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Pavese nel tempo: Mito, Storia, Cultura
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E-book238 pagine3 ore

Pavese nel tempo: Mito, Storia, Cultura

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Info su questo ebook

Il ritmo che cadenza le pagine di Pavese non è solo quello legato allo scorrere delle lancette sul quadrante dell’orologio. «“Essere fuori dal tempo” è la scommessa di Pavese, fuori dal tempo “empirico” per consentire sia il “costruirsi” dell’opera grazie a “istantanee illuminazioni”» sia la creazione di un nuovo ordine temporale che «destruttura e articola le pagine del Mestiere di vivere». (Laura Nay).
In questo volume accanto a studiosi da decenni “fedeli” allo scrittore langarolo (Masoero, Nay, De Liso, Paolin,Pierangeli) si affiancano validissimi giovani ricercatori (Daniele, Lanfranchi, Antonangeli).
Ne emerge da un lato il ritratto inequivocabile di classico del Novecento affermatasi in questi decenni, dall’altro la riflessione sull’intreccio tra il tempo della Storia e quello dell’esperienza personale, nel dialogo costante con il Mito contrapposto all’etica del lavoro, qui documentato con materiali inediti e la lettera all’amico, sceneggiatore e autore teatrale Tullio Pinelli.
Appena uscito dalla guerra, Pavese scrive articoli memorabili, tra tutti Ritorno all’uomo, sulla resilienza che la cultura ha offerto negli anni bui di odio e di atrocità del ventennio fascista e del conflitto mondiale.
L’annata 1945 termina con questa notazione del 9 dicembre:
«Ma tutti i pazzi, i maledetti, i criminosi sono stati bambini, hanno giocato come te, hanno creduto che qualcosa di bello li aspettasse. Quando avevamo tre, sette anni, tutti, quando nulla era avvenuto o dormiva solamente nei nervi e nel cuore».
L’ attesa di qualcosa di bello caratterizza alcuni momenti dell’infanzia, a rivederli con gli occhi dell’adulto. Accomuna tutti gli uomini e Pavese sente il bisogno di ribadirlo, in quel clima tragico di «ritorno all’uomo», come poi nel dialogo L’isola, dove Ulisse spiega a Calipso la ragione ultima della sua ricerca, nel riproporsi instancabilmente di alcune domande radicali e religiose sull’esistenza umana, sull’essere mitico ed eterno, sul tempo contingente ed effimero: «quello che cerco l’ho nel cuore come te».

Introduzione di Fabio Pierangeli
Pavese, il Mito e la Storia: aspetti di un incontro difficile di Angela Guidotti
Una lettera ritrovata: Cesare Pavese scrive a Tullio Pinelli di Mariarosa Masoero
«Il mondo del tempo» il Mestiere di vivere di Cesare Pavese di Laura Nay
Mitopoietica della poesia pavesiana di Daniela De Liso
Pavese: il carcere come «limite della carità» di Fabio Pierangeli
Paesi tuoi, Pancrazi, Montale: ricezione di un esemplare letterario, tra narratologia e liricità di Antonio R. Daniele
La casa in collina: la scrittura dell’Io tra vergogna e guerra di Demetrio Paolin
Santina e le due trame de La luna e i falò di Riccardo Antonangeli
Cesare Pavese, Luciano Foà, Erich Linder: note sulla corrispondenza per la “collana viola” di Anna Lanfranchi
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2020
ISBN9788838249952
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    Anteprima del libro

    Pavese nel tempo - Antonio R. Daniele (ed.)

    Antonio R. Daniele - Fabio Pierangeli (edd.)

    PAVESE NEL TEMPO

    Mito, Storia, Cultura

    «Studium» è una Rivista bimestrale

    Direttori emeriti: Vincenzo Cappelletti, Franco Casavola

    Direttore responsabile: Vincenzo Cappelletti

    Comitato di direzione: Francesco Bonini, Matteo Negro, Fabio Pierangeli

    Coordinatore sezione on-line di Storia: Francesco Bonini

    Coordinatori sezione on-line di Letteratura: Emilia Di Rocco, Giuseppe Leonelli, Fabio Pierangeli

    Coordinatori sezione on-line di Filosofia: Massimo Borghesi, Calogero Caltagirone, Matteo Negro

    Coordinamento collana ebook Biblioteca della Rivista «Studium»: Simone Bocchetta, Anna Augusta Aglitti

    Copyright © 2020 by Edizioni Studium – Roma

    ISBN 978-88-382-4995-2

    ISBN: 9788838249952

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    Pavese, il Mito e la Storia: aspetti di un incontro difficile

    Una lettera ritrovata: Cesare Pavese scrive a Tullio Pinelli*

    La lettera

    «Il mondo del tempo»: il Mestiere di vivere di Cesare Pavese

    Mitopoietica della poesia pavesiana

    Pavese: il carcere come «limite della carità»

    Paesi tuoi, Pancrazi, Montale: ricezione di un esemplare letterario, tra narratologia e liricità

    1. Montale su Pavese

    2. Paesi tuoi, Pancrazi e il monologo interiore

    3. Liricità di un esemplare letterario

    La casa in collina: la scrittura dell’Io tra vergogna e guerra

    1.

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    9.

    10.

    Santina e le due trame de La luna e i falò

    Pavese, Luciano Foà, Erich Linder: note Cesare sulla corrispondenza per la collana viola

    Bibliografia

    Edizioni dei carteggi

    GLI AUTORI E I TEMI

    BIBLIOTECA DELLA RIVISTA «STUDIUM» / 15.

    LETTERATURA E SPETTACOLO / 4.

    Antonio R. Daniele - Fabio Pierangeli (edd.)

    PAVESE NEL TEMPO

    Mito, Storia, Cultura

    Questo ebook è protetto da Watermark e contiene i dati di acquisto del lettore: Nome, Cognome, Id dell'utente, Nome dell'Editore, Nome del Content Supplier che ha inserito l'articolo, Data di vendita dell'articolo, Identificativo univoco dell'articolo. Identificativo univoco della riga d'ordine.

    È vietata e perseguibile a norma di legge l'utilizzazione non prevista dalle norme sui diritti d'autore, in particolare concernente la duplicazione, traduzioni, microfilm, la registrazione e l’elaborazione attraverso sistemi elettronici.

    Introduzione

    di Fabio Pierangeli

    Pavese nel tempo . Mito, Storia, Cultura : un titolo polivalente interpretato con finezze e intelligenza da studiosi da decenni fedeli allo scrittore langarolo accanto a validissimi giovani ricercatori italiani che stanno perfezionando all’estero gli studi (Lanfranchi, Antonangeli).

    Da un lato l’affermazione inequivocabile del ruolo di classico del Novecento affermatasi in questi decenni, dall’altra la riflessione sull’intreccio tra il tempo della Storia e quello dell’esperienza personale, nel dialogo costante con il Mito su cui si sofferma il saggio di Angela Guidotti, attraverso l’esame della scrittura epistolare e del diario.

    Per Laura Nay, curatrice, tra l’altro, dell’edizione del Mestiere di vivere con Marziano Guglielminetti, il ritmo che cadenza le pagine di Pavese non è solo quello legato allo scorrere delle lancette sul quadrante dell’orologio. «Essere fuori dal tempo è la scommessa di Pavese, fuori dal tempo empirico per consentire sia il costruirsi dell’opera grazie a istantanee illuminazioni» sia la creazione di un nuovo ordine temporale che «destruttura e articola le pagine del Mestiere di vivere».

    Una riflessione antropologica e filosofica radicale, quale sintetizzata nel diario analizzato dalla Nay, con strumenti multidisciplinari.

    Demetrio Paolin, scrittore e giornalista si riferisce invece al rapporto con la Storia de La casa in collina, intorno all’8 settembre, in una Torino lacerata dai bombardamenti. «L’uomo nuovo che nasce dalla guerra, è un uomo sterile, è vuoto e vigliacco, uno che si nasconde. La scintilla divina dell’umano, quella sorta di lucore che l’umanesimo ha così ben descritto, è venuta meno, si è spenta e ha lasciato spazio a una nuova umanità così inutile da non meritare neppure un castigo».

    «Niente accade» è la formula della rassegnazione dell’uomo maturo di fronte a questa realtà.

    Dalla parte opposta delle età dell’uomo rappresentate da Pavese troviamo l’operosità dell’infanzia e la ribellione adolescenziale e giovanile rispetto al tempo imposto dalla società borghese che mortifica la creatività intuita negli anni iniziali dell’esistenza.

    I giovani della trilogia della Bella estate vivono la notte, cercando continuamente le cose che accadono fino allo sfinimento e alla resa, indicata nel contrasto tra i verbi (le azioni) al presente e quelli all’imperfetto o al passato remoto.

    Lo attestano i lodatissimi incipit dei capolavori narrativi della piena maturità, definiti da Pavese con la formula di «realtà simbolica».

    La bella estate: «A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada per essere come matte e tutto era così bello, specialmente di notte che tornando stanche speravamo ancora che qualcosa succedesse».

    Il diavolo sulle colline: «Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai».

    Una baldanza castigata, quasi che i giovani, impunemente, avessero voluto sostituirsi a Dio nel vizio e fossero stati ricacciati nel territorio dell’ipocrisia e della legge del compromesso.

    Una dura sanzione, simile a quella letta nel mito con I dialoghi con Leucò attraverso la dialettica tra una legge imposta con violenza dagli olimpici e i liberi incontri tra le diverse nature nell’era dei titani.

    Riccardo Antonangeli si sofferma, con un pregevole lavoro testuale, sulla figura di Santina de La luna e i falò. Si tratta del personaggio con cui Pavese riesce meglio a coniugare gli elementi della realtà simbolica: trasfigurazione di fatti storici, simbolo dell’infanzia personale e dell’infanzia mitica, nell’immagine cruenta del corpo della ragazza arso come un falò, a ripetere ataviche superstizioni contadine e lasciare tracce simili a quelle degli antichi sacrifici umani.

    In questa scena, Pavese chiude consapevolmente un ciclo storico e stilistico, cominciato negli anni Trenta con le poesie racconto di Lavorare stanca: Daniela De Liso, attraverso un colloquio serrato con la critica recente, dimostra come la prima raccolta di Pavese e di seguito La terra e la morte e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi costituiscono «l’architettura della mitopoietica pavesiana».

    Essere nel tempo per Pavese ha anche significato una enorme mole di lavoro editoriale, come recentemente riepilogata nel volume einaudiano di Giancarlo Ferretti, L’editore Cesare Pavese.

    Una «caparbia ricerca stilistica, portata avanti da Pavese, sia nei versi che in prosa, senza eccezione per le lettere, un genere solo apparentemente minore ma per lui ugualmente serio e impegnativo», scrive Mariarosa Masoero, commentando un’inedita lettera a Pinelli del 1927, nella quale, a diciannove anni, Pavese si mostra cosciente di questo aspetto caratterizzante che si concretizza nel rappresentare la storia sullo sfondo degli archetipi, mirando a rappresentare nei suoi esiti maturi una «realtà simbolica».

    Un lavoro che oggi è facilmente accessibile agli studiosi grazie alla lodevole attività della Masoero, direttrice del Centro Studi Gozzano-Pavese dell’Università di Torino, con la possibilità di consultare i manoscritti on-line iscrivendosi al sito HyperPavese.it.

    Dell’ampia rete di rapporti culturali nella storia del suo tempo e della relativa storia della critica ci informano i saggi di Antonio Daniele (a partire da un articolo di Pancrazi da riscoprire) e di Anna Lanfranchi, che si concentra sull’impegno editoriale di Cesare Pavese per Einaudi, portando alla luce documenti preziosi del rapporto epistolare tra l’editore torinese e l’Agenzia letteraria internazionale, che permette di approfondire le motivazioni della nascita della celebre Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici.

    Un periodo cruciale quello dell’immediato dopoguerra, in cui si intrecciano storia e mito, violenza (siamo nati nella palude Boibeide) e volontà di ricostruzione, dopo la tragica lacerazione della guerra civile narrata ne La casa in collina.

    Ritorna, ciclicamente, l’immagine della condizione esistenziale del carcerato, trasposta poeticamente in Lavorare stanca, su cui focalizzo l’attenzione nel mio saggio.

    In quel frangente drammatico ed esaltante, Pavese scrive articoli memorabili, tra tutti Ritorno all’uomo, sulla resilienza che la cultura ha offerto negli anni bui di odio e di atrocità del ventennio fascista e del conflitto mondiale.

    L’annata 1945 termina con questa notazione del 9 dicembre [1] :

    «Ma tutti i pazzi, i maledetti, i criminosi sono stati bambini, hanno giocato come te, hanno creduto che qualcosa di bello li aspettasse. Quando avevamo tre, sette anni, tutti, quando nulla era avvenuto o dormiva solamente nei nervi e nel cuore».

    L’attesa di qualcosa di bello caratterizza alcuni momenti dell’infanzia, a rivederli con gli occhi dell’adulto. Accomuna tutti gli uomini e Pavese sente il bisogno di ribadirlo, in quel clima tragico di «ritorno all’uomo», come poi nel dialogo L’isola, dove Ulisse spiega a Calipso la ragione ultima della sua ricerca, nel riproporsi instancabilmente di alcune domande radicali e religiose sull’esistenza umana, sull’essere mitico ed eterno, sul tempo contingente ed effimero: «quello che cerco l’ho nel cuore come te».


    [1] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino, 1973, p. 278.

    Pavese, il Mito e la Storia: aspetti di un incontro difficile

    di Angela Guidotti

    Cesare Pavese nasce a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, il 9 settembre del 1908 e si uccide a Torino il 27 agosto 1950. Il suo mestiere di vivere si intreccia costantemente con il mestiere di scrivere, poesie, saggi, romanzi, traduzioni. La sua poetica è legata a doppio filo con il mito, prima quello americano, poi quello classico, alla ricerca costante di un raccordo con il mito personale, nel quale ricomporre un quadro contraddittorio di ossessioni proiettate sulla realtà che lo circonda, fatta di paesaggi, cittadini o campestri, di donne, di amici e colleghi di lavoro. Poi c’è la Storia: il Fascismo, le due Guerre Mondiali, la Resistenza, la ripresa del nostro paese dopo la fine del secondo conflitto. Ogni evento, in modo diverso, ora distaccato, ora coinvolgente, lascia il segno in lui, sotto forma di ciò che egli stesso chiamerà destino. Quel destino che coincide con l’esilio giovanile in Calabria per ragioni politiche, con l’impegno nell’editoria con l’antifascista Leone Ginzburg e poi nella casa editrice Einaudi, la permanenza sulle colline torinesi nel periodo bellico, infine l’adesione al Partito Comunista.

    Proprio questi ultimi anni di vita e di impegno, politico, creativo e nuovamente editoriale, mostrano una sorta di contraddizione tra coinvolgimento nella ripresa del dopoguerra con nuovo entusiasmo (e nuove speranze da parte di tutti) e il personale percorso interiore, volto alla costante ricerca del superamento di problemi esistenziali continuamente e drammaticamente imposti dal suo rapporto conflittuale con gli altri e con se stesso. Da qui la contraddittorietà che sembra caratterizzare le sue opere pur nella continuità inconfondibile delle tematiche e dello stile. Non si può negare d’altronde che con quella che possiamo definire la realtà, della politica prima ancora che della guerra, Pavese si fosse confrontato per esperienza personale fin dal 1935, quando, direttore pro tempore de «La Cultura» in sostituzione di Leone Ginzburg, a causa dell’arresto di quest’ultimo, era stato inviato al confino a Brancaleone Calabro per detenzione di corrispondenza clandestina. Trascorso lì un anno e rientrato a Torino, aveva ripreso la collaborazione con la casa editrice Einaudi e il primo contraccolpo narrativo era stato Il carcere, romanzo scritto tra il novembre 1938 e l’aprile 1939, destinato tuttavia a rimanere inedito fino al novembre 1948 (1949 sul frontespizio Einaudi) quando sotto il titolo di Prima che il gallo canti esso formerà un dittico con La casa in collina. Potremmo aggiungere a questi testi l’esperienza da molti considerata anomala del Compagno, insieme ad alcune poesie di Lavorare stanca, che, come vedremo, hanno chiara ispirazione politica.

    Sembra dunque emergere la figura di un intellettuale ed insieme di uno scrittore dimidiato, che da un lato cerca, pubblicamente, di affrontare temi allora di grande impatto, come la guerra e la Resistenza, dall’altro, nel privato, dopo aver affidato tra l’altro una serie di appunti quanto meno di carattere ambiguo ad un taccuino, appunti stralciati dal Mestiere di vivere e destinati a rimanere inediti fino alla pubblicazione postuma [1] si impegna, da direttore editoriale, a promuovere scrittori scomodi per quel momento storico, come Mircea Eliade ad esempio e si dedica ad un libro sul mito che, alla fine, quasi con valore testamentario, lascia sul proprio comodino prima del suicidio, con una breve dedica ai futuri lettori.

    È certo comunque che anche nei testi più dichiaratamente ‘politici’, emergono istanze legate alla sfera interiore di Pavese, quasi una sorta di tardo singulto da realismo magico, che fin dall’inizio della sua attività creativa ha caratterizzato una scrittura solo all’apparenza semplice, in realtà sovraccarica di simboli e, di fatto, etichettabile come avulsa dalla Storia.

    Il carcere continua a rappresentarne l’esempio più evidente, preceduto da diversi indizi sparsi in alcuni racconti precedenti, riuniti sotto il titolo di Notte di festa. Essi rappresentano una sorta di studio preparatorio al romanzo successivo, perché anticipano con forza la tematica della reclusione e della solitudine e soprattutto la funzione della memoria, rivelatrice del vero significato degli avvenimenti [2] . Pavese sceglie in questo caso la narrazione in terza persona: Stefano, il protagonista, si sente solo in mezzo a gente che considera «provvisoria»:

    «A volte, giocando alle carte nell’osteria, fra i visi cordiali o intenti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e precario, dolorosamente isolato, fra quella gente provvisoria, dalle sue pareti invisibili» [3] .

    Anche il confino dunque è un carcere, e lo è anche la donna, Elena, che come mezzo per evadere dal carcere si rivela un vero e proprio fallimento. Solo il paesaggio sembra permettergli qualche momento di respiro che tende a fargli dimenticare tutto il disagio legato alla sua condizione esistenziale:

    «Quand’era stato in cima, Stefano aveva guardato il mare e le case lontane. Di tutta la gita aveva colto specialmente l’illusione che la sua stanza e il corpo di Elena e la spiaggia quotidiana fossero un mondo così minuto e assurdo, che bastava portarsi il pollice davanti all’occhio per nasconderlo tutto» [4] .

    L’altro romanzo importante, chiamato a comporre il dittico editoriale di Prima che il gallo canti è La casa in collina, testimonianza cronologicamente più chiara della guerra e della resistenza partigiana. Non casualmente non è incluso Il compagno, che avrebbe dovuto rappresentare l’impegno non solo saggistico ma anche creativo della nuova fase postbellica. Con Il compagno egli finisce per scrivere un’opera dal carattere eccessivamente programmatico. Il romanzo si inserisce a pieno titolo in quello che potremmo definire il Pavese pubblico, intento a reprimere la sua apertura e attrazione per l’irrazionale, per il mito e il momento estatico, che evoca un tempo assoluto, di contro al suo scorrere continuo, volto al contrario a catturare una scrittura attenta alle trasformazioni politiche della storia e tutta immersa nel divenire. In questo modo i due aspetti non trovano un equilibrio, come lo stesso autore riconosce in un appunto successivo del diario, dove sintetizza il romanzo come frutto di «simbolismo e naturalismo staccati». L’opera sembra davvero costituire il tentativo più impegnato (e impegnativo per lui) di costruzione narrativa su basi storiche, anche se la Storia sembra costantemente proporsi in Pavese proprio come caduta del mito, dell’assoluto. È lui stesso a spiegarlo, ad esempio in un passo come questo:

    «Veduto dall’interno, un mito evidentemente è una rivelazione, un assoluto, un attimo intemporale, ma per la sua stessa natura tende a farsi storia, ad accadere tra gli uomini, a diventare cioè poesia e teoria, con ciò negandosi come mito, come fuori-del-tempo, e sottoponendosi all’indagine genetico-causale degli storici» [5]

    Assai meno costrittiva appare la scrittura ne La casa in collina. L’io narrante, quel Corrado il cui nome emerge dai numerosi discorsi diretti che bilanciano la narrazione in prima persona, racconta un periodo della propria vita immerso nell’atmosfera bellica, se pure, almeno fino alle pagine conclusive, vissuta da un punto di osservazione straniante, quello della campagna collinare cui giungono i sussulti di quanto sta accadendo nella vicina città, Torino. La mescolanza tra una sorta di confessione-ricordo dei vari eventi e la memoria dell’infanzia vissuta proprio in quelle terre, fa sì che tutto si giochi sull’alternanza continua fra concreto e realistico da un lato e affettivo e simbolico dall’altro. La dimensione privata del protagonista, il professore torinese ritornato nelle Langhe, nella casa casa-rifugio collinare, poggia sul ritrovamento del proprio fugace amore giovanile, Cate, impegnata nella resistenza e madre di un ragazzo il cui nome, Dino, è il diminutivo di Corrado, cosa che gli fa ragionevolmente supporre che si tratti di suo figlio. Con lei egli vive a tratti un nostalgico ritorno all’adolescenza, rassegnato però nel contempo ad uno stato di personale apatia. Così la guerra, la Storia, si pone come una condizione esistenziale, come una spinta ad indagare sul senso e i contrasti della vita.

    Eppure poi, nonostante tutto, il mondo esterno squarcia ogni velario e le ultime pagine sono non tanto il diario di un fallimento, quanto una riflessione sulla guerra e sulla morte. Qui si percepisce qualcosa che sembra anticipare ed anche saldarsi con la conclusione de Il compagno, testo solo in apparenza così lontano, con le riflessioni che chiudono la Casa in collina. Nell’ultima pagina de Il compagno Pavese attribuisce a Pablo questo pensiero, scaturito da alcune battute scambiate con Gina: «Ci sono anche i morti. Tutto sta a tener duro e sapere il perché». È come se la risposta, sottintesa, del partigiano, destinato a convivere tutti i giorni con la morte come inevitabile componente della guerra, fosse la rassegnazione: si resiste e poi, forse, si capiranno le ragioni. Corrado, che ha cercato fin che ha potuto di nascondersi alla e dalla guerra, di rimanere cioè uno spettatore, è costretto comunque a porsi quella domanda e a rispondere come se la guerra non dovesse mai avere fine:

    «Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a

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