L'uomo che attraversò il tempo per me
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Anteprima del libro
L'uomo che attraversò il tempo per me - Francesca Borrione
Borrione
Biografia Autrice:
Francesca Borrione (1978), ricercatrice e scrittrice, è dottore di ricerca in Scienze Umane e dell’Educazione (Università degli Studi di Perugia), ed è attualmente impegnata nel conseguimento del suo secondo PhD in Inglese presso la University of Rhode Island (Stati Uniti), dove insegna letteratura e cinema e si occupa di traduzioni e scrittura creativa. La sua dissertazione si intitola True Crime, Women, and Sensationalized Representations in the Italian American Imaginary e ha come focus gli adattamenti letterari e cinematografici di casi di cronaca riguardanti le donne italoamericane. Autrice di quattro monografie (editi da Morlacchi University Press e Aracne Editore tra il 2007 e il 2015) e di diversi articoli accademici. È autrice del romanzo La stagione arida di Minerva Jones (Les Flaneurs Edizioni 2017).
Pubblicato da Pubme © – Tulipani Edizioni
Prima edizione 2019 Pagina Facebook: https://www.facebook.com/tulipaniedizioni/ Questa è un'opera di fantasia.
Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.
È vietata la riproduzione completa o parziale dell’opera ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941)
Sinossi:
La vita di Selma è concentrata su poche cose: lavoro, letture, e film in bianco e nero. Selma si nasconde in una comoda routine, fatta di scadenze e solitudine, dalla quale pochi amici cercano di farla uscire. Un giorno, un uomo che dice di chiamarsi Kyle Reese, come l’eroe di Terminator, la raggiunge al telefono. Selma non sa a chi appartenga quella voce, ma non riesce a interrompere il filo diretto con l’unica persona che sembra conoscerla davvero. Tra citazioni cinematografiche e conversazioni intime, Kyle insegna a Selma a guardare al mondo con occhi nuovi. Esiste la persona giusta? Come riconoscerla, quando abbiamo smesso di crederci? Forse, è tutto più semplice di quello che appare, e la felicità ci aspetta dietro l’angolo.
1
Ho attraversato il tempo per te
.
(Terminator, 1984)
L’andatura sciolta, i modi cortesi e sicuri da cavaliere medievale, Jim McKay non ha proprio niente a che fare con il vecchio west. È uno, per dirla alla John Wayne: "Tanto in gamba che non sente la necessità di dimostrarlo"¹.
Jim McKay, uno che per amore è disposto a rischiare la vita in un duello con un colpo solo in canna. Ieri ho visto quest’uomo straordinario, che non oserei nemmeno pensare di avere accanto, e mi sono trovata a sospirare languida di fronte al televisore trentaquattro pollici, che con le casse stereo è come il cinema. Jim McKay non è una mia fantasia, Donald Hamilton ha scritto le sue imprese e William Wyler le ha portate sullo schermo.
Il grande paese è proprio quel genere di film di cui non posso fare a meno se mi sento un po’ malinconica e che, solo sui titoli di coda, quando torno alla realtà, mi ricordano la mia infelice condizione esistenziale.
Mi sono addormentata sul divano, alla fine della privatissima proiezione, rifiutandomi di elaborare le ragioni per cui continuo a sospirare dietro ai miei personaggi preferiti, quando è ogni volta drammaticamente evidente che nessuno di loro uscirà mai fuori dalla bidimensionale perfezione dell’eroe romantico, appassionato e inarrivabile.
Ecco perché mi sento sconquassata, fuori asse rispetto al mio stesso equilibrio.
Non c’è nessun Jim McKay, che abbia o meno le sembianze di Gregory Peck, ad aspettare il mio arrivo, da qualche parte.
Nessun McKay capitano di mare, che non smarrisce la rotta neppure per le terre sconfinate del grande paese.
La promozione di un ideale di uomo che la popolazione maschile possa prendere da esempio, ecco un obiettivo che ogni governo dovrebbe prefiggersi. Come un dovere civico. Sfortunatamente, però, la mia felicità non rientra nei piani di nessuna amministrazione. Non è in elenco neppure negli obiettivi aziendali della società per cui lavoro, e i miei genitori hanno soltanto una vaghissima idea di quello che mi riempie il cuore.
Jim McKay lo capirebbe di certo. Solo che lui non esiste, e io oggi mi sento sola.
Ecco perché sono di pessimo umore.
In più, c’è che oggi il tempo è ironicamente splendido, a dispetto del mio tetro stato d’animo.
È una di quelle giornate che se fossi un artista la immortalerei.
Il cielo sembra aver gettato via la patina grigia in cui si era nascosto nelle ultime settimane, ed ora esibisce raggiante il suo più sfumato tramonto. Dalla mia scrivania, posso godere di una bella vista, la migliore dell’intero piano. Il mio microscopico ufficio è fortunatamente fornito di una ariosa parete finestra che non conferisce alla stanza l’aria di una gabbia di metri due per due, quale in effetti è, e fa molta invidia ai miei colleghi, i quali le passano davanti, quando la porta è aperta, soltanto per ammirarne il panorama. Quella vista, insieme al poster di Kyle Reese e Sarah Connor di Terminator che mi sono fatta incorniciare per Natale lo scorso anno e che campeggia davanti ai miei occhi ogni qual volta dirigo lo sguardo verso la porta, è l’unico appiglio di speranza dal basso del ventunesimo piano in cui sto goffamente appollaiata. Tra poco sarà ora di andare, e potrò assaporare i colori rossastri di New York in prima persona, invece che starli a contemplare dal vetro.
«Selma» qualcuno mi sta chiamando. Alzo gli occhi verso la porta dell’ufficio, rimasta distrattamente aperta.
A cercarmi è Lawrence Connelly, il mio superiore, quello a cui devo motivare le mie decisioni professionali.
«Ogni volta che passo di qua, ti trovo sempre a lavorare a capo chino. Sei davvero instancabile». Spalla appoggiata alla porta, piedi ben piantati a terra e braccia incrociate come a esaminarmi, Lawrence, il dirigente impeccabilmente vestito, cozza con l’eroe di Terminator, campeggiante sullo sfondo in una posa insieme virile e romantica, mentre impugna un fucile e abbraccia la sua donna. La proteggerebbe a costo della vita. Chi non vorrebbe abbandonarsi tra le sue braccia? Lawrence Connelly è in grado di reggere il peso della carica che ricopre, ha un sorriso da un milione di dollari e i suoi abiti sembrano sempre essere appena usciti dalla lavanderia. Per esempio, il completo gessato che indossa oggi, scommetto che profuma ancora di amido, i pantaloni non hanno nemmeno perso la piega e la camicia bianca aderisce perfettamente al suo corpo. La giacca aperta vorrebbe conferire un tono di informalità all’ambiente.
Un giorno, dovrebbe presentarsi vestito come Kyle Reese, avvolto in un impermeabile usurato e pregno di pioggia, magari anche spettinato e con un’ombra di barba.
Questo sì, sarebbe informale. Sarebbe addirittura rivoluzionario.
Ma Lawrence, incontrastato re della propria isola, non vede che sé stesso, ed è pertanto incapace di operare qualsiasi confronto.
Si mostra stranamente affabile, stasera. «Sei l’unico impiegato che non scalpita perché arrivi l’ora di tornare a casa» dice entrando nell’ufficio e avvicinandosi alla scrivania.
«Non ho molto di meglio da fare» ribatto senza distrarmi ulteriormente dalla lettura. «Beh, ma... non ti aspetta nessuno?».
Scrollo le spalle.
«Ho un appuntamento alle sette e trenta, quindi posso prendermela comoda. Ma se preferisci che io...».
«No, no... resta, figurati. Dicevo così, tanto per fare conversazione» risponde lui, facendo marcia indietro. «Ma chi devi incontrare? Qualche ammiratore?» chiede poi, con velata malizia.
«Una mia amica» replico seccata.
Detesto questo tipo di domande. Come se andassi a raccontare proprio a lui, la lavandaia dell’azienda, i miei fatti strettamente privati.
«Okay» dice Lawrence, deluso di non avere alcun pettegolezzo da spifferare in giro, ma soddisfatto che non ci sia nessun fidanzato a sottrarmi le energie che quotidianamente spendo per il mio lavoro. «Ricordati di portare le ultime pratiche nel mio ufficio, domattina» borbotta poi, andandosene via.
Ogni volta che non sto ai suoi noiosissimi scherzi, lui deve mettersi a fare il capo, impartendo ordini a tutti come se si trattasse di una punizione. Lascerò il compitino già fatto sulla scrivania di Lawrence stasera stessa, prima di andarmene, cosicché lui non debba tornare alla carica domani, magari pretendendo particolari sulla mia serata. Intanto, mentre Lawrence mi intratteneva con la sua parlantina, si sono fatte le sette e qualche minuto. La mia amica Laura, con cui sono cresciuta fin dai tempi del liceo, mi aspetta in un locale non tanto lontano. Spengo il computer, la stampante, le luci. Infilo il cappotto, lego bene la sciarpa scura attorno alla gola, prendo la mia borsa e mi allontano, pratiche in mano, dall’ufficio, per passare, prima di uscire definitivamente, in quello arioso di Lawrence.
È una sequenza di gesti meccanici e spesso ripetitivi. Il mio dovere è un elenco di obblighi scadenzati dagli orari.
Ma ora sono finalmente libera.
Venti piani di ascensore in compagnia di colleghi: alcuni sono soltanto facce familiari, altri totalmente estranei.
Si lamentano della mole di lavoro, inveiscono contro quelli che non capiscono niente di arte, parlano di sé, dei progetti per la serata, se c’è qualche programma in TV.
Nessuno mi chiede un parere.
Sono in mezzo a sette persone, ed è come se non ci fossi. Mi stringo in me stessa, più piccola che mai, e attendo che l’ascensore abbia terminato la sua corsa per fuggire all’aperto e ricominciare a respirare serenamente. Un paio di giovani che erano con me nell’ascensore, mi notano ansimare affannosamente. Mi basta osservare le loro scarpe per dedurre che sono attori: hanno ai piedi delle scarpe eleganti ma non seriose, ben lucide, senza graffi, con quella linea giovanile che fa tendenza. Ormai so riconoscere un attore anche soltanto da un particolare, come dalle calzature o dal modo di camminare. Hanno quasi tutti un’andatura elastica e solida, tipica di chi è sicuro di sé e del proprio talento. Si sentono unici, e non guardano mai in terra. Ne bazzicano tanti, di giovani rampanti in cerca di fortuna, nell’azienda. Io leggo copioni e soggetti, ne so qualcosa. Al piano sopra il mio si fanno i casting per le serie televisive prodotte dalla rete per cui lavoro, perciò non è raro scontrarsi con attori alle prime armi che se ne vanno in giro con il curriculum sotto braccio, o aspiranti attrici su vertiginosi tacchi con in mano uno spesso book fotografico, magari rilegato in una sofisticata copertina di raso scuro. Nonostante l’abitudine, non riesco a sentirmi naturale, quando mi trovo tra loro. Non ho alcuna necessità di mostrarmi più affascinante per il mio lavoro, non trascuro il mio aspetto, ma non faccio nemmeno troppo caso al mio abbigliamento. Non è necessario che io piaccia per forza. Il mio lavoro, per fortuna, mi esime dall’obbligo di interventi estetici, forme prorompenti, abiti con scollature improponibili e capelli acconciati. Io sono una delle tante api operaie in questo grande alveare di regine in competizione, e se c’è una cosa bella in tutto ciò, è che io non devo gareggiare contro nessuno a suon di bisturi. Sono il capo del mio stesso alveare, e decido io le mie regole di vita. Quindi sono sicura di me stessa. Certo. Soltanto che adesso la mia autostima non è al top, e mi sento felice come un brutto anatroccolo nel lago dei cigni.
Non vedo l’ora di parlare un po’ con Laura. Meno male che c’è lei a raccogliere pazientemente i miei sfoghi e le mie nevrosi.
Eccola, mi sta aspettando fuori dal bar. Non entra mai da sola, senza di me. Preferisce attendere il mio arrivo in strada, a osservare il viavai confuso di pedoni frettolosi e turisti con la testa in aria a scrutare la punta dei grattacieli.
Laura non è mai riuscita a familiarizzare con l’idea della solitudine, e anche solo il pensiero di stare da sola al tavolo, mentre tutti entrano ed escono accompagnati, le crea un disagio indescrivibile.
Almeno così sostiene. Naturalmente capisco il suo punto di vista, ma chissà cosa farebbe nella mia condizione di single permanente, e chissà come farebbe senza il suo Sean, ancora di salvataggio di tutta la sua vita.
Se ragionassi come Laura, non uscirei nemmeno di casa.
Le insegne del locale, dalle luci biancastre, illuminano la sua figura con l’effetto di renderla ancora più esile di quanto in realtà non sia. Mentre mi avvicino con passo spedito e unisco le mani in una preghiera, implorandola così di perdonare il mio ritardo, lei annuisce, ammonendomi in silenzio, limitandosi a ticchettare con l’indice sul quadrante dell’orologio. La prossima volta non mi aspetterà, afferma. Faccio finta di crederle, poi, per farmi perdonare, le apro la porta del bar facendola entrare per prima. Il cassiere ci saluta cordialmente, come fa con i clienti abituali, e ci indica un tavolo libero, distante dalla troppa folla e, soprattutto, lontano dalle casse dell’amplificatore dello stereo, che stasera canta una piacevole musica jazz.
«Dalla faccia, devi avere avuto un altro scontro con qualche bellissimo attore disoccupato» nota Laura, non appena si è tolta il giaccone e ha potuto darmi una rapida occhiata. «Erano in due» preciso io.
Adoro il modo in cui Laura riesce a capire cosa mi sta succedendo. Posso magari cercare di nasconderle le mie emozioni, ma quello che mi accade lei lo sa sempre decifrare dai toni cupi o rilassati del mio viso.
«E sei stata ovviamente colta da una lieve crisi di panico» continua. Annuisco.
«Leggerissima, per la verità: mi sono fatta i venti piani senza fiatare» puntualizzo come stessi parlando di una grande vittoria.
«Complimenti!» Laura mi applaude sarcasticamente.
«Smettila» le ingiungo.
«Senti, io lavoro semplicemente in un ristorante, perciò non sono molto intelligente, ma mi chiedo: perché non provi a parlare con queste persone» ribadisce lei, infischiandosene della mia richiesta. «Invece di estraniarti come se fossi parte dell’arredamento? Perché non tenti di fare un minimo di conversazione? Sarebbe un passo avanti, e scommetto che a loro farebbe piacere».
«Sì, figurati. C’erano due pertiche di modelle...» ho la loro immagine slanciata ancora davanti agli occhi e la mia si oscura da sé, al solo confronto.
«La verità è che tu non ritieni nessuno abbastanza intelligente da meritare la tua attenzione» sentenzia Laura, fermando una ciocca bionda di capelli sotto una luminosa molletta argentata. «Ecco perché non parli mai a nessuno, nemmeno in ascensore. Insomma! In ascensore! Nessuno ti chiederà mai di spiegare la formula della bomba atomica! Una semplice, banale conversazione in ascensore, tipo che tempo fa, che cosa c’è in TV, che si fa stasera. Dovresti provare, per una volta».
«A che pro?».
Laura, gomiti sul tavolo e mento poggiato tra le mani, pondera la risposta. «Per conoscere gente nuova? Scopriresti che non tutti sono come John» risponde, riportando a galla una vecchia storia che non riesco a dimenticare.
«Non sarebbe una cattiva idea se ti lasciassi un po’ andare. Così, una cosa tira l’altra... Un giorno è un saluto, il giorno dopo un caffè, e la settimana successiva diventa una cena».
«Non funziona così» scuoto il capo.
«Funzionerebbe, se dessi alle persone almeno una possibilità. Ma tanto tu sei convinta di essere la più anatroccola di tutte, e che soltanto il principe azzurro riuscirà a capire il tuo valore».
«Anche se fosse, che c’è di male? Insomma, lui non è qui. Lo so».
«E come hai questa certezza? Sono tutti degli idioti, vero? E credi che lui arriverà su un cavallo bianco, magari protetto da un’armatura, e ti dedicherà una serenata sotto il balcone?».
«Puoi pensarla come vuoi».
«Selma» dice Laura, dolcemente.
«Da quando John...».
«Non pronunciare più quel nome» le parole mi slittano tra i denti. Quanta rabbia a sentire nominare l’uomo che mi ha rovinato la vita. È come un interruttore. Lo tengo spento la maggior parte del tempo, e basta appena un cenno per accendere ancora il mio dolore.
«Non puoi schivare il mondo per sempre» continua Laura, imperterrita. Sento il bisogno di fermarla, anche se sarò scortese.
«Invece, vuoi sapere la verità? La verità è che sono diventata solo un po’ più esigente della media» la rimbecco, mentre il solito cameriere mi versa la seconda tazza di caffè. «
Senza offesa, ma le tue pretese sono leggermente esagerate» replica Laura con decisione.
È stanca di ascoltare le mie lamentele, ma sono anche io stufa dei suoi rimproveri. Non valuto nemmeno l’ipotesi di ascoltare oltre.
«Niente affatto! Solo perché non mi accontento di ciò che capita, come fa la maggior parte della popolazione mondiale, non vuol dire che io pretenda troppo dagli altri».
«Scusami» risponde allora Laura. «Cito le tue parole: Voglio qualcuno che attraversi il tempo per salvarmi
» e inarca le sopracciglia, in attesa di una mia replica.
«Beh?».
«Ti rifai al personaggio di un film, per descrivere il tuo ideale?».
«Si chiamerà ideale per qualche motivo, no?».
«Si chiama ideale perché non esiste. E per quanto tu possa guardare Terminator fino a consumare la cassetta, uno come... come si chiama?».
«Reese» preciso con un sussulto.
«Kyle Reese».
«Ecco» ribatte Laura, indifferente a quel nome. «Lui non uscirà mai dallo schermo per te. Non si materializzerà mai. Resterà sempre inafferrabile, e le tue aspettative rimarranno perennemente deluse, perché la realtà non può reggere il confronto con un film».
Mi guardo intorno. Nel piccolo locale affollato, nessuna faccia che mi appaia quanto meno interessante.
Dovunque mi volti, è un girotondo di manichini.
Bei vestiti, pettinature alla moda, tante voci confuse in un cumulo di inutili chiacchiere. Non sono attratta da questa giostra, e non voglio farne parte. Voglio farmi colpire, voglio una battuta importante, uno scambio di sguardi, un gesto inatteso. E dovunque, mi scontro nello specchio dei desideri altrui. La solitudine sembra essere la mia unica compagnia, eppure non so ancora rassegnarmi ad essa.
Sento che la mia vita non può esaurirsi tutta nel sogno di qualcuno che non arriverà mai, o nel ricordo dell’unico che ci sia mai stato, eppure non trovo conforto altrove.
La mia vista è annebbiata, tutti hanno un’opinione su dove dovrei indirizzare la mia rotta e io non so cosa fare.
«Non so perché tutti continuate a dire le stesse cose» sbotto. «
Che sono difficile, che devo sapermi accontentare, che mi aspetto troppo... e se non fosse così? Voglio dire, se foste voi a non capire?».
«Selma» ribatte Laura quasi scusandosi di appartenere a quella cerchia di persone. «Io non voglio che cambi, non voglio che ti accontenti. Ma che tu riesca a fare un po’ di autocritica».
«Sono sempre io ad essere sbagliata, vero? Mentre gli altri non hanno alcuna responsabilità!».
«Devi dare una possibilità alle persone» ripete lei, come ha fatto già qualche minuto fa. «E questo che significa?».
«Un esempio? Tu rispondi per monosillabi, quando un ragazzo cerca di parlarti».
«Ti riferisci ancora alla storia di Eric?» chiedo, ripensando a quell’episodio, fresco di pochi mesi, che ancora non ho digerito. «Beh, lui è l’ultimo in ordine di tempo, ma potrei fartene un elenco dettagliato».
«Senti, quello era un idiota!» replico allora senza mezzi termini, per troncare quell’argomento, e finisco la tazza di caffè.
«D’accordo» balbetta Laura non riuscendo a trovare un termine positivo per definirlo, e mettendosi anche a ridere. «Era originale. Ma simpatico».
La interrompo nuovamente per una precisazione: «Avresti voluto che trascorressi le mie giornate in compagnia di un tipo che ha, come massima aspirazione, incontrarsi con i suoi compari in una cripta e giocare a carte?».
«Giochi di ruolo, Selma» mi riprende. «Si chiamano giochi di ruolo... e non c’è niente di male, perfino Sean ci ha giocato, per un certo periodo».
«Infatti lui è il tuo ragazzo, mica il mio». Mi mordo le labbra, ma è troppo tardi. Mi accorgo subito di quanto superficiale e insensibile sono stata con Laura. Lei non mi risponde. Si limita a guardarmi, stupita e risentita per la cattiveria che ho appena pronunciato. Sospiro.
«Scusami» appoggio stanca la testa tra le mani. Vorrei mettermi a piangere, ma riesco soltanto a mutare il mio viso in un’espressione delusa. «Li incontro tutti io, Laura: bugiardi, fumati, sfigati» il pensiero a John è immediato e doloroso.
Laura mi capisce: «Prima o poi capiterà anche a te di trovare il ragazzo giusto».
«Mi basterebbe uno che, dopo un bicchiere d’acqua, non si asciughi la bocca con la camicia».
«Succederà. È successo anche a me, che sono come te».
«Vuol dire che ti sei presa l’ultimo rimasto».
Le luci del locale illuminano il mio viso, per poi abbassarsi lentamente. Si è già fatto buio.
In mezzo al fumo, tra la folla, si fa spazio un giovane, lungo e magro, che si dirige diretto verso il nostro tavolo.
«Ecco Sean!» esclama Laura, alzando la mano e facendosi notare da lui.
Osservo attentamente i suoi occhi, che hanno preso improvvisamente a brillare.
Ne sono invidiosa.
I due si salutano affettuosamente. Giro gli occhi con imbarazzo. «Ciao, Selma. Come va?» dice Sean, e rispondo con un cenno distratto. Dopo tanti anni, non ha ancora imparato a salutarmi con un’altra frase, o a personalizzarla, almeno nell’intonazione. Sean ruba una sedia al tavolo accanto al nostro e si accomoda senza troppi complimenti. Io penso in giro, vagando mentalmente dentro di me.
Sean intrattiene conversazione con Laura per qualche minuto, poi si alzano entrambi.
«Andate via?» cado dalle nuvole.
«L’ho appena detto» mi riprende Laura, che si è già infilata il cappotto. «Perché non ci stai mai con la testa?».
«Scusami, ero sopra pensiero» mi appoggio una mano alla fronte e serro gli occhi un istante. Il tempo di chiudere a chiave il cassetto dei desideri inavverati e tornare sulla terra.
«Ci aspettano quelli del trasloco».
«Non posso credere che abbiate comprato casa» affermo, quasi contrariata.
«Non fare quella faccia, erano mesi che ne parlavamo» interviene Sean a chiarire l’argomento. «Era il caso di decidersi!».
«La casa è bellissima» interviene Laura, quasi a giustificare