Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il prigioniero del Sultana
Il prigioniero del Sultana
Il prigioniero del Sultana
E-book122 pagine1 ora

Il prigioniero del Sultana

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Keegan Mason, un giovane studente di Storia, rivive un episodio sconosciuto del passato della propria famiglia rivelatogli da James Marshall, ricercatore universitario intento a risolvere il caso che circonda l’incidente accaduto al battello SS Sultana, naufragato sul Mississippi nel 1865.

Keegan accetterà di riesumare i fatti accaduti lasciando emergere realtà irrisolte, costretto dal misterioso Leonard, assistente di Marshall, fino a infrangere la barriera che separa passato e presente.

L’intreccio delle storie degli avi e dei discendenti mostreranno loro fino a dove può spingersi l’odio e il rancore.
LinguaItaliano
Data di uscita14 gen 2020
ISBN9788831656658
Il prigioniero del Sultana

Leggi altro di Cristiano Pedrini

Autori correlati

Correlato a Il prigioniero del Sultana

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il prigioniero del Sultana

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il prigioniero del Sultana - Cristiano Pedrini

    PRI­MO

    Se pensassi

    Ec­co di nuo­vo quel­la do­man­da in­va­de­re la mia men­te, co­me se sa­pes­se che la mia re­si­sten­za, do­po que­gli ul­ti­mi gior­ni, non fos­se più in gra­do di re­spin­ge­re la sua ir­ru­zio­ne. Ave­vo cer­ca­to di osteg­giar­la in tut­ti i mo­di pos­si­bi­li: dai ri­cor­di pre­ce­den­ti a quel ma­le­det­to gior­no in cui il mio mon­do era sta­to so­sti­tui­to da quell’uni­ca stan­za nel­la qua­le mi tro­va­vo, al­le fan­ta­sie più di­spa­ra­te che riu­sci­va­no a tra­spor­ta­re la mia im­ma­gi­na­zio­ne ol­tre quel­le fred­de e di­sa­dor­ne mu­ra.

    Ma an­che que­sta vol­ta la do­man­da era ar­ri­va­ta quan­do me­no me l’aspet­ta­vo. "Sto per an­dar­me­ne. Lo so, lo sen­to. A que­sto pun­to con chi vor­rei par­la­re per l’ul­ti­ma vol­ta?"  mi ri­pe­tei.

    La ri­spo­sta non era af­fat­to scon­ta­ta. Non per me. Non riu­sci­vo a ri­spon­de­re con la sin­ce­ri­tà che in quel mo­men­to avrei do­vu­to mo­stra­re. Ep­pu­re, sa­pe­vo che il mo­men­to per por­mi dav­ve­ro quel­la do­man­da sa­reb­be giun­to pre­sto, no­no­stan­te mi sfor­zas­si di cre­de­re di­ver­sa­men­te.

    Sol­le­vai lo sguar­do ver­so quel­la fi­ne­stra, la stes­sa che ave­vo im­ma­gi­na­to più vol­te di scar­di­na­re per tra­sfor­mar­la in una via di fu­ga e po­ter­mi ag­grap­pa­re al­le nu­vo­le che ve­de­vo at­tra­ver­sa­re il cie­lo. Avrei vo­lu­to sa­lir­ci so­pra e aspet­ta­re che mi por­tas­se­ro via. Pec­ca­to che non avrei mai po­tu­to rag­giun­ger­la, sia per l’al­tez­za a cui si tro­va­va, sia per le sue di­men­sio­ni; non sa­rei mai riu­sci­to a pas­sar­ci, no­no­stan­te la mia cor­po­ra­tu­ra esi­le. An­zi, in quei gior­ni ave­vo per­so si­cu­ra­men­te al­tro pe­so e non cer­to per­ché mi le­si­nas­se­ro il ci­bo. Più di una vol­ta lo la­scia­vo nel piat­to spe­ran­do di in­dur­re quell’in­di­vi­duo a la­sciar­mi an­da­re, ma pro­ba­bil­men­te ot­te­ne­vo so­lo il ri­sul­ta­to di far­lo di­ver­ti­re, il pue­ri­le e ri­si­bi­le ten­ta­ti­vo di mo­strar­mi non an­co­ra vin­to.

    Sen­za ren­der­me­ne con­to, no­no­stan­te il mio sguar­do fis­sas­se le gam­be di­ste­se su una stof­fa scar­lat­ta, vi­di i lo­ro con­tor­ni sfu­ma­re, apren­do­mi la por­ta di quel ri­cor­do che ave­vo più e più vol­te vi­sto ri­pe­ter­si, co­me un vec­chio film, ma pri­vo del fi­na­le che tan­to ago­gna­vo. Per­ché con­ti­nua­vo a ri­vi­ve­re quel gior­no, a vo­ler ri­pe­te­re all’in­fi­ni­to quei ge­sti? For­se spe­ra­vo di tro­va­re una spie­ga­zio­ne a tut­to quel­lo che mi era ac­ca­du­to o, for­se, era so­la­men­te il de­si­de­rio di non tro­va­re nul­la di sen­sa­to e di lo­gi­co in tut­to ciò? Se la ri­spo­sta a quel­la do­man­da fos­se sta­ta ine­vi­ta­bil­men­te , al­lo­ra non avrei po­tu­to com­bat­te­re ad ar­mi pa­ri con chi mi ave­va fat­to co­stret­to a tut­to ciò. Non po­te­vo an­te­por­re la ra­zio­na­li­tà e la spe­ran­za di con­vin­cer­lo a de­si­ste­re e, seb­be­ne una par­te di me si sen­tis­se stra­na­men­te sol­le­va­ta da quel­la ri­spo­sta; era ine­vi­ta­bi­le che es­sa sca­te­nas­se, co­me con­trap­pe­so, la pau­ra di non sa­pe­re co­me tro­va­re una via di fu­ga da quel­la che, or­mai, non po­te­vo de­fi­ni­re in al­tro mo­do se non una pri­gio­ne.

    «Kee­gan Ma­son… lei è Kee­gan Ma­son?» Il to­no di vo­ce schiet­to e de­ci­so ri­sve­gliò il ra­gaz­zo dai pen­sie­ri che la­scia­va va­ga­re nel­la sua men­te ogni qual­vol­ta riu­sci­va a ri­ta­gliar­si un po’ di tem­po per me­di­ta­re sui pas­si fu­tu­ri che non po­te­va ri­man­da­re an­co­ra a lun­go.

    Il ra­gaz­zo sol­le­vò lo sguar­do, os­ser­van­do l’uo­mo che gli por­ge­va la ma­no in sa­lu­to. «Sì, so­no io,» ri­spo­se, al­lun­gan­do la sua per strin­ger­glie­la, ac­cor­gen­do­si, una fra­zio­ne di se­con­do do­po che non l’ave­va ri­pu­li­ta ed era an­co­ra spor­ca del cioc­co­la­to che si era sciol­to sul­le sue di­ta. Ama­va al­la fol­lia quei bi­scot­ti ri­co­per­ti di ca­cao che ac­qui­sta­va nel pic­co­lo bi­strò all’an­go­lo sot­to ca­sa, no­no­stan­te gli la­scias­se­ro ogni vol­ta quel­la trac­cia che tra­di­va la sua go­lo­si­tà. Ma lo sguar­do di­ver­ti­to del­lo sco­no­sciu­to lo tran­quil­liz­zò.

    «Mi scu­si,» escla­mò tut­to d’un fia­to Kee­gan, al­zan­do­si fret­to­lo­sa­men­te dal­la pan­chi­na e sfi­lan­do dal­la ta­sca del­la tu­ta un pac­chet­to di faz­zo­let­ti di car­ta, che por­se all’uo­mo, ac­com­pa­gnan­do­li con un sor­ri­so im­ba­raz­za­to.

    Quel­lo ri­ma­se pe­rò con la ma­no so­spe­sa a mezz’aria, co­me se stes­se ri­mu­gi­nan­do qual­co­sa.

    «Le as­si­cu­ro che que­sti non so­no far­ci­ti al cioc­co­la­to,» lo ras­si­cu­rò Kee­gan.

    Quel­le pa­ro­le ria­ni­ma­ro­no il vol­to dell’uo­mo, che ne pre­se uno e si ri­pu­lì il pal­mo del­la ma­no. «Le con­fes­so che an­che io ho un de­bo­le per il ci­bo de­gli dèi,» an­nuì lui. «La­sci che mi pre­sen­ti: mi chia­mo Ja­mes Mar­shall e so­no un ri­cer­ca­to­re dell’Uni­ver­si­tà di Bir­min­gham, Ala­ba­ma.»

    «Lie­to di co­no­scer­la,» ri­spo­se Kee­gan, mo­stran­do­si per­ples­so. Non ave­va pa­ren­ti in quel­lo Sta­to e nep­pu­re si ri­cor­da­va di aver in­via­to ri­chie­ste a quell’uni­ver­si­tà, an­che se sa­pe­va che era una del­le mi­glio­ri. Ave­va let­to una clas­si­fi­ca po­co tem­po pri­ma che la piaz­za­va ad un di­scre­to po­sto tra quel­le pub­bli­che.

    «Pos­sia­mo an­che dar­ci del tu. Im­ma­gi­no ti sta­rai chie­den­do il mo­ti­vo del­la mia vi­si­ta è pre­sto det­to,» pro­se­guì Ja­mes, po­san­do la sua bor­sa di pel­le scu­ra sul­la pan­chi­na. «Sto la­vo­ran­do a una ri­cer­ca per un fat­to av­ve­nu­to al ter­mi­ne del­la Guer­ra ci­vi­le e cre­do che po­tre­sti es­ser­mi mol­to uti­le.»

    La per­ples­si­tà di Kee­gan la­sciò il po­sto al­la sor­pre­sa che non riu­scì a na­scon­de­re. «Io… es­ser­ti uti­le?» gli chie­se, cer­can­do di sfor­zar­si di ca­pi­re in che mo­do avreb­be po­tu­to es­ser­lo. Cer­to, in sto­ria ame­ri­ca­na ave­va ot­ti­mi vo­ti ed era una del­le ma­te­rie di stu­dio che pre­fe­ri­va, ma non im­ma­gi­na­va cer­to di po­ter col­la­bo­ra­re con un ri­cer­ca­to­re uni­ver­si­ta­rio.

    «Ca­pi­sco il tuo stu­po­re, ma se vor­rai de­di­car­mi un po­co del tuo tem­po ti po­trò spie­ga­re con chia­rez­za per­ché vo­glio coin­vol­ger­ti in que­sto la­vo­ro che, ov­via­men­te, ti ver­rà re­tri­bui­to,» pre­ci­sò l’uo­mo, guar­dan­do­si at­tor­no. Il cam­pus a quell’ora del po­me­rig­gio era tran­quil­lo e si­len­zio­so, e se non fos­se sta­to per la lie­ve brez­za che scuo­te­va i ra­mi de­gli al­be­ri, tut­to sa­reb­be sem­bra­to co­me cri­stal­liz­za­to nel tem­po.

    Re­tri­bui­to, si ri­pe­té nel­la men­te Kee­gan. Già, l’idea di es­se­re coin­vol­to in una ri­cer­ca uni­ver­si­ta­ria che avreb­be po­tu­to sfog­gia­re per ar­ric­chi­re il suo scar­no cur­ri­cu­lum era quan­to mai al­let­tan­te, in più se ad es­sa si ag­giun­ge­va la pos­si­bi­li­tà di met­ter­si in ta­sca qual­co­sa per ar­ro­ton­da­re le sue en­tra­te, co­me po­te­va ri­fiu­ta­re? Il la­vo­ro co­me ca­me­rie­re nel ri­sto­ran­te di lus­so in Pearl Street era sta­to un bel col­po di for­tu­na. Era vi­ci­no all’uni­ver­si­tà e gli per­met­te­va di po­ter­si con­ce­de­re qual­che pic­co­lo ex­tra che la sua bor­sa di stu­dio non gli con­sen­ti­va. Avreb­be po­tu­to di cer­to chie­de­re una ma­no ai suoi ge­ni­to­ri, ma era in­ten­zio­na­to a di­mo­stra­re lo­ro che po­te­va ca­var­se­la.

    «Al­lo­ra, ac­cet­ti?» in­si­stet­te Ja­mes.

    «Ma co­sa do­vrei fa­re esat­ta­men­te?» do­man­dò Kee­gan.

    «La­vo­re­re­mo nel­la mia fa­col­tà. Per te è un pro­ble­ma as­sen­tar­ti per qual­che gior­no? Ov­via­men­te prov­ve­de­rò io a tut­te le spe­se.»

    «In real­tà, pri­ma vor­rei sa­per­ne di più,» obiet­tò il ra­gaz­zo, af­fer­ran­do lo zai­net­to che ave­va la­scia­to sul­la pan­chi­na.

    «Giu­sto. Po­trei an­che es­se­re un paz­zo se­rial kil­ler in cer­ca del­la sua pros­si­ma vit­ti­ma,» sor­ri­se Ja­mes, pren­den­do il por­ta­fo­glio dal­la ta­sca in­ter­na del­la giac­ca. Ne estras­se un tes­se­ri­no e lo mo­strò a Kee­gan. «Que­sto di­mo­stra chi so­no,» gli dis­se, os­ser­van­do la rea­zio­ne del ra­gaz­zo, che al­lun­gò il col­lo ver­so il bad­ge in­di­can­te le cre­den­zia­li dell’uo­mo.

    L’em­ble­ma dell’uni­ver­si­tà, no­me e co­gno­me, la fir­ma del ret­to­re, tut­to sem­bra­va in or­di­ne. Kee­gan sol­le­vò lo sguar­do. I suoi oc­chi ca­sta­ni si ad­dol­ci­ro­no e, ri­met­ten­do­si lo zai­no sul­le spal­le, sor­ri­se: «Sem­bra ve­ro, ma non pos­so co­mun­que aver­ne la cer­tez­za».

    La gras­sa ri­sa­ta di Ja­mes par­ve scac­cia­re la quie­te che li cir­con­da­va. «Sei dav­ve­ro so­spet­to­so ra­gaz­zo. Fai be­ne, vi­sti i tem­pi che cor­ro­no.»

    «Non lo sa­re­sti an­che tu? Io so­no uno stu­den­te co­me mol­ti al­tri, an­che se be­ne­fi­cio di una bor­sa di stu­dio per me­ri­ti spor­ti­vi, e so be­ne che in

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1