumazione o viceversa. Si notano: c’è quello che entrando sciabola occhiate allenate sui tavolini per intercettare il foglio e ghermirlo prima ancora di passare all’ordinazione; un altro in piedi, mentre con lenti sorsi gustano il primo caffè della giornata, tiene vigile l’occhio su quello che giunto alle ultime pagine, sta per mollare l’osso. Pronta, scatta allora la formula rituale: scusi, posso?, prego; qualche volta però la richiesta si congela su un è mio, mi spiace, oh, mi scusi e intanto già un tipo che sembrava così distratto ha prontamente colto l’occasione di subentro a quel giovanotto che lo stava distrattamente sfogliando in piedi. Volendo occuparci di statistica, abbiamo chiesto a un oste di Montecchio e a un’altra dozzina di suoi colleghi, qual è secondo loro, la pagina che i clienti aprono per prima. Lapidari, nessuno ha esitato un istante: L’ultima. Quella dei morti. E poi? Tornano brevemente alla prima per passare poi direttamente alla cronaca locale, quella che ruota attorno a casa loro. Pagine di economia e politica – aggiunge un cliente dell’osteria Fiorluce di Camisano - secondo me occupano inutilmente fogli di carta, la gente è ormai smaliziata, non crede a tutto quello che sta scritto. Vedo invece molti scorrere con attenzione le lettere del pubblico, un’occhiata ai titoli e leggono solo quelle che per loro suscitano particolare interesse. Discorriamo volentieri con quest’uomo e anche lui conviene che al bassanese non interessa più di tanto la cronaca di Noventa o di Lonigo e il vicentino di Thiene non ha motivo di indugiare su ciò che avviene in Val Chiampo o in Val Liona, come pure gli asiaghesi saranno scarsamente interessati alle vicende che assillano i vicentini del capoluogo o di Recoaro. Un pubblico di lettori quindi fondamentalmente campanilista. Tra i lettori del Corriere è forse più facile percepire una maggiore sensibilità per firme di particolar valore e per notizie di più ampio respiro, dentro e fuori i confini nazionali.

    Infine, un fenomeno per un certo verso curioso, sta interessando sempre più lettorbaristi, grazie a quelle instancabili, un po’ timide e sempre gentili persone giunte fino a noi da remote contrade per rilevare da stanchi nostrani, bar e altre attività, spesso con grande sollievo di chi non sapeva come disfarsene. Ebbene, se vi siete persi una notizia, una foto o un annuncio apparsi su un numero arretrato del quotidiano, è probabile li possiate recuperare in un bar cinese , rovistando tra il pacco di giornali che per giorni conservano ammucchiati in qualche angolo del locale. Comunque, chi ha tempo e comodità, può fare la stessa cosa infilandosi in una biblioteca. Perde però l’occasione e il piacere di prendere due piccioni (o anche più) con una fava: trovare il quotidiano arretrato, leggere l’edizione del giorno, gustare un buon caffè e il dolce sorriso di Xiu Chang mentre porgendo lo scontrino cinguetta, Un eulo, glazie.

    La Befana vien de note...

    Non ci risulta che papa Silvestro I abbia particolarmente brillato nel firmamento dei vicari di Cristo in terra, sta di fatto che comunque santo fu dichiarato e la nomina gli garantì una postazione stabile nel calendario, sia pure nell’ultimo giorno dell’ultimo mese dell’anno. Ultimo posto a sedere, è vero, ma non tanto per scarsità di meriti quanto per una mera coincidenza. Infatti, proprio il 31 dicembre dell’anno 335, l’Ente Supremo lo chiamò a occupare il posto che gli spettava in paradiso. Entrò così a far parte di quel team di santi popolari con posizioni di ruolo nel calendario: san Martino per i traslochi, sant’Apollonia per seminare la prima insalata della stagione, santo Stefano in coda al Natale e lui, san Silvestro patrono dei muratori, quale supervisore dell’allegra notte che marca il passaggio dall’anno che muore a quello che nasce.

    Bon principio de l’anno (nella dizione originale noi vicentini risparmiamo una enne) era l’augurio gioiosamente gridato la mattina del primo di gennaio, da fresche voci di ragazzini che di buonora si spandevano per le vie e le contrade portando agli adulti ancora assonnati, un sereno auspicio per il nuovo anno.

    Era per noi - ancora alunni delle elementari - un appuntamento particolarmente atteso. Correvamo imbacuccati portando il saluto di casa in casa, sperando in qualche mancia destinata a rimpolpare i nostri piccoli risparmi. Non eravamo ancora sedotti dai fatui richiami consumistici delle generazioni che sarebbero seguite. Eravamo ancora educati, come i nostri genitori e i nostri nonni prima, alla pratica del risparmio.

    Anno nuovo, riti antichi. Alla capanna del presepio arriva la squadra cammellata dei Re Magi e fino agli anni Cinquanta - nelle famiglie non ancora toccate dal boom - per i bambini era trepida attesa della notte dell’Epifania; la notte della Befana! Con il benessere e l’incoraggiamento delle associazioni commercianti, si sono via via aggiunti dei concorrenti ma a quel tempo era lei, la simpatica vecchia a detenere il monopolio della

    festa dei doni per eccellenza.

    Per le consegne ai piani alti, la spericolata Befana carica di una gerla colma di regali, cavalcava una fantastica scopa volante, mentre per i pianiterra preferiva appoggiarsi a un più rassicurante asinello. Viaggiando per via aerea, le risultava comunque più agevole l’attracco alla bocca dei comignoli, nei quali si infilava per scendere a riempire di leccornie le calze appese attorno al caminetto.

    In previsione di risvegli troppo bonorivi, i genitori befani provvedevano a rifornire calze, calzini e calzette prima di coricarsi, consigliando la figliolanza a infilarsi con buon anticipo sotto le coperte, onde scongiurare il pericolo che la vecchia signora arrivasse mentre erano ancora svegli e allora addio doni per quell’anno. Era anche buona abitudine predisporre sulla tavola o su un angolo del focolare una colazione per la nonnina, senza dimenticare un po’ di fieno e una bacinella d’acqua per il suo asinello.

    Erano ancora di là da venire i giocattoli tecnologici: dentro le calze trovavano posto cose semplici che davano tanta felicità, quanta e forse più di quella che i nostri bambini si possono oggi attendere da troppa paccottiglia di cui gli è stata imbottita la testa.

    "Dentro le nostre calze - mi racconta Germano, nato in tempo de guera dice lui - c’erano i fichi secchi, le

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