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Buon sangue
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E-book249 pagine3 ore

Buon sangue

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Info su questo ebook

Due fratelli milanesi obbligati dalla mamma a trascorrere l'estate a casa della zia. Dal caos della città, Matteo e Gianluca si ritrovanoa Rivabella, piccolo centro della laguna romagnola, o meglio ad Aquamorta, come la chiamano quelli della zona che pescano e allevano anguille. È l'estate dei Mondiali dell'82' e, con il sottofondo della voce di Barniani che commenta le partite della Nazionale, i due adolescenti si troveranno a vivere avventure inaspettate e a scoprire grandi segreti.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2020
ISBN9788835823018
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    Buon sangue - Andrea Dalmasso

    BUON SANGUE

    di Andrea Dalmasso

    Prima edizione: maggio 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 ©BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe di Vittorio, 104 - 06132 Chiugiana (Perugia)  Bertoni Editore

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com

    vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata 

    Andrea Dalmasso

    BUON SANGUE

    E questo è per Monica lei sa il perché

    "... ma come fanno le segretarie con gli occhiali

    a farsi sposare dagli avvocati? Le bombe delle sei non fanno male,

    solo il giorno che muore,

    solo il giorno che muore."

    Antonello Venditti, Notte prima degli esami

    I

    Airoldi ammesso

    Banchelli ammesso

    Barzizza ammesso

    Calvetti ammesso

    Casati non ammesso

    Gli occhi di Matteo si fermarono lì, alla quinta riga. E probabilmente anche il suo cuore.

    Se n’era andato senza continuare a leggere cosa ne fosse stato dei suoi compagni. Ma, soprattutto, prima che qualcuno di loro potesse vedere la rabbia trasformarsi in lacrime.

    non ammesso

    Era stata di sicuro la Santini.

    Quella stronza di matematica lo aveva preso di mira fin dall’inizio. Da quando era rimasto segnato col sangue da quel cavolo di test di valutazione. La Santini lo faceva puntualmente il primo giorno di scuola, le serviva per timbrare gli alunni per i successivi tre anni delle medie.

    Buoni e cattivi.

    E lui faceva parte del secondo gruppo.

    Cose come: minimo comune multiplo, potenza di una potenza, gli sembravano giri di parole inventati apposta per fargli fare la figura dello scemo alla lavagna. Per quelli come lui la Santini avrebbe ripristinato le classi differenziali e non si era preoccupata di affidare il messaggio alle metafore.

    «Casati, non capisco perché tua madre si ostini a buttare i soldi in ripetizioni. Tu finirai a fare il meccanico o il piastrellista. Sarai uno che per tutta la vita tornerà a casa con le mani sporche. Uno di quelli che passerà la vita sotto il cofano della mia macchina e saprà a malapena contare i soldi per darmi il resto.»

    Doveva averlo già deciso dal primo giorno.

    Matteo si girò come se niente fosse lasciandosi alle spalle i tabelloni e le voci dei compagni. Il lungo corridoio che lo separava dall’uscita era l’ultimo ostacolo da superare. Essere ricordato come quello che si era messo a piangere davanti a tutti, sarebbe stato il colpo di grazia. Gli sarebbe bastato tenere gli occhi fissi sulle punte dei piedi. Un passo dopo l’altro e via. Sarebbe arrivato all'uscita senza accorgersene.

    Ma, se quella cosa poteva funzionare per le lacrime, per la lunga fila di pensieri che aveva iniziato ad affollargli la testa, sembrava non esserci soluzione.

    Primo fra tutti, lei.

    Sua madre, quella storia ci avrebbe messo un bel po’ di tempo a digerirla. Tra quarantacinque minuti tutti i suoi diritti di figlio si sarebbero azzerati e, per il resto dell’estate, si sarebbe dovuto sorbire l’intera lista dei sacrifici che lei aveva dovuto fare da quando era venuto al mondo. E, anche se, al solo pensiero, quella poteva sembrare una punizione

    da carcere duro, in fondo in fondo, sentiva che c’era qualcosa di maledettamente più doloroso.

    Il sole fuori dalla scuola lo colpì in pieno viso, come se fosse solo il primo di tanti schiaffi. Le lacrime, come da comando, avevano aspettato di scendere e adesso riusciva a sentirne il gusto salato tra le labbra, ma quel nodo che gli attorcigliava lo stomaco era ancora lì e non se ne sarebbe andato fino a quando non si fosse sentito considerato.

    Matteo si appoggiò al muro con la schiena, sotto il cartello.

    Scuola Media Statale Fratelli Cervi

    Iniziò a respirare profondamente.

    Quel nodo era la dura verità.

    Così semplice, ma così difficile da accettare.

    Già, perché in fondo, per quanto gli costasse ammetterlo, la Santini aveva semplicemente ragione. Lui era uno di quelli che sarebbe tornato a casa con le mani sporche. Uno di quelli che anche a Messa li riconoscevi, perché neanche la domenica gli tornavano le mani pulite. Quando mettevano le mani una sopra l’altra, alla comunione, potevi vederne i contorni delle unghie e le pieghe della pelle percorsi dai segni indelebili dell’olio motore. Era una specie di tatuaggio a vita, per metà scherno e per metà orgoglio.

    E lui lo avrebbe avuto.

    Quelle mani, che adesso assomigliavano ancora a quelle

    di un bambino, si mossero velocemente sulle guance spazzando ogni segno di debolezza. Davanti ai suoi occhi il piazzale assolato era un via vai di macchine. Suo fratello doveva essere lì da qualche parte ad aspettarlo e, l’ultima cosa che avrebbe voluto, era farsi sorprendere a piangere come un bambino.

    Per quanto era stronzo, come minimo, gli avrebbe riso in faccia.

    Gianluca aveva lasciato la scuola in prima liceo. Un giorno era tornato a casa e aveva detto di aver trovato lavoro da un tizio che riparava motorini e che a scuola non ci sarebbe più andato. La madre aveva avuto una mezza crisi isterica e, dopo due giorni di trucchi colati e visi disfatti, si era dovuta rassegnare. Ed era stato una sera a cena che Matteo l’aveva sentito.

    Sua madre aveva piegato il tovagliolo sul tavolo e ci aveva passato la mano sopra una trentina di volte come se volesse fargli tenere quella forma a triangolo per il resto della vita. Poi lo aveva guardato in faccia e aveva sospirato. E lui aveva sentito tutto il peso di quel sospiro finirgli sulle spalle. Lì dentro c’erano racchiuse le ultime speranze di una madre.

    Con Gianluca era andata così. Pazienza, con un figlio poteva capitare. E poi, non tutto era perduto, ne rimaneva ancora uno. Il più piccolo.

    Quello che lei aveva sempre coccolato un po’ di più.

    Quello che l’avrebbe riempita di soddisfazioni.

    Quello che, finalmente, le avrebbe dato motivo di essere una madre orgogliosa.

    E invece no.

    L’orgoglio era un lusso che la madre di due disgraziati non poteva permettersi. E adesso che sarebbe tornato a casa con la bella notizia, ci avrebbe pensato lui a farglielo capire.

    Il piazzale assolato davanti la scuola si era trasformato in una specie di girone infernale della felicità. La scena più gettonata era quella dei padri che menavano grandi pacche sulle spalle dei figli, accompagnate da promesse di regali di ogni tipo. Matteo sfilava con le spalle curve e gli occhi bassi sperando che, in mezzo a tutto quel gioire, nessuno si accorgesse di lui.

    Là, in fondo, c’era suo fratello.

    Sentì il primo colpo di pedale. Il secondo. E infine il borbottio del PX invase tutto il piazzale. Quel rumore, così familiare, lo avvolse come una sorta di coperta di Linus. Sarebbe riuscito ad attraversare quel posto in cui tutti sembravano troppo felici e nessuno lo avrebbe visto. Sarebbe arrivato vicino alla Vespa. Sarebbe salito sulla sella. E poi, finalmente, sarebbe sparito.

    Mancava poco ormai. Riusciva a sentire il profumo della miscela nelle narici. Ad ogni passo che faceva nella sua direzione, lo sguardo di Gianluca si faceva sempre più insistente. Ancora qualche secondo e suo fratello glielo avrebbe letto in faccia.

    Quella manata che sentì abbattersi all’improvviso sulla spalla sinistra, lo fece sobbalzare.

    «Allora Casati, ti hanno segato eh?».

    Era quel coglione di Binda, il leccaculo della Santini. Quell’erre moscia da figlio di papà, l’avrebbe riconosciuta dovunque, anche senza guardarlo in faccia.

    Le lacrime erano tornate prepotentemente a reclamare la scena sul suo volto e se si fosse girato e avesse visto quel bastardo ridere, non ci sarebbe stato più verso di trattenerle. Diede uno strattone con la spalla e si liberò dalla presa. Ma la pugnalata alla schiena ormai era in arrivo. E quella di Binda fu letale.

    «Se esco con ottimo, mio padre mi compra l’Atavi!».

    Ecco.

    Adesso non c’era più niente da combattere.

    Gli ultimi passi con cui si era allontanato dalla voce di Binda e dal suo cazzo di Atari li fece quasi di corsa. Il rumore della Vespa coprì i singhiozzi che ormai erano diventati incontrollabili. Suo fratello si limitò a scuotere leggermente la testa, buttare giù il cavalletto e ingranare la prima. Due colpi di acceleratore. In un attimo erano lontani.

    Senza una parola.

    Milano, a luglio, era calda già dal mattino.

    L’asfalto, ai primi raggi di sole, aveva iniziato a vomitare vapore per tutta l’acqua che il temporale della notte lo aveva costretto a ingoiare. Il sudore che univa la sua guancia alla maglietta di Gianluca si era mischiato con le lacrime. Gli erano scese a fiumi appena erano partiti poi, lentamente, tutto si era calmato.

    I viali semideserti avevano iniziato a scorrergli davanti agli occhi. Platani e cartelloni pubblicitari si erano alternati in una sorta di ipnosi, concedendogli la piacevole sensazione dell’incanto di chi guarda senza vedere. Matteo avrebbe voluto che quel ritorno verso casa, avvinghiato alla schiena di suo fratello, potesse durare all’infinito. Premere pausa al mondo intero, come si faceva con le cassette, e fermarlo a quell’estate del 1982, mentre lui avrebbe continuato ad osservarlo dalla sella di un PX125.

    La Vespa interruppe per qualche secondo il regime costante imposto dai nove cavalli e suo fratello mise giù il piede, aspettando che il semaforo tornasse verde. A parte le palpebre, che avevano continuato a sbattergli lentamente sugli occhi, lui non aveva mosso un muscolo. Era rimasto lì, appiccicato a Gianluca, aspettando che la piacevole sequenza di alberi e pubblicità ricominciasse a scorrergli davanti come in un film muto.

    A parte un tizio che era uscito sul balcone sfidando la calura, tutto intorno non si muoveva una foglia. Matteo lo guardò chinarsi sulla ringhiera e stendere un lenzuolo tricolore con una certa cura. Il verde, il bianco e il rosso erano ormai un lontano ricordo di quei colori vivaci che dovevano essere stati. La scritta Argentina ‘78, stampata nel mezzo, stava a testimoniare la sorte che gli era toccata già quattro anni prima e che, visto com’era andata, il suo proprietario non doveva essere uno scaramantico. Le pieghe che la dividevano in nove quadrati sapevano di tovaglia di trattoria e, dopo tutto quel tempo passato in un armadio, non se ne sarebbero andate neanche per la finale. Doveva essere stato uno di quelli che ci aveva creduto. E adesso sembrava essere di nuovo pronto a farlo.

    Lui se li ricordava quei mondiali. E, anche se non riusciva a memorizzare il teorema di Pitagora, per altre cose, il suo cervello funzionava a meraviglia.

    Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Cuccureddu, Scirea, Causio, Tardelli, Rossi, Antognoni, Bettega.

    Erano cose che non si dimenticavano.

    Per tutta la vita, probabilmente.

    Quelli erano stati i primi mondiali di cui avesse pienamente coscienza, i primi di cui ricordasse tutti i giocatori. Rossi e Cabrini erano sbocciati come tulipani e Bettega, approfittando della mancanza di Crujiff e Beckenbauer, era diventato la stella del torneo.

    Aveva seguito in televisione le immancabili polemiche che avevano caratterizzato l’approccio della Nazionale ai Mondiali ma, soprattutto, aveva goduto di un sentimento nuovo: quel magico orgoglio popolare che solo la maglia azzurra sapeva risvegliare nell’animo degli italiani. Era una cosa nuova per lui, era una cosa da torcersi le budella. Per la prima volta aveva visto macchine girare con una bandiera fuori dal finestrino. Per la prima volta aveva visto persone soffrire per il proprio Paese davanti alla tv. Per la prima volta aveva imparato che si poteva piangere già alle prime note dell’Inno di Mameli e che si poteva continuare a farlo per un goal, per una sconfitta e anche per una vittoria. In quell’estate di quattro anni prima, Matteo aveva pianto come mai in vita sua. Erano stati i singhiozzi disperati di un bambino a cui avevano regalato una favola con il finale più triste possibile. E adesso, seduto sul sellino di una Vespa, guardando quella bandiera scolorita, pensò che forse un motivo per rischiacciare play e ricominciare a guardare il mondo girare poteva avercelo di nuovo.

    Il semaforo divenne verde e la Vespa diede un primo strattone e, dopo qualche metro, il secondo. Matteo chiuse gli occhi e respirò profondamente. Mai più avrebbe regalato così facilmente le sue lacrime a chi non se le fosse meritate. La Santini e quello stronzo di Binda avrebbero potuto aspettare anche tutta la vita.

    Roberto Bettega no.

    Il piacevole stato di incoscienza terminò in fretta. Ormai erano arrivati sotto casa e quello che Gianluca avrebbe fatto nei prossimi secondi avrebbe potuto cambiare tutta la situazione. Da quando erano partiti non gli aveva sentito proferire parola. Appena fosse sceso dalla sella, lo avrebbe guardato in faccia e allora qualcosa avrebbe dovuto dirglielo per forza. Qualunque cosa gli fosse uscita dalla bocca, la sua posizione sarebbe cambiata. Nel bene e nel male. Magari gli avrebbe sentito dire di non preoccuparsi, che a parlare con la mamma ci avrebbe pensato lui perché così facevano i fratelli maggiori e che in fondo farsi bocciare era una cosa che poteva capitare a tutti.

    «Sei un coglione!»

    Era vero.

    Coglione era stato solo a pensarla una cosa del genere. Mica poteva pretendere che, come per incanto, si trasformasse da Caino al fratello buono delle favole.

    «Anzi, sei due volte coglione. Primo, perché non ho mai visto nessuno che si fa segare prima dell’esame di terza media e secondo...»

    Secondo, il giuramento di cinque minuti prima stava per vacillare. Matteo dovette di nuovo combattere per dominare quelle lacrime che avevano ripreso a velargli gli occhi e, se il primo motivo era stato disprezzo allo stato puro, il secondo sarebbe stato peggio. Di sicuro.

    «Secondo,  se avessi avuto  un po’ di palle,  a quello stronzo nel parcheggio, avresti dovuto chiudergli la bocca.» Matteo  seguì  con  lo  sguardo  suo  fratello  aprire  il

    cancello e salire le scale di casa.

    Chiuse gli occhi.

    Riavvolse il nastro nella sua mente.

    E rifece la scena.

    Ecco suo fratello che scendeva dalla Vespa e gli diceva che era un coglione. Poi, mentre si avviava verso il cancelletto, eeccolo fermarsi, guardare in basso e scuotere la testa. Eccolo tornare verso di lui con le braccia allargate. E pronunciare quelle parole: Scusami... Sono un cretino! È che non sono tanto bravo con le smancerie e, alla fine, finisco per dire cose che non penso. In realtà mi dispiace un casino per quello che ti è successo. Se vuoi, posso provare ad aiutarti con mamma. Magari si arrabbia un po’ all’inizio, ma vedrai che la faccio ragionare io. E poi, se ti può consolare, io sono messo peggio di te nei suoi confronti. Ed eccolo, per direttissima, sfoderare un sorriso di conforto. Ma non era ancora finita, la parte più bella arrivava per ultima: Ah, un’altra cosa... La prossima volta che quello stronzetto del parcheggio prova ancora a prenderti per il culo, tu digli che prima gli spacco la faccia e poi anche il suo Atari di merda, va bene?. Ed ecco che la scena volgeva al termine e lui sentiva lo stomaco stringersi.

    Mentre il giuramento fatto cinque minuti prima poteva anche andare a farsi benedire, ad una sola veniva concesso di scendere, rigargli la guancia e schiantarsi sulla sella in finta pelle. Era uguale a quella del goal di Bettega contro l’Argentina. Quella lacrima, suo fratello, se la sarebbe meritata.

    Matteo scese dalla Vespa e rimase a fissare la sella.

    Se l’era immaginato, girato e montato con tanto di lacrime sui titoli di coda. E se anche quella sella asciutta testimoniava un finale diverso dal film della sua vita, in quei pochi secondi aveva provato quella sensazione che solo chi aveva un fratello maggiore poteva conoscere. Non era neanche lontanamente paragonabile a quella di un padre o una madre.

    Ad un fratello maggiore potevi raccontare storie in cui avevi torto marcio e lui sarebbe riuscito a trovarci un po’ di ragione. Potevi chiedergli com’era toccare le tette a una ragazza e lui te lo avrebbe fatto capire. Potevi dirgli che ti eri picchiato con uno e lui sarebbe venuto ad aspettarlo fuori da scuola senza neanche chiederti chi aveva iniziato. Potevi dirgli che se ci parlava lui con la mamma, lo avresti ringraziato per il resto dei tuoi giorni.

    Sì, doveva essere bello avere un fratello maggiore.

    Quando entrò in casa Matteo si diresse a passo sicuro verso la cucina. Gianluca ne era appena uscito. Lo seguì con lo sguardo attraversare il corridoio e poi infilarsi in camera sua. Non lo sentì nemmeno arrivare lo schiaffo.

    A forza di pensare a quelle cose, si era quasi convinto che in una famiglia erano gli affetti a venire prima di tutto. E neanche si era accorto di sua madre che gli si era avvicinata per mollargli un manrovescio.

    Per un attimo, ci aveva sperato.

    E invece suo fratello era entrato in cucina prima di lui e doveva averglielo detto con il sorriso sulle labbra. «Ah, sai il tuo figlio più piccolo? Beh, si è fatto bocciare ancora prima dell’esame. Che coglione...»

    Con il collo girato dall’altra parte, Matteo ripensò a quella volta che aveva rotto il Pierrot di ceramica che stava nel corridoio e le cinque dita di sua madre gli erano rimaste per due settimane.

    Questa volta, però, più della faccia, a bruciare era l’orgoglio. E maledettamente anche. Così come era entrato, se ne andò dalla cucina. Senza dire una parola. Si chiuse in camera e si mise a guardare dietro i vetri i bambini giocare.

    Ormai aveva giurato, nessuna lacrima.

    Quando si svegliò era quasi buio. Doveva aver dormito quasi tutto il giorno. E anche alla peggior specie di detrattori dell’orgoglio materno, prima o poi, veniva fame.

    Ma concedere ulteriori soddisfazioni ai propri aguzzini sarebbe stata una debolezza troppo grande. Sarebbe uscito a cercare qualcosa da mangiare solo se fosse stato sicuro di non incrociare sguardi che sapessero di condanna o, peggio, di derisione. Girò la chiave con il massimo della cautela. La maniglia cigolò ma nessuno sembrava averci fatto caso. Accertatosi che il corridoio fosse sgombro, si avvicinò alla stanza del fratello. La canzone che si sentiva dall’altra parte della porta era sempre la stessa. Gianluca l’aveva registrata alla radio mentre trasmettevano Sanremo e, anche se era arrivata ultima, ormai suo fratello si era fissato. Appena finiva, stoppava, tornava indietro e la rimetteva da capo.

    Lui, invece, proprio non la sopportava. Non la capiva, non gli piaceva. Vado al massimo... Vado a gonfie vele... Ma cos’era? E poi, il modo in cui cantava da ubriaco.

    No. A lui, Vasco Rossi, faceva cagare.

    A passo lento cercò di superare il salotto e lì, l’orgoglio fece capire allo stomaco chi era dei due a comandare. Sua madre stava in cucina e dal monologo che gli pareva di sentire doveva essere al telefono con qualcuno. Doveva aver chiamato la sorella, per dirle che razza di figlio incapace le era capitato. Lo faceva

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