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I riflessi di Black Mirror: Glossario su immaginari, culture e media della società digitale
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E-book320 pagine4 ore

I riflessi di Black Mirror: Glossario su immaginari, culture e media della società digitale

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Info su questo ebook

"Black Mirror" è una serie televisiva antologica in grado di interrogare in maniera radicale il senso del rapporto tra l'uomo, la società e le tecnologie nel tempo presente. Questo volume si propone quale glossario a più voci, con l'obiettivo di interpretare, nelle trame dell'angosciante distopia messa in scena, il mutamento delle culture, dei media e degli immaginari nella società digitale globalizzata in cui viviamo.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita27 mar 2020
ISBN9788835394822
I riflessi di Black Mirror: Glossario su immaginari, culture e media della società digitale

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    Anteprima del libro

    I riflessi di Black Mirror - Mario Tirino

    Ringraziamenti

    Prefazione - Alfonso Amendola

    Lo specchio oscuro del tecnologico

    "Non so chi sono, mi sento multiplo.

    Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi"

    (Fernando Pessoa)

    Speculum Maius [1]

    Nella sua densa antologia (stordente miscellanea, imperiosa monografia) dedicata allo specchio, il grande storico dell’arte (e diplomatico) lituano Jurgis Baltrušaitis (1981) sottolinea tutta la potenza dello specchio. E come esso sia sempre stato un dirompente dispositivo dove il concreto e il visionario (il reale e l’illusorio, il sostanziale e l’apparente) continuamente si avvicinano, si fondono, si confondono. E quindi lo specchio come simbolo della Sapienza, del Verbo, delle Scritture, della visione profetica, spazio della conoscenza e generatore di spettri (Baltrušaitis 1981). Lo specchio ovvero inquietudine identitaria, lacerazione esistenziale, trama del pensiero, scandaglio risolutivo. Insomma, lo specchio (e il suo robusto spazio metaforico) ciclicamente torna nei grandi immaginari della fondazione emozionale e negli assi portanti del pensiero: da Omero a Narciso, da Edgar Allan Poe a Sigmund Freud, da Jacques Lacan a Jean Baudrillard, da Jorge Luis Borges a Fernando Pessoa… E come un’onda assoluta giunge fino a noi. Fin dentro le ossa della nostra tarda modernità, in un prodotto di grande azzardo audiovisivo. Di eversione narrativa. Dalla dimensione labirintica. Dove tutto è dentro un potente vortice (tecnologico e mediale). Una trama liquida che sembra solidificare l’universo tutto. E sembra raccontare al mondo attraverso la traslazione dello specchio oscuro della TV, del PC o dello smartphone, ma anche totalmente dentro la simbologia della dimensione dello specchio (Strauss 2017, Amendola, et al. 2016, Biedermann 2011, Melchior Bonnet 2002) ogni pulsione di un presente distopico. È magistrale l’affabulazione, la mescolanza e l’alchimia immaginifica che abita Black Mirror. Così esplosiva. Radicale. Estrema. Irriverente. Spietata. Potrebbe continuare senza sosta alcuna l’aggettivazione della serie televisiva britannica nata nel 2011 e prodotta da Charlie Brooker per Endemol.

    Signore e signori: Black Mirror

    Il libro curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana – che già dal titolo, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, dichiara la propria logica di dizionario – ci propone una rosa di diciassette autori (che mi piace definire esploratori-entomologi-sismologi) che, con un approccio multidisciplinare, affrontano le distopie e le trame rizomatiche della serie britannica. Un trascinante libro collettivo che si presenta come uno strumento di ricerca necessario e uno spazio d’indagine fondamentale.

    Ma cerchiamo di capire qual è l’obiettivo di Tirino e Tramontana (mi fa piacere ricordare che Tirino proviene dal­l’Ateneo di Salerno e Tramontana dall’Ateneo di Messina e che sovente incrociano passioni e studi nel nome dell’im­maginario e dei processi comunicativi). Scrivono i due curatori nella premessa al volume:

    Black Mirror è una monade: un’opera (ancora non conclusa) capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia. (…) Se si dovesse osare una classificazione degli episodi, si potrebbe dire che Black Mirror ha per oggetto due tipi di tecnologie: quelle legate alla relazione con il bios e quelle legate al controllo e manipolazione dello spaziotempo.

    Magistrale prodotto della cultura di massa, Black Mirror da un punto di vista narrativo spezza nettamente il flusso delle soglie di attesa e continuità tipiche della serialità e ci spinge (cambiando situazioni e personaggi di episodio in episodio) verso un universo distopico e ipertecnologico. È sguardo al futuro eppure è immersione del presente. È decisamente dentro quel mutamento identitario verso il post-televisivo, il post-seriale e il post-immaginario (cfr. Frezza 2015, 2013, 2006, Brancato 2011, Borrelli 2008, Colombo 2007, Colombo, Vittadini 2006) che si rispecchia, appunto, nella serialità, nel cinema, nella letteratura (Fattori 2017), in tutte quelle trame espressive dell’industria culturale (A­bruzzese 2001) e solidamente tende a confermare che «l’identità deve essere riformulata, sociologicamente» (Pecchinenda 2018: 13). La condizione postumana e il succedaneo "riposizionamento dell’uomo all’interno del mondo" con il relativo «ripensamento dei rapporti di forza che questi intrattiene con gli altri viventi e con la tecnologia» (Amendola, Tirino, Del Gaudio 2017: 3) potrebbe essere il sostanziale punto di partenza per analizzare la serie inglese (sul postumano si vedano almeno Amendola 2017, Lucci 2016, Braidotti 2014, Farci 2012, Pireddu, Tursi 2006, Fimiani, Gessa Kurotschka, Pulcini 2004, Marchesini 2002, Pepperell 1995). Infatti, seguendo ancora precise indicazioni teoriche e motivazionali, i due studiosi ci ricordano che la serie è

    un universo frastagliato di protesi e forme di relazioni rappresentate in chiave distopica che si potrebbero riunire, per parafrasare un classico della psicologia sociale (…), nella seguente formula: tecnologia, Sé e società.

    Per questo possiamo dire che Black Mirror è il frutto complesso dell’abbandono dell’umanesimo classico e ci indica una linea di fuga verso nuove modellizzazioni culturali a partire dalla tecnologia. Un quasi azzeramento della cosiddetta purezza della natura umana per dare respiro a ritrovate soggettività nomadiche in costante divenire (Braidotti 2002). E dove lo spazio esistenziale è indissolubilmente legato all’alterità come elemento connaturato nell’uomo, collocando l’antropocentrismo e i persistenti dualismi su cui si fonda la tradizione occidentale in un processo di distacco (Haraway 1995).

    In Black Mirror la tecnologia e il mondo dei media sono l’assoluto scatenamento della vita di tutti i personaggi di volta in volta coinvolti nelle puntate. Le costanti narrative di questo prodotto post-seriale sono l’assuefazione ai ritrovati tecnologici e quindi il paradosso, il disturbo esistenziale, le distorsioni della sfera emotiva. E le tematiche sono tutte dentro il solco della contemporaneità: la ricerca ossessiva della celebrità come unica salvezza ( 15 Million Merits, 15 milioni di celebrità, 1x02), la videosorveglianza e l’incertezza come unico dominio ( Arkangel, 4x02); l’effetto nostalgia ( San Junipero, 3x04); la vendetta intesa come calvario senza giustizia ( White Bear, Orso Bianco, 2x02, Shut Up and Dance, Zitto e balla, 3x03), la brand reputation ( Nosedive, Caduta libera, 3x01, Men Against Fire, Gli uomini e il fuoco, 3x05) e tanto altro ancora.

    Il procedere indiziario sviluppato dagli studiosi coinvolti da Tirino e Tramontana è l’ansia teorica di fondo utile per valicare tutti i limiti spazio-temporali presenti nella serie per donarci uno spaccato di sintesi di forma e contenuto. E per cogliere il maggior numero di tematiche di questa serie lucidamente dominata dalla tensione dell’ansiogeno e dell’inquieto.

    In questo senso, lo spirito di questo volume è di interrogare Black Mirror a partire da alcune categorie o parole-chiave, che, in un’ottica interdisciplinare (con approcci riconducibili alla sociologia dell’immaginario e della comunicazione, all’estetica dei media, alla mediologia, all’antropologia digitale e ai Visual Studies), analizzano da una determinata prospettiva la serie britannica.

    Le diciassette parole scelte sono l’originale viatico, irradiato di luce differente, per principiare la circumnavigazione ed esplorare Black Mirror. Non è un caso che i contributi si orientino attorno a tre macro-aree, tra loro fortemente interlacciate: i conflitti dell’immaginario causati da un salto di qualità nel rapporto tra uomo e tecnica (così le voci Algoritmo di Mario Pireddu, Corpo di Claudia Attimonelli, Democrazia di Milena Meo, Interazione di Antonio Tramontana, Tecnica di Antonio Lucci e Zootecnica di Pier Luca Marzo); la trasformazione affettiva dei sensi e delle facoltà umane, generata appunto da tali conflitti ( Atmosfera di Giulia Raciti, Esperienza di Vincenzo Susca, Illusione di Federico Tarquini, Memoria di Damiano Garofalo, Morte di Alessandra Santoro, Paranoia di Mario Tirino, Pathos di Ivan Pintor Iranzo, Paura di Fabio D’Andrea); la fenomenologia dell’esperienza mediale nell’era della post-televisione ( Audience di Antonella Mascio, Schermo di Fabio La Rocca, Serialità di Angela Maiello).

    Per una prospettiva sociologica

    In conclusione, I riflessi di Black Mirror (anche nelle posizioni talvolta divergenti dei saggisti coinvolti) è un libro che nella sua consistenza, trasversalità, concettualizzazione e dirompente ragionamento ci indica, da un lato, una preziosa chiave di lettura di grande innovazione per avvicinare (o riavvicinare o scoprire) la serie britannica. E, nella sua dinamica sottotestuale, ci sottolinea alcuni assi portanti utili per indagare i processi culturali del nostro contemporaneo. In primo luogo la ferma consapevolezza che il corpo è concetto mutevole, costruzione culturale, è disseminazione (Caronia 1996). In seconda linea ci conferma che la nostra dimensione aumentata legata ai social, alle pratiche comunicative, alle dinamiche conoscitive e ai consumi di massa e digitali [2] è sempre più luogo di riflessione politica, vitale e culturale. E, infine, questo libro voracemente corale ci sottolinea la necessità di un approccio sociologico come prioritaria dimensione per cogliere prassi, teorie, metodologie, produzioni e funzioni del divenire. E quindi (ancora una volta) un solido tentativo per rintracciare la nostra identità così sfuggente, transitoria e dislocata.

    [1] La suggestione del titolo di questo paragrafo è tratta dall’opera di Vincenzo di Beauvais che realizzò l’imponente enciclopedia intitolata appunto Speculum Maius. Composta in tre volumi ( Speculum naturale, Speculum doctrinale, Speculum historiale, un secolo dopo si aggiunse l’apocrifo Speculum morale), fu pubblicata a Strasburgo fra il 1473 e il 1476 e altre riedizioni ne seguirono per tutto il XV secolo. Una monumentale opera per raccontare la storia del mondo e dell’umanità e dove la metafora dello specchio è utilizzata come costante narrazione.

    [2] Nello specifico dei temi inerenti la nostra prospettiva sociologica cfr. Amendola, Castellano, Troianiello 2018, Vittadini 2018, Boccia Artieri et al. 2017, Gili, Maddalena 2017, Romeo 2017, Boccia Artieri 2015, 2012, Codeluppi 2014, Sorice 2014, 2009, 2006, Colombo 2013, 2007, Jenkins, Ford, Green 2013, Capaldi, Ilardi, Ragone 2012, 2008, Paltrinieri 2012, 2004, Secondulfo 2012, Boni 2006, 2005, Gili 2005, Marinelli 2004, Castells 2002.

    Mutazioni tecnoantropologiche e conflitti socioculturali in Black Mirror - Mario Tirino e Antonio Tramontana

    I due autori hanno concepito insieme questo saggio. Antonio Tramontana ha redatto i paragrafi 1 e 2, Mario Tirino i paragrafi 3 e 4.

    1. Una catastrofe imminente

    Nella nostra contemporaneità, rispetto a tante possibili esperienze tragiche, dinnanzi alla percezione diffusa di assistere a un cataclisma epocale, rispetto a tutti i rivolgimenti delle grandi istituzioni e delle esperienze plurime della vita quotidiana; dinnanzi a queste immagini tutte contemporanee ce n’è almeno una che sentiamo più vicina e che riesce a comprendere tutto il quadro frammentato della nostra vita: si tratta del fitto consumo di tecnologia digitale. La sua prossimità consiste nella capacità, da parte della produzione tecnologica, di concepire dispositivi potenti ma allo stesso tempo così minuscoli da stare al braccio, nelle tasche, disseminati negli ambienti pubblici e privati: orologi, telefoni, sensori, telecamere, televisori, elettrodomestici, automobili, ecc., ormai sono tutti oggetti che, per quanto svolgano funzioni differenti, sono accomunati da un’unica tecnologia (quella digitale). Questa possibilità tecnologica tutta nuova li rende un unico aggregato in grado di ridurre i momenti puntuali e differenti della nostra vita a un unico flusso di dati. Tale rivoluzione fa di questo aggregato la costituzione di un sistema plurale ma allo stesso tempo interrelato e, dunque, capace di processare e governare le tante sfere della vita collettiva del nostro tempo. I rivolgimenti politici ed economici, il pullulare delle esperienze quotidiane così come l’accadimento dei grandi eventi; momenti così diversi, ognuno governato da meccanismi e da leggi proprie, oggi si ritrovano riuniti da un’unica logica di funzionamento, al punto da rendere estremamente semplificato il quadro in cui noi tutti agiamo. Al fatto che i tanti momenti differenti tra loro siano sempre più l’esito del largo uso di questa nuova generazione di prodotti tecnologici, dinnanzi alla semplice intuizione di un’unica radice in grado di produrre effetti così travolgenti, la sensazione più prossima e nutrita da più parti è quella della angoscia provocata dalla reductio ad unum.

    Questo è il quadro che man mano viene dipinto dalla nostra civiltà e via via le figure e i contorni si fanno più nitidi, le forme incominciano a riconoscersi, gli elementi si differenziano dall’ammasso dei colori. Ma dove cercare le schegge di un ordigno che sta per esplodere? Nel contestare allo storicismo l’assenza di un metodo con cui indagare i fatti storici, Walter Benjamin, in una delle tesi Sul concetto di storia – in contrapposizione al procedimento additivo degli accadimenti utilizzati per riempire il tempo omogeneo e vuoto –, affermava la necessità di un pensiero capace di porsi dinnanzi all’arresto, in una costellazione satura di tensioni, di eventi cristallizzati in una monade. Solo da quest’ultima si ha la possibilità di «far saltare fuori una certa epoca dal corso omogeneo della storia; [e così far] saltar fuori una certa vita dalla sua epoca». In questa contestazione vi è la convinzione che « in un’opera è custodita e conservata tutta l’opera, nell’opera intera l’epoca e nell’epoca l’intero corso della storia» (Benjamin 1997: 53).

    Black Mirror è una monade: un’opera, ancora non conclusa, capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia. Si tratta pertanto di tuffarsi in questo prodotto culturale al punto da scorgere i contorni di un’epoca in via di formazione. Ideata da Charlie Brooker e inizialmente trasmessa dalla rete britannica Channel 4, dopo le prime due stagioni è stata distribuita da Netflix e oggi, mentre si è appena conclusa la quarta stagione, ne è già stata annunciata la produzione di una quinta. Se ne deduce dunque già il successo, che deriva probabilmente da una serie di scelte strategiche sia dal punto di vista produttivo che distributivo. Tuttavia, crediamo che alla base dell’affermazione globale della serie esista un motivo celato e profondo, che si fa tutt’uno con l’esperienza della catastrofe appena descritta. C’è una peculiarità in Black Mirror che la rende differente da tanti altri prodotti culturali sci-fi di ambientazione distopica in circolazione nell’ultimo decennio : il fatto di essere una serie antologica. Ogni puntata è indipendente dall’altra e ognuna mette in scena una tematica differente, con atmosfere e personaggi autonomi e con problemi unici. Liberata dalle regole imposte da una trama rigida, la narrazione in Black Mirror è piuttosto ancorata al problema specifico posto in ogni puntata. Questo modo di procedere consente una serie di carotaggi dinnanzi alla complessità delle questioni. In ogni puntata vi è una tecnologia con problematiche differenti e in ognuna si percepisce uno stato d’animo singolare. Questo costituisce la ricchezza di Black Mirror: non essere mai esaustivo. Da tale ricchezza ognuno ricava qualcosa: dalla semplice condanna moralistica di certi usi della tecnologia ai tentativi, spesso raffinati, di trovare vie di fuga dinnanzi all’inevitabile. Tutto ciò contribuisce a riunire un pubblico ampio e variegato, mettendo insieme soggetti affascinati dalla distopia e pensatori che tentano di decrittare i geroglifici della nostra epoca.

    Occorre a questo punto precisare come questa catastrofe si inserisca all’interno di un quadro molto più ampio rispetto alle sorti di questi ultimi decenni di capitalismo. Si tratta di confrontarci con uno degli elementi costitutivi della nostra esistenza: il rapporto tra l’uomo e la tecnica – circostanza che, per certi versi, rende la questione ancora più drammatica. Sarà necessario per un attimo soffermarsi sulla questione, così da mettere in luce i rischi della catastrofe. Gehlen, nei suoi studi di antropologia filosofica, ha potuto chiarire come il rapporto con la tecnica sia costitutivo della nostra realtà antropologica (Tramontana 2016). A partire da un confronto serrato con le scienze biologiche, egli elenca una serie di dati di carattere morfologico al fine mettere in luce come, dal punto di vista corporeo, la peculiarità dell’uomo «consiste in una generale deficienza di organi ad alta specializzazione, cioè specificatamente adatti a un ambiente» (Gehlen 2010: 127). Così, a un confronto con altre specie viventi, se si può ritenere una specializzazione il fatto che le grandi scimmie abbiano la forma del muso possente, poiché essa permette di poter mordere, mangiare e fiutare adeguatamente, per noi si tratta di una parte del corpo appena abbozzata (Gehlen 2010: 132-133). Le carenze proseguono con l’assenza di un rivestimento pilifero con cui proteggersi dalle intemperie. Non abbiamo né organi difensivi con cui affrontare una situazione pericolosa, né una struttura somatica con cui fuggire da essa. L’insieme dei sensi non è particolarmente sviluppato e la dentatura non può dirsi né quella di un erbivoro, né quella di un carnivoro. Le braccia non sono adatte, come quelle delle grandi scimmie, all’arrampicata, né possiamo contare su piedi prensili. L’uomo è, pertanto, caratterizzato da «una sprovvedutezza biologica unica» (Gehlen 2010: 71) e tutte le carenze che caratterizzano il nostro corpo vanno intese come «inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè carenze di sviluppo: e dunque in senso assolutamente negativo» (Gehlen 2010: 70). Nel ritenerci tutti esseri manchevoli, esseri cioè che non possono contare su organi corporei specializzati, e dunque inadatti a intervenire adeguatamente in un ambiente specifico, abbiamo trovato nella tecnica quell’organo con cui completare la nostra deficienza biologica e poter modificare così i contesti in cui agiamo a seconda dei nostri desideri.

    Se l’uomo agisce attivamente attraverso la tecnica per piegare questo e quell’ambiente alle sue possibilità limitate, l’azione tecnica costituisce dunque quella radice da cui l’uomo trae tutta la linfa vitale con cui creare quelle protesi utili per affrontare l’onere che gli deriva dalla sua condizione biologica particolare. Così, in generale, le armi sono protesi con cui difendersi da un ambiente minaccioso. Mentre le abitazioni, gli indumenti e i sistemi di riscaldamento sono manifestazioni di questo rapporto con la tecnica impiegata al fine di poterci isolare termicamente dalle intemperie che altrimenti, data la nostra glabrezza, ci sovrasterebbero. In generale si può pertanto affermare come la tecnologia digitale rappresenti qui una delle famiglie di protesi con cui agiamo nella contemporaneità e che si inscrive all’interno del più ampio quadro che caratterizza il nostro rapporto con la tecnica. Pertanto, sempre attraverso Gehlen (2003: 11), possiamo affermare che

    la tecnica è vecchia quanto l’uomo, perché nei ritrovamenti di fossili noi possiamo talvolta dedurre con sicurezza l’intervento di esseri umani solo dalle tracce ivi lasciate da attrezzi elaborati. E già il rozzo cuneo di pietra focaia cela in sé la stessa ambiguità che oggi è propria dell’energia atomica: era un utensile da lavoro e in pari tempo un’arma micidiale.

    La tecnica sembra lasciare la traccia della nostra presenza anteriore e, sia che si tratti di pietre scheggiate o di imponenti armi di distruzioni di massa, in tutti gli esemplari mai concepiti e costruiti dall’uomo, per quanto diversi tra loro, possiamo riconoscere le tracce di una complessità di azioni possibili, di utilizzi variegati, di impieghi infiniti. In questo quadro, la tecnologia digitale sembra essere una delle tante possibili configurazioni a cui è giunto il nostro rapporto con la tecnica. Ma questa configurazione, pur essendo una delle tante possibili, costituisce una trasformazione radicale del nostro modo di stare al mondo e ci prepara alle soglie di un nuovo modo di vivere e di organizzarci l’un l’altro, trasformando l’esperienza che facciamo con il mondo (Carr 2011) e le forme di coesistenza reciproca (Greenfield 2017). Qui l’elemento più innovativo, quello che più di tutti si affaccia al futuro e segna il solco che saremo chiamati a percorrere, porta con sé la parte più arcaica del nostro essere e la radice della nostra unicità nel variegato mondo degli esseri viventi.

    2. I conflitti dell’immaginario

    Alla contingenza fisiologica, per cui l’uomo è un essere bisognoso di protesi per sopravvivere, occorre tuttavia aggiungere un’altra nostra caratteristica essenziale: il fatto che siamo dotati di organi con cui poter parlare. Se la tecnica è l’affioramento di una delle caratteristiche antropologiche, l’altra consiste nella capacità di creare un linguaggio. Così, come ha messo in chiaro Leroi-Gourhan (1977, 1977b), l’uomo è stretto tra due poli: da una parte il gesto, e dall’altra la parola. A partire da questa doppia specificità antropologica possiamo scorgere in ogni utensile, così come in ogni dispositivo tecnologicamente raffinato, non solo il fatto che sia composto da una materialità sottoposta a incessanti trasformazioni da parte dell’uomo al fine di poter agire adeguatamente in un ambiente. Oltre alle protesi che si sviluppano dalla nostra corporeità carente – e, dunque, al di là di ogni materializzazione tecnica – possiamo vedere un’eccedenza invisibile e impalpabile, un qualcosa che non ha né odore e né sapore, ma che, tuttavia, completa il quadro ricco di cui è composto l’uomo (Tramontana 2013). Nella pietra scheggiata, nell’aratro, nella locomotiva o, ancora, in uno smartphone, possiamo sempre individuare in ogni istante l’esistenza di «un linguaggio simbolico universale attraverso il quale diamo forma a emozioni, immagini, idee e azioni» (Wunenburger 2008: 9). Questa seconda metà della questione è intesa qui come immaginario, ossia come «un insieme di produzioni, mentali o concretizzate in opere, a base visiva (quadri, disegni, fotografie) e linguistica (metafore, simboli, racconti), in grado di formare degli insiemi coerenti e dinamici, che pervengano, a partire da una funzione simbolica, al senso di un incastro di senso proprio e figurato» (Wunenburger 2008: 19). La percezione della catastrofe, nutrita oggi per via della comparsa massiccia di tecnologia digitale, trova fondamento nella necessità tutta antropologica di creare un ambiente non solo attraverso semplici utensili o macchine, ma anche grazie alla creazione di simboli e miti, di immagini e forme di rappresentazione – e Black Mirror è appunto uno degli infiniti prodotti di questa dimensione invisibile.

    Ogni tecnologia porta con sé un proprio mondo immaginario, ed è a partire dalla compresenza di questi due elementi (gesto e parola, materia e simboli, tecnica e immaginario) che occorre indagare le sfide imposte dall’epoca dominata dalla tecnologia digitale. Così battere su un chiodo con un martello per appendere un momento topico della propria esistenza, oppure interrogare un server al fine di recuperare un fotogramma di memoria scattato qualche estate fa; in questi due casi puntuali e diversi tra loro interroghiamo due epoche differenti tra loro, due immaginari che, volendo, si contrappongono; e le due azioni saranno colonizzate da un materiale simbolico specifico – e, nel caso in cui lo si voglia approfondire ulteriormente, ci saranno miti e archetipi diversi a dare senso a questi due differenti atti abitati da linguaggi simbolici antitetici. Tuttavia sono pur sempre tecniche e immaginari che coesistono tra loro. Sono cose che ho fatto l’altro ieri. Le due azioni appartenenti a epoche geologiche differenti coabitano in un unico momento della nostra giornata senza apparenti contraddizioni. Tale coesistenza è resa possibile nella misura in cui l’immaginario si riorganizza di volta in volta attorno allo sviluppo di tecnologie nuove. Al netto delle visioni progressiste, non necessariamente la questione si risolve dunque con la fine dell’elemento vecchio a favore di quello nuovo. Come scrive Bolter (1985: 15)

    l’invenzione del ferro non eliminò gli arnesi di bronzo che erano meno costosi e più facili da forgiare, né gli efficaci mulini a vento o le ruote idrauliche eliminarono lo sfruttamento degli animali, non esistendo un modo conveniente per trainare un carro con la forza del vento o dell’acqua. La locomotiva, il motore a combustione interna, e ora il reattore nucleare non sono in grado di sostituire l’operaio che non usa alcun mezzo più sofisticato di un carrello per trasportare

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