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I magnifici 7 capolavori della letteratura irlandese
I magnifici 7 capolavori della letteratura irlandese
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E-book2.378 pagine37 ore

I magnifici 7 capolavori della letteratura irlandese

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Info su questo ebook

SWIFT, I viaggi di Gulliver
STERNE, Viaggio sentimentale
LE FANU, Carmilla
STOKER, Dracula
WILDE, Il ritratto di Dorian Gray
YEATS, Fiabe irlandesi
JOYCE, Gente di Dublino

Edizioni integrali

La verde e tormentata terra d’Irlanda è la patria di alcuni tra gli scrittori più importanti di tutta la letteratura. Come Jonathan Swift che, attraverso la favolosa descrizione delle immaginarie popolazioni di Lilliput, Brobdingnag, Laputa e Huyhnhnmlandia, nei favolosi Viaggi di Gulliver ritrae con ironia sferzante le assurdità e i difetti dell’Europa settecentesca. Di Sterne si dice addirittura che abbia scardinato le regole valide fino ad allora per la costruzione del romanzo; nel suo Viaggio sentimentale, Yorick, pseudonimo di Sterne, più che paesaggi e popolazioni, descrive le sensazioni che gli nascono via via nell’animo. Con Le Fanu entriamo in quel filone ottocentesco europeo che si concentrò sugli aspetti più oscuri e inquietanti dell’esperienza umana e che produsse capolavori del terrore come Carmilla, storia di vampiri al femminile, o come il celebre Dracula di Stoker, le cui versioni cinematografiche e le innumerevoli imitazioni letterarie sembrano non avere fine. Oscar Wilde, il geniale e sfortunato poeta, ci racconta di un altro mostro, Dorian Gray, dalla interminabile e sospetta giovinezza, nella sua opera forse più fortunata e riuscita. Il mondo di Yeats invece non ha niente di oscuro o pauroso, se escludiamo le sirene e i fantasmi che popolano le fiabe della sua terra. Ci parla di elfi, di gnomi, di foreste e spiagge incantate, di filastrocche e ballate, realizzando una splendida panoramica del folclore irlandese. Ultimo ma ovviamente non ultimo, autore di un capolavoro ancora oggi unico nel suo genere come l’Ulisse, James Joyce è forse lo scrittore che più d’ogni altro ha contribuito alla nascita della letteratura moderna. Spogliando il racconto breve degli ultimi orpelli romantici grazie al suo realismo minuzioso ed essenziale, Joyce, con le quindici storie che compongono Gente di Dublino, gli conferì statura artistica e ne fece il genere letterario più moderno.

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854152304
I magnifici 7 capolavori della letteratura irlandese
Autore

Laurence Sterne

Irish-born Laurence Sterne was an eighteenth century English author and Anglican clergyman. Though he is perhaps best known as a novelist, Sterne also wrote memoirs, articles on local politics, and a large number of sermons for which he was quite well known during his lifetime. Sterne’s works include The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman, A Sentimental Journey through France and Italy, and the satire A Political Romance (also known as The History of a Good Warm Watch-Coat). Sterne died in 1768 at the age of 54.

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    Anteprima del libro

    I magnifici 7 capolavori della letteratura irlandese - Laurence Sterne

    423

    Prima edizione ebook: maggio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5230-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    I magnifici 7 capolavori

    della letteratura irlandese

    Swift, I viaggi di Gulliver

    Sterne, Viaggio sentimentale

    Le Fanu, Carmilla

    Stoker, Dracula

    Wilde, Il ritratto di Dorian Gray

    Yeats, Fiabe irlandesi

    Joyce, Gente di Dublino

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Avvertenza

    Le opere sono presentate in ordine cronologico in base alle date di nascita degli autori.

    Jonathan Swift

    I viaggi di Gulliver

    Introduzione di Fabio Giovannini

    Titolo originale: Gulliver’s Travels. Traduzione di Ugo Dèttore.

    Introduzione

    Perché fa ancora piacere rileggere I viaggi di Gulliver, a due secoli di distanza dalla sua pubblicazione? Perché non ci annoiano, nonostante le novità sofisticate raggiunte dall’intrattenimento di questi nostri anni, i naufragi di un immaginario capitano in paesi pieni di insidie e pericoli? Perché appassiona ancora sia i ragazzi che gli adulti questo libro scritto da un prete anglicano per incuriosire il lettore inglese del lontano Settecento?

    Il segreto, forse, sta nell’abilità di un autore che voleva soprattutto proporre un testo di satira, ma inserendolo in vicende emozionanti ed esplicitamente fantastiche. Il perfetto equilibrio tra l’intento polemico e la trama avvincente ha permesso a I viaggi di Gulliver di mantenere la sua leggibilità fino ad oggi. Certo, le avventure mirabolanti e divertenti del capitano Lemuel Gulliver sono state il pretesto per mettere in ombra, con il passare dei decenni e dei secoli, proprio gli intenti satirici e polemici dell’autore. Jonathan Swift, così, è stato ritenuto soltanto uno scrittore per l’infanzia, oscurandone la carica sovversiva e destabilizzante, che già ai suoi tempi aveva fatto scandalo. Ma oggi è possibile riavvicinarsi a Swift e ai suoi Viaggi di Gulliver valorizzandone tutti gli aspetti, tutta la complessità.

    Quattro paesi soprattutto, tra i tanti esplorati da Gulliver, restano impressi profondamente nella memoria: Lilliput, popolato di nani, dalle piccole vite piene di piccolezze; Brobdingnag, popolato di giganti che si credono superiori solo in ragione delle loro dimensioni; Laputa, l’isola volante abitata da filosofi e scienziati le cui teorie assurde volano nelle nuvole come l’isola che li ospita; Huyhnhnmlandia, dal nome simile a un nitrito, dove i cavalli comandano e gli umani obbediscono. E a questi potremmo aggiungere Glubbdubdrib, dove i maghi materializzano il passato per mostrare a Gulliver il vero volto della storia umana.

    Swift crea dei veri e propri universi alternativi al nostro. Ma c’è un metodo ben preciso in tutte le sue descrizioni di territori e isole fantastiche: l’operazione era quella di ribaltare o estremizzare il mondo in cui vivevano gli europei della sua epoca. In questo modo trasforma i viaggi incredibili di Gulliver in una critica spietata del sistema di vita dell’Inghilterra del Settecento, con una capacità satirica che rimarrà molto «inglese» anche negli anni a venire.

    Preoccupato da una società in rapida mutazione, fondata sempre più sul commercio, sulla finanza e sulla priorità del mercato, Swift dirige la sua critica contro le guerre, contro le inconcludenze dei parlamenti, contro i fanatismi delle religioni (anche della religione che lo scrittore professava e officiava). Swift sceglie lo sguardo esterno dell’intellettuale, che può beffarsi anche del sacro e dell’opposto trionfo della ragione: l’Illuminismo stava per affermarsi, e Swift aveva bisogno di demolire tutte le costruzioni troppo «preveggenti» della ragione, anche le utopie costruite a tavolino dalla mente degli uomini. I suoi universi visionari sono uno specchio deformante che riflette il nostro mondo, e quindi più simili alle cosiddette distopie o antiutopie che alle vere e proprie utopie.

    Certo, i territori in cui viaggia Gulliver sono letteralmente delle utopie, cioè sono società che non esistono, che non sono in nessun luogo (la parola utopia, va ricordato, significa proprio questo). Ma non c’è nessun progetto nella satira di Swift. Le società utopiche da lui descritte sono volutamente impossibili da realizzare, si basano su deformazioni esagerate della realtà e non su indicazioni di possibili organizzazioni sociali. Tra tutti i mondi visitati da Gulliver; quello dei cavalli filosofi di Huyhnhnmlandia sembra il più giusto, quello a cui vanno le simpatie dell’autore. Ma si fonda sulla schiavitù degli esseri umani da parte degli equini, per quanto «saggi» essi si dimostrino, e quindi riproduce le dinamiche di sopraffazione e violenza che proprio Swift ripetutamente contesta.

    Il Gulliver che, tornato in patria, ha nostalgia dei cavalli sapienti sembrerebbe lanciare un segnale contraddittorio: vede la possibilità di una società migliore in quanto saggia, ma è una società equina e non umana, quindi riemerge un approccio pessimista che apparentemente non crede nell’uomo e nella sua possibilità di riscatto. Eppure smentiscono questo radicale pessimismo di Swift sia la sua critica delle società e delle mentalità di allora, sia l’impegno che ebbe nelle vicende politiche del suo tempo, senza rimanere rinchiuso nella torre d’avorio dell’intellettuale scettico.

    La vita di Swift del resto potrebbe spiegare quell’apparente pessimismo disperato che emerge nei Viaggi di Gulliver. Era nato a Dublino, ma venne allevato da uno zio che gli fece passare una giovinezza spesso oscurata dall’umiliazione e dalla povertà. Poi lasciò l’Irlanda per diventare segretario tuttofare di William Temple, famoso uomo di corte, in una condizione di subalternità che lo feriva. Emancipatosi da Temple, lo scrittore irlandese fece delle serie «scelte di campo», schierandosi con il partito dei whigs, tuttavia quando questi si dimostrarono guerrafondai passò a scrivere per l’Examiner, il giornale dei rivali tories. Ma era inviso alla regina, e appena i tories furono in declino preferì ritirarsi in Irlanda, per diventare decano della chiesa dublinese di St. Patrick. La sua vita amorosa, poi, è stata segnata dalla passione per due giovanissime, entrambe di nome Esther; entrambe destinate al dolore e alla morte. Infine, ebbe una vecchiaia funestata dalla perdita della ragione. Lui che aveva sognato paesi irreali, che con il pensiero aveva creato popolazioni fantastiche e favolose, finì la sua vita tormentato dalla demenza. Lui, che denunciò l’irragionevolezza dell’epoca della ragione, con una lungimiranza ridiventata totalmente attuale oggi, in questa fine di millennio segnata dalla «crisi» della ragione stessa.

    Jonathan Swift non era uno scrittore rassicurante o tranquillizzante. Anzi, utilizzava spesso delle formule che diventeranno tipiche della narrativa più inquietante negli anni a venire. Il suo paese di giganti, ad esempio, è pauroso: non a caso il romanzo capostipite della letteratura gotica, Il castello d’Otranto, si basava proprio su uno spettro gigante, di cui incuteva terrore l’enorme elmo. E macabro è il paese degli immortali, anch’esso anticipatore di tanti racconti del terrore.

    Ricorrente è poi il rapporto tra umano e bestiale, che ritroveremo nelle storie spaventose di tanti scrittori ottocenteschi, fino all’Isola del dottor Moreau di Herbert George Wells. Chi sono gli animali e chi sono gli umani? È la prima domanda che ci si pone di fronte al mondo alla rovescia di Huyhnhnmlandia dove i cavalli comandano e gli uomini obbediscono: è esattamente analogo a quel pianeta bizzarro in cui le scimmie sono al potere e gli umani sono ridotti in schiavitù, narrato da Pierre Boulle e portato sullo schermo da una fortunata serie di pellicole iniziata nel 1968 con Il pianeta delle scimmie. Del resto i paesi immaginari visitati da Gulliver sono mondi alieni come quelli della fantascienza che verrà un paio di secoli dopo Swift, descritti in tutto il loro funzionamento sociale, al modo della saga di Dune di Frank Herbert.

    E questa capacità anticipatrice dei Viaggi di Gulliver è segnalata anche da uno studioso di fantascienza come Darko Suvin, che avvicina tra l’altro il nome di Jonathan Swift a quello di Franz Kafka. Descrivendo la narrativa dei fratelli Arkadi e Boris Strugatski (gli autori di Stalker, il romanzo che ispirò un celebre film di Andrei Tarkovski), ecco cosa conclude Darko Suvin: «I predatori bestiali in cui si tramutano esseri umani senza etica cognitiva, gli strani paesi e i mostri che diventano sempre più orribili mentre gli autori e i lettori scoprono che de nobis fabula narratur (la favola parla di noi): tutti questi aspetti dimostrano che la loro vera fonte è nel più grande paradigma della fantascienza, I viaggi di Gulliver»¹ .

    Ma sarebbe riduttivo fermarsi alla constatazione di uno Swift precursore della fantascienza. La sua grandezza va oltre.

    Swift ha operato, ad esempio, una particolare elaborazione sul linguaggio. Innanzitutto dobbiamo a lui una parola ormai entrata nell’uso comune, sia nella nostra lingua sia in altre lingue europee: lillipuziano. Poi ha inventato strani e suggestivi termini come splacknuck, l’insetto secondo la lingua dei giganti di Brobdingnag che guardano con sospetto il piccolissimo Gulliver. Ma non dimentichiamoci dell’Accademia di Lagado che apprende il capitano Gulliver – ha addirittura il progetto di abolire del tutto le parole.

    Swift non rifugge dalle descrizioni di scene ripugnanti, oltre che da un gusto per le cose «sporche» (feci, urine, cattivi odori...). E del resto la sua abilità di «racconta-storie» lo porta a lavorare (come tanti scrittori a noi contemporanei) sul tema del corpo. Le sue invenzioni fantastiche ci narrano di corpi dalle misure spropositate o viceversa ridotte, impressionandoci con gli orrori del gigantismo e del suo contrario, il rimpicciolimento.

    I corpi giganti descritti da Swift fanno orrore, come fa orrore la diversità. In fondo, ci parla di mondi che guardano i mondi diversi da sé con sufficienza o con aperta ostilità. E i bambini hanno sempre apprezzato I viaggi di Gulliver perché li rappresenta in quanto diversi, come faceva Lewis Carroll con la sua Alice nel paese delle meraviglie: sproporzionati rispetto agli adulti, immersi in un mondo che non è a misura di bambino, giudicati e valutati come Gulliver è giudicato e valutato dai giganti.

    FABIO GIOVANNINI

    ¹ Darko Suvin, Positions and Presuppositions in Science Fiction, Ohio, The Kent State University Press, 1988, p. 163.

    L’editore al lettore

    L’autore di questi viaggi, il signor Lemuel Gulliver, è mio vecchio e intimo amico; vi è anche fra noi qualche legame di parentela da parte di madre. Circa tre anni fa, il signor Gulliver, stanco del continuo viavai di curiosi che venivano a importunarlo nella sua casa di redriff, acquistò un piccolo terreno e una comoda casetta vicino a newark, nel nottinghamshire, sua regione natale; e là vive molto appartato, ma tuttavia stimato dai suoi vicini. Sebbene il signor Gulliver sia nato nel nottinghamshire, dove abitava suo padre, lo ho tuttavia udito dire che la sua famiglia è oriunda dell’Oxfordshire; e, a conferma di ciò, ho notato nel cimitero di banbury, in quella contea, varie tombe e monumenti dei Gulliver. Prima di lasciar redriff, egli rimise nelle mie mani i fogli che seguono, con la libertà di farne l’uso che credessi più opportuno. Per ben tre volte li ho esaminati con la massima cura: lo stile è semplice e chiaro, e l’unica pecca che vi ho trovato è che l’autore, come sogliono i viaggiatori, concede un po’ troppo ai particolari. Dall’insieme spira un’aria di schietta verità, e invero l’autore era così noto per il suo candore che, tra i suoi vicini di redriff, era divenuto quasi un proverbio, per dar forza a qualche affermazione, l’aggiungere che «era vera come se l’avesse detta il signor Gulliver». Ligio ai consigli di parecchie degne persone, a cui, col permesso dell’autore, ho mostrato queste carte, mi arrischio ora a mandarle per il mondo sperando che, se non altro, esse possano almeno offrire, per qualche tempo, ai giovani della nostra nobiltà, un passatempo un po’ migliore dei soliti scarabocchi di politica e di partito. Questo volume sarebbe risultato per lo meno due volte più lungo se non avessi tagliato arditamente innumerevoli passaggi relativi ai venti e alle maree, ai mutamenti di rotta e di orientamento nelle varie traversate, nonché le minuziose descrizioni della condotta della nave nelle tempeste, tutte in gergo marinaro. Ho eliminato del pari le annotazioni delle latitudini e delle longitudini, cosa di cui ho qualche ragione per temere che il signor Gulliver non sia molto soddisfatto: ma ero deciso ad adeguare l’opera, per quanto possibile, alla normale capacità dei lettori. Comunque, se la mia ignoranza in questioni marinare mi ha fatto cadere in qualche errore, io solo ne sono responsabile; e, se qualche viaggiatore ha la curiosità di esaminare l’opera per intero, quale è uscita dalle mani dell’autore, sarò lieto di favorirlo. Quanto agli ulteriori particolari relativi all’autore, il lettore ne sarà soddisfatto nelle prime pagine del presente volume.

    RICCARDO SYMPSON

    Lettera del capitano Gulliver a suo cugino Sympson

    Scritta nell’anno 1727

    2 aprile 1727

    Spero che siate pronto a riconoscere pubblicamente, ogni qual volta ne siate richiesto, di avermi spinto, con le vostre continue e ostinate insistenze, a lasciar pubblicare un resoconto dei miei viaggi, tirato giù alla buona e assai scorretto, con l’intesa che si ingaggiasse qualche giovin signore di una delle due università per metterlo in sesto e correggerne lo stile, come fece per mio consiglio mio cugino Dampier nel suo libro intitolato Viaggio intomo al mondo. Ma non ricordo di avervi dato facoltà di consentire che qualche cosa ne fosse tolta e, tanto meno, che qualche cosa vi fosse inserita: di conseguenza, per quel che riguarda questo secondo punto, io respingo qui ogni aggiunta del genere, e, in particolare, un paragrafo relativo a Sua Maestà la defunta regina Anna di pia e gloriosa memoria, sebbene io l’abbia venerata e stimata più di ogni altro essere umano. Ma voi, o il vostro interpolatore, avreste dovuto considerare che era egualmente lungi dalle mie intenzioni e dalla decenza tesser l’elogio di un qualunque animale della nostra fattura davanti al mio padrone Huyhnhnm; senza contare che l’episodio era del tutto falso perché, per quanto sappia, avendo dimorato in Inghilterra durante una parte del regno di Sua Maestà, essa governò per mezzo di un primo ministro, anzi di due, che si succedettero, il primo dei quali fu il Lord di Godolphin e il secondo il Lord di Oxford; cosicché mi avete fatto dire la cosa che non era. Parimenti, nel mio resoconto sull’accademia dei progettisti e in vari passi del mio discorso al mio padrone Huyhnhnm, voi avete tralasciato alcune circostanze di fatto o le avete confuse o mutate in modo che io stesso stento a riconoscere la mia opera. Quando io, tempo addietro, vi accennai a qualche cosa di ciò in una mia lettera, vi contentaste di rispondermi che avevate paura di recare offesa, che i potenti vigilano attentamente la stampa sempre pronti non solo ad afferrare, ma anche a punire tutto ciò che somiglia a un innuendo (mi sembra che lo chiamiate così). Ma, di grazia, quello che io ho detto tanti anni fa, a circa cinquemila leghe di distanza, in una nazione straniera, come si potrebbe applicare a qualcuno di quegli Yahu che, a quanto si dice, governano attualmente le masse: specialmente in un tempo in cui pensavo assai poco alla sventura di vivere sotto di loro, e poco la temevo? Non ho forse tutte le ragioni di lamentarmi quando vedo questi veri e propri Yahu andare in carrozza trainati da Huyhnhnm, come se questi fossero bruti e quelli creature ragionevoli? Davvero, una delle principali ragioni che mi hanno indotto a isolarmi in questo ritiro è stato il desiderio di sottrarmi a una vista così mostruosa e vituperevole.

    Questo ho creduto necessario dirvi per quel che riguarda voi e la fiducia che in voi avevo riposto.

    In secondo luogo devo deplorare l’enorme sciocchezza da me stesso compiuta nel lasciarmi indurre, dalle insistenze e dai falsi ragionamenti vostri e di qualche altro, del tutto contrari alla mia opinione, a permettere che i miei viaggi fossero pubblicati. Vi prego di portarvi a mente quante volte vi ho invitato a considerare, quando voi insistevate sul motivo del pubblico bene, che gli Yahu sono una specie di animali assolutamente incapaci di emendarsi mediante precetti ed esempi; e così è stato confermato; perché, invece di veder porre un punto fermo a tutti gli abusi e a tutte le corruzioni, almeno su questo nostro isolotto, come a buona ragione mi aspettavo, ecco che, dopo circa sei mesi di ammaestramento, non posso constatare che il mio libro abbia prodotto un solo effetto consono alle mie intenzioni. Avrei voluto che mi faceste sapere, per lettera, quando fossero stati aboliti i partiti e le fazioni; quando i giudici fossero divenuti dotti e integri; gli avvocati onesti e modesti, con qualche leggera sfumatura di senso comune, e quando fossero stati fatti nel prato di Smithfield tanti bei falò di piramidi di libri legali; quando mutata da capo a fondo l’educazione della giovane nobiltà; messi al bando i medici; le femmine degli Yahu divenute ricche di virtù, onore, sincerità e buonsenso; estirpati e spazzati via le corti e i ricevimenti mattutini dei ministri; riconosciuti lo spirito, il merito e la dottrina; e infine tutti coloro che disonorano la stampa in versi e in prosa condannati a non mangiare altro che la loro cartaccia e a saziar con il loro inchiostro la loro sete.

    Su queste e su mille altre riforme io fermamente contavo fondandomi sul vostro incoraggiamento; e davvero si potevano facilmente dedurre dai precetti profusi nel mio libro. E bisogna riconoscere che alcuni mesi sarebbero stati più che sufficienti per correggere ogni vizio e follia a cui gli Yahu sono soggetti, se queste nature fossero state capaci della minima disposizione alla virtù o alla saggezza. E tuttavia, siete stato così lontano dal rispondere alla mia aspettativa in qualche lettera, che, al contrario, caricate ogni settimana il nostro corriere di libelli, e interpretazioni, e riflessioni, e memorie e continuazioni nelle quali mi vedo accusato di censurare grandi uomini di Stato, di avvilire l’umana natura (perché hanno ancora l’impudenza di chiamarla così), di insultare il gentil sesso. Trovo anche che gli scrittori di questi centoni non vanno nemmeno d’accordo fra loro; perché alcuni non mi concedono di esser l’autore dei miei viaggi, altri mi fanno autore di libri con cui non ho nulla a che fare.

    Egualmente vedo che il vostro stampatore è stato così trascurato da confondere i tempi e sbagliar le date dei miei vari viaggi e ritorni, non assegnando loro né l’anno giusto né il giusto mese né il giorno del mese: e son venuto a sapere che il mio manoscritto originale è andato totalmente distrutto dal giorno della pubblicazione del mio libro. A me non ne è restata copia; comunque vi ho mandato alcune correzioni che voi potrete inserire se mai vi sarà una seconda edizione. Tuttavia non posso limitarmi ad esse, ma lascerò la cosa ai miei giudiziosi e candidi lettori perché l’aggiustino come meglio credono.

    Sento che alcuni dei nostri Yahu di mare trovano errori nel mio linguaggio marinaro giudicandolo improprio in molte parti e non più in uso. Non posso evitarlo. Nei miei primi viaggi, quand’ero giovane, fui istruito dai marinai più vecchi e imparai a parlare come loro. Ma in seguito mi sono accorto che gli Yahu di mare, come quelli di terra, tendono a introdurre innovazioni nel loro modo di esprimersi, le quali cambiano di anno in anno in tal modo che, a ogni ritorno nel mio paese, ricordo che trovavo così alterato il vecchio dialetto da potere a stento capire il nuovo. E ho osservato che, quando qualche Yahu viene per curiosità da Londra a visitarmi in casa mia, nessuno di noi due riesce a esprimere i propri concetti in modo intelligibile all’altro.

    Se le censure degli Yahu potessero in alcun modo toccarmi, avrei serio motivo di lagnarmi che taluni di loro siano così impudenti da ritenere il mio libro di viaggi una pura invenzione, parto del mio cervello; e sono arrivati al punto di insinuare che gli Huyhnhnm e gli Yahu non esistono più degli abitanti di Utopia.

    Invero devo confessare che, quanto agli abitanti di Lilliput, Brobdingrag (perché così avrebbe dovuto essere scritta la parola e non, erroneamente, Brobdingnag), e Laputa, non ho ancora udito di alcuno Yahu tanto presuntuoso da mettere in dubbio la loro esistenza o i fatti che ho riferito a loro riguardo; ché la verità balza immediatamente agli occhi e convince ogni lettore. E c’è forse minor verosimiglianza nella mia relazione sugli Huyhnhnm o sugli Yahu, mentre, quanto a questi ultimi, è evidente che ve ne sono molte migliaia anche in questa città, diversi dai loro fratelli bruti di Huyhnhnmlandia solo perché usano una specie di borbottio e non vanno in giro nudi? Io ho scritto per il loro emendamento e non per la loro approvazione; le lodi unanimi dell’intera razza avrebbero per me assai minor peso del nitrito di quei due Huyhnhnm degenerati che ho nella stalla; perché da loro, degenerati come sono, posso trarre esempi per migliorarmi in qualche virtù, senza macchiarmi di alcun vizio.

    Presumono forse, questi miserabili animali, che io sia così degenerato da difendere la mia serenità? Yahu come sono, è tuttavia ben risaputo per tutta Huyhnhnmlandia che, grazie agli ammaestramenti e all’esempio del mio illustre padrone, sono riuscito, nel giro di due anni (sebbene, lo confesso, con la massima difficoltà), a sveller da me l’infernale abitudine di mentire, truffare, ingannare e fare equivoci, così profondamente radicata nell’anima di tutta la mia specie e, in particolare, degli Europei.

    Avrei altri motivi per lamentarmi in questa spiacevole occasione; ma non voglio annoiare oltre me e voi. Devo sinceramente confessare che, dopo il mio ultimo ritorno, alcune tendenze corrotte della mia natura di Yahu sono riaffiorate in me, conversando con alcuni della vostra specie e, in particolare, della mia famiglia, per inevitabile necessità: altrimenti non avrei mai concepito un progetto assurdo come quello di riformare la razza Yahu in questo reame. Ma mi sono ormai sbarazzato per sempre di tali propositi da visionario.

    Parte prima. Viaggio a Lilliput

    Capitolo primo

    L’Autore dà alcune notizie su di sé e la sua famiglia – Primi motivi che lo indussero a viaggiare – Fa naufragio e si salva a nuoto – Giunge a salvamento sulla spiaggia di Lilliput – È fatto prigioniero e portato nell’interno della regione.

    Mio padre aveva una piccola proprietà nel Nottinghamshire; io ero il terzo dei suoi cinque figli. Mi mandò, quattordicenne, al Collegio Emanuel, di Cambridge, e là io rimasi tre anni applicandomi assiduamente agli studi. Ma le spese del mio mantenimento (sebbene godessi di un trattamento ben magro) eran troppo gravose per la sua modesta fortuna; ed io fui costretto a fare il mio noviziato dal signor James Bates, eminente chirurgo di Londra, col quale rimasi quattro anni. Di tanto in tanto, mio padre mi inviava qualche sommetta, ed io me ne servivo per studiare navigazione e le altre scienze matematiche necessarie a chi vuol mettersi in mare; pensando che, prima o poi, sarebbe stato quello il mio destino. Lasciato il signor Bates, tornai da mio padre; e lì, con l’aiuto suo, di mio zio John e di qualche altro parente, misi insieme quaranta sterline con la promessa di altre trenta sterline l’anno per poter vivere a Leida. In questa città studiai medicina due anni e sette mesi, persuaso che quell’arte mi sarebbe stata utile nei lunghi viaggi.

    Subito dopo il mio ritorno da Leida, per raccomandazione del mio buon maestro il signor Bates, fui assunto come chirurgo sulla Rondine, comandata dal capitano Abraham Pannel; con lui rimasi tre anni e mezzo, e andai una o due volte nel Levante e in vari altri luoghi. Tornato in patria, decisi di stabilirmi a Londra; il signor Bates, mio maestro, mi incoraggiò a prender questo partito e mi raccomandò ad alcuni dei suoi malati. Presi in affitto un appartamentino nel quartiere di Old Jewry e, poiché mi consigliavano di mutar stato, sposai la signorina Mary Burton, seconda figlia del signor Edmund Burton, calzettaio di Newgate Street, la quale mi portò in dote quattrocento sterline.

    Ma il mio buon maestro Bates morì due anni dopo; io avevo pochi amici e i miei affari cominciarono ad andar male: la coscienza mi impediva di imitare gli indegni sistemi di troppi miei confratelli. Risolsi così, dopo essermi consultato con mia moglie e con qualche amico, di rimettermi in mare. Fui successivamente chirurgo su due vascelli e, per sei anni, feci molti viaggi nelle Indie orientali e occidentali aumentando un po’ il mio peculio. Trascorrevo le mie ore d’ozio leggendo i migliori autori antichi e moderni, poiché portavo sempre con me un buon numero di volumi; e, quando scendevo a terra, non trascuravo di osservare i costumi e le tendenze dei vari popoli, e di studiarne la lingua, cosa che facevo senza difficoltà grazie alla mia memoria eccellente.

    L’ultimo di questi viaggi non fu molto fortunato; io mi stancai del mare e decisi di restare a casa con mia moglie e la mia famiglia. Lasciai Old Jewry per Fetter Lane e di qui andai più tardi a Wapping nella speranza di farmi una clientela tra i marinai; ma non mi andò bene. Dopo avere aspettato per tre anni che le cose prendessero una miglior piega, accettai una vantaggiosa offerta del capitano William Pritchard, comandante dell’Antilope, che stava per salpare per i Mari del Sud. Facemmo vela da Bristol il 4 maggio 1699, e il viaggio fu dapprima assai felice.

    Sarebbe davvero inutile annoiare il lettore con i particolari delle nostre avventure in questi mari: basterà informarlo che, passando nelle Indie orientali, fummo spinti da una violenta tempesta a nord-ovest della Terra di Van Diemen¹: ci trovavamo allora a trenta gradi e due minuti di latitudine sud. Dodici dei nostri uomini erano morti per eccesso di fatica e cattivo nutrimento, gli altri erano assolutamente esausti. Il 5 novembre, inizio dell’estate in quei paesi, il cielo era così fosco di nebbie che i marinai scorsero una roccia solo quando non distava da noi più di una mezza gomena, e così impetuoso era il vento che vi fummo spinti direttamente contro e subito la nave andò in pezzi. Sei dell’equipaggio, fra i quali mi trovavo, riusciti a mettere in mare una scialuppa, trovarono il modo di sbarazzarsi della nave e dello scoglio. Remammo, a occhio e croce, per circa tre leghe finché, già stremati dalla fatica fin da quando eravamo sul vascello, non potemmo continuare oltre. Ci abbandonammo dunque alla mercé delle onde, e, circa una mezz’ora dopo, la scialuppa fu rovesciata da un improvviso colpo di vento proveniente dal nord.

    Non posso dire quel che avvenne dei miei compagni di scialuppa e nemmeno di quelli che si salvarono sullo scoglio o che rimasero nella nave; ma penso che siano tutti periti. Per conto mio, nuotai a caso e fui spinto verso terra dal vento e dalla marea. Spesso lasciavo cader le gambe senza però toccar fondo: ma, quando già mi sentivo perduto e incapace di lottare ancora, mi accorsi di toccare; frattanto la tempesta si era molto placata. La pendenza del fondo era così leggera che camminai circa un miglio prima di raggiunger la spiaggia; pensai che dovevano essere circa le otto di sera. Mi inoltrai allora per circa un mezzo miglio, ma non scorsi traccia di abitazioni né di abitanti; per lo meno ero così estenuato che non me ne accorsi. Stanco morto com’ero, e per di più in una giornata calda e con in corpo circa mezza pinta di acquavite che avevo bevuto nell’abbandonare la nave, sentii una gran voglia di dormire. Mi sdraiai sull’erba, finissima e soffice, e caddi nel più profondo sonno che mi ricordassi di aver mai gustato in vita mia; a conti fatti dovette durare un nove ore perché, quando mi svegliai, era giorno.

    Cercai di alzarmi, ma non riuscii a far gesto; mi ero coricato sul dorso, e mi accorsi di aver le braccia e le gambe solidamente legate a terra dai due lati; anche i capelli, che avevo lunghi e folti, erano assicurati al suolo in egual modo. Sentii anche vari sottili legami che mi passavano sopra il corpo, dalle ascelle alle cosce. Potevo solo guardare in alto, ma il sole cominciava a farsi caldo e mi offendeva gli occhi col suo splendore; udivo intorno a me un confuso vocio, ma, nella posizione in cui giacevo, non potevo vedere che il cielo. Poco dopo, sentii qualche cosa di vivo che si muoveva sulla mia gamba sinistra e, camminandomi piano sul petto, mi arrivava quasi al mento; allora, volgendo gli occhi in giù più che potevo, scorsi una creatura umana, alta nemmeno sei pollici, con in mano un arco e una freccia, e una faretra sulle spalle. Nello stesso tempo sentii che almeno una quarantina della stessa specie (a quanto supponevo) seguivano il primo. Stordito dallo stupore, gettai un tal grido che tutti se la diedero a gambe atterriti e alcuni di loro, come mi fu detto più tardi, si accopparon mezzi nel balzare precipitosamente a terra giù dal mio corpo. Comunque tornaron presto, e uno di loro, che aveva osato farsi tanto avanti da poter dare un’occhiata d’insieme al mio volto, alzò al cielo le mani e gli occhi in segno di ammirazione, e gridò con una vocetta aspra ma chiara:

    «Hekinah degul!».

    Gli altri ripeteron più volte le stesse parole, ma, allora, non potevo capire quel che significassero.

    Per tutto questo tempo, come il lettore può immaginare, io me ne stavo in una posizione molto scomoda; finalmente, nei miei sforzi per liberarmi, riuscii a spezzare le cordicelle e a svellere le caviglie che mi tenevano ancorato a terra il braccio sinistro: avevo infatti potuto vedere, alzandolo fino al volto, che sistema avevan tenuto per legarmi a quel modo; e in egual tempo, con una scossa violenta che mi causò un vivo dolore, allentai un poco gli spaghi che mi tendevano i capelli a sinistra; potei così volgere la testa di un paio di pollici. Ma quegli esserini scapparono ancora via prima che potessi acchiapparli. Vi fu allora un gran baccano di voci stridule e, quando si fu placato, udii uno di loro gridar forte:

    «Tolgo fonac!».

    In un attimo mi sentii scaricare sulla mano sinistra circa un centinaio di frecce, che mi bucarono come tanti aghi; tirarono poi un’altra scarica in aria, come in Europa facciamo con le bombe, e credo che una buona parte me ne ricadesse sul corpo (sebbene non me ne accorgessi), parte, invece, me ne sentii arrivare in faccia, e mi riparai subito con la sinistra. Finita questa grandine di frecce, io diedi un gemito di dolore e di angoscia e cercai ancora di liberarmi, ma quelli scaricarono un’altra salva ancor più grande della prima, e qualcuno cercò di ficcarmi la lancia nei fianchi; per fortuna avevo una casacca di cuoio di bufalo che non potevano forare. Giudicai più prudente starmene tranquillo e rimaner così fino a notte: allora, avendo già libero il braccio sinistro, avrei potuto facilmente liberarmi e, quanto agli abitanti, avevo buone ragioni per credere di poter far fronte alle più grandi armate che mi schierassero contro, se eran tutti delle stesse dimensioni di quelli che avevo visto. Ma la fortuna aveva disposto altrimenti.

    Quando quel popolo si accorse che mi ero calmato, smise di dardeggiarmi; ma, dal rumore che udivo, mi accorsi che la folla aumentava sempre più, e, a circa quattro iarde da me, in direzione del mio orecchio destro, udii per più d’un’ora un martellio come di gente che lavora. Quando volsi la testa, per quanto me lo permettevano gli spaghi e i cavicchi, vidi un palco alto circa un piede e mezzo da terra, capace di contenere quattro di quegli abitanti e fornito di due o tre scale per montarvi: di lì uno di loro, che sembrava essere un alto personaggio, mi rivolse una lunga allocuzione di cui non capii una sillaba. Dimenticavo di dire che quella personalità, prima di iniziare la sua orazione, aveva gridato tre volte: «Langro dehul san!» (queste parole e le precedenti mi furono poi ripetute e spiegate). Subito una cinquantina circa di quei nativi si erano avvicinati e avevan tagliato gli spaghi che mi legavano il lato sinistro della testa, dandomi così la libertà di volgermi verso destra e di osservare l’aspetto e i gesti di quello che doveva parlare. Mi parve di mezza età e un poco più alto degli altri tre che gli facevano scorta, uno dei quali era un paggio alto poco più del mio dito medio, che gli teneva lo strascico, e gli altri due gli stavano a fianco come scorta. Egli sostenne compiutamente la sua parte di oratore, ed io potei notare nel suo discorso vari passaggi densi di minaccia e altri in cui si alternavano la promessa, la pietà e la benevolenza. Risposi in poche parole col tono più umile e sottomesso che potei, alzando la sinistra e gli occhi al cielo come per chiamarlo a testimone; e, quasi sfinito dalla fame non avendo buttato giù un boccone fin da molte ore prima di abbandonar la nave, sentii così urgenti su di me le richieste della natura da non poter fare a meno di mostrare la mia impazienza (forse contro le strette regole della civiltà) portando più volte le dita alla bocca per far capire che avevo bisogno di cibo. Lo Hurgo (così, come appresi più tardi, essi chiamano un gran signore) mi capì benissimo. Scese dal palco e comandò che mi si appoggiassero ai fianchi parecchie scale sulle quali si arrampicarono circa un centinaio di quegli abitanti, i quali si misero poi in cammino verso la mia bocca, carichi di panieri pieni di cibo raccolto e mandato là per ordine del Re, non appena egli aveva avuto notizia del mio arrivo. Notai che vi era carne di vari animali, ma non potei distinguerli al gusto; v’erano spalle, cosce, lombi della forma di quelli di montone e assai ben preparati, ma più piccoli di un’ala di allodola. Li mangiavo a due o tre per boccone con tre pani grandi circa come tre palle di moschetto. Mi servivano più in fretta che potevano con mille gesti di meraviglia e di sbigottimento per la mia mole e il mio appetito.

    Feci allora un altro segno per indicare che avevo sete. Essi arguirono, da quel che avevo mangiato, che non mi sarebbe certo bastata una piccola quantità di bevanda, e, ingegnosi com’erano, tirarono su molto abilmente una delle loro più grosse botti, la fecero rotolare verso la mia mano e la scoperchiarono. Io la vuotai in una sorsata, e potei farlo senza difficoltà perché non conteneva nemmeno mezza pinta; aveva il gusto di un leggero vino di Borgogna, ma molto più delicato. Mi portarono una seconda botte, che bevvi in egual modo facendo segno di darmene ancora; ma non ne avevano più. Compiute che ebbi queste meraviglie, essi gridarono di gioia e mi danzarono sul petto ripetendo parecchie volte, come avevano fatto da principio:

    «Hekinah degul».

    Mi indicarono a segni che potevo gettar giù le due botti, ma prima avvertirono la folla che stava sotto di tirarsi da parte, gridando a gran voce:

    «Borac mivola».

    E, quando videro andare in aria i due recipienti, vi fu un grido universale di «Hekinah degul». Confesso che fui tentato più di una volta, mentre andavano e venivano sul mio corpo, di afferrare quaranta o cinquanta dei primi che mi fossero venuti a portata e scaraventarli a terra. Ma il ricordo di quel che avevo già sofferto, e che probabilmente non era il peggio che potessero farmi, e la parola data, poiché consideravo come tale il mio comportamento sottomesso, dissiparono presto questa fantasia. Inoltre mi sentivo ora legato dalle leggi dell’ospitalità a un popolo che mi aveva trattato con tanta costosa munificenza. Comunque, in cuor mio, non mi saziavo di ammirare l’intrepidità di quei mortali in miniatura che si azzardavano a montare e passeggiare sul mio corpo, sebbene avessi un braccio libero, senza tremare alla vista di una così prodigiosa creatura quale io dovevo apparir loro.

    Dopo un poco, quando si accorsero che non facevo altre richieste di cibo, mi si fece dinanzi un personaggio di alto ceto da parte di Sua Maestà Imperiale. Sua Eccellenza, montata sulla parte inferiore della mia gamba destra, venne avanti, con un seguito di circa dodici persone, fino a raggiungermi il volto, e, mostratemi le sue credenziali col regio sigillo, che mi pose addirittura sotto gli occhi, parlò per circa dieci minuti senza alcun segno di collera, ma con una sorta di altera risolutezza. Ogni tanto accennava dinanzi a sé, nella direzione, come seppi dopo, in cui era situata la capitale, a circa mezzo miglio; Sua Maestà, in concilio, aveva decretato che io fossi trasportato colà. Io risposi poche parole, ma invano, e feci un segno colla mano libera mettendola sull’altra (ma al di sopra della testa di Sua Eccellenza, nel timore di colpire lui o il suo seguito) e portandomela poi sulla testa e sul corpo per fargli intendere che desideravo essere messo in libertà. Parve che mi capisse abbastanza bene, perché scosse la testa in aria di diniego e mi avvertì a gesti che dovevo esser portato via come prigioniero. Comunque continuò a far cenni perché mi rassicurassi che avrei avuto cibi e bevande a sufficienza e un ottimo trattamento. Di nuovo mi prese il desiderio di cercar di rompere i miei legami, ma, sentendomi ancora il bruciore delle loro frecce sulla faccia e sulle mani, tutte coperte di vesciche e recanti ancor conficcati parecchi di quei dardi, e notando in egual tempo che il numero dei miei nemici aumentava sempre più, mostrai di esser rassegnato a lasciarli fare di me quel che volevano. Allora lo Hurgo e il suo seguito si ritirarono in bel modo e molto soddisfatti.

    Subito dopo udii un’acclamazione unanime, in cui tornavano spesso le parole: Peplom selan, e mi sentii sul fianco sinistro una gran quantità di gente che allentava le corde tanto che potei voltarmi a destra e spandere in grande abbondanza le mie acque, con sollievo mio ed enorme sbigottimento di quel popolo che, indovinando dai miei gesti quel che stavo per fare, si aprì immediatamente a destra e a sinistra per evitare il torrente che scaturiva con tanto strepito e violenza dalla mia persona. Già dapprima mi avevano spalmato la faccia e le mani con una specie di unguento di odore assai gradevole, che in pochi minuti guarì le punture delle loro frecce. Questo particolare, unito al ristoro che avevo avuto dal cibo molto nutriente e dalla bevanda fornitimi, mi disposero al sonno, e, come mi fu detto più tardi, dormii circa otto ore. Né c’è da meravigliarsene perché, per ordine dell’Imperatore, i medici avevano messo nel vino una pozione soporifera.

    A quanto pare, appena ero stato scorto addormentato sulla spiaggia dove avevo messo piede, l’Imperatore ne aveva avuto immediato avviso per mezzo di una staffetta, e aveva stabilito in consiglio che venissi legato nel modo che ho riferito (cosa che fu fatta la notte stessa mentre dormivo), che mi fossero inviati cibi e bevande in abbondanza e che si preparasse una macchina per trasportarmi nella capitale.

    Questa decisione apparirà forse ardita e pericolosa, e son certo che nessun principe europeo l’avrebbe seguita in simile occasione; ma, a parer mio, era molto prudente e generosa: perché, se quel popolo avesse tentato di uccidermi nel sonno con le sue lance e le sue frecce, mi sarei senza dubbio svegliato al primo sentirmi punger la pelle e, con le forze raddoppiate dall’ira, sarei stato capace di spezzare le cordicelle che mi legavano; allora, impotenti com’erano a resistermi, non avrebbero potuto aspettarsi mercé.

    Quel popolo eccelle nelle matematiche e ha raggiunto nella meccanica una singolare perfezione con la protezione e l’incoraggiamento dell’Imperatore, celebre patrono del sapere. Questo principe dispone di parecchie macchine su ruote per il trasporto di alberi e di altri grandi pesi. Spesso fa costruire le sue più grandi navi da guerra, alcune delle quali sono lunghe nove piedi, nelle foreste stesse in cui cresce il legname e le fa poi trasportare su questi meccanismi per tre o quattrocento iarde fino al mare. Cinquecento carpentieri e ingegneri furono immediatamente messi all’opera per allestire il più gran congegno che avessero. Era una costruzione di legno alta tre pollici da terra, lunga circa sette piedi e larga quattro, che correva su ventidue ruote. Il rumore che avevo udito proveniva appunto dall’avvicinarsi di questo meccanismo che, a quanto pare, era stato portato a termine in quattro ore dopo il mio arrivo. Fu disposto parallelamente al mio corpo disteso, ma la principale difficoltà consisteva nel sollevarmi e pormi nel veicolo; a questo scopo furono piantati ottanta pali alti ognuno un piede, e solidissime corde della grossezza di spago da imballaggio furono assicurate con ganci alle numerose fasciature che gli operai mi avevano passato attorno al collo, alle braccia, al corpo e alle gambe. Novecento tra gli uomini più forti furono impiegati a tirar queste corde per mezzo di carrucole fissate ai pali, e così in meno di tre ore fui sollevato, scaraventato nella macchina e solidamente assicurato ad essa. Tutto questo mi fu raccontato perché, mentre si compiva l’intera operazione, io dormivo profondamente in virtù di quella medicina soporifera messa nel vino che avevo bevuto. Millecinquecento fra i più grossi cavalli dell’Imperatore, alti ognuno circa quattro pollici e mezzo, mi trainarono verso la metropoli che, come ho detto, distava mezzo miglio.

    Eravamo in cammino da circa quattro ore, quando fui svegliato da un incidente assai ridicolo. Il traino si era fermato un momento per aggiustare qualche cosa che era andata fuori posto, e due o tre giovanotti ebbero la curiosità di vedere che aspetto avessi quando dormivo; si arrampicarono dunque sulla macchina e, mentre sgattaiolavano cautamente verso il mio volto, uno di loro, un ufficiale delle guardie, mi infilò la punta aguzza della sua picca nel profondo della narice sinistra. Nel sentirmi così solleticare il naso come da una festuca, feci un violento starnuto: quelli filaron via zitti zitti, e solo tre settimane dopo conobbi la ragione del mio improvviso risveglio. Continuammo a procedere ininterrottamente per tutto quel giorno e, a notte, ci fermammo con cinquecento guardie a ognuno dei miei fianchi, metà con torce e metà con arco e frecce, pronte a tirarmi addosso se davo segno di inquietudine.

    Il giorno dopo, all’alba, riprendemmo il cammino e, verso mezzogiorno, arrivammo a circa duecento iarde dalle porte della città. L’Imperatore con tutta la sua Corte ci venne incontro, ma i suoi alti ufficiali non vollero in alcun modo consentire che Sua Maestà mettesse in pericolo la sua persona dando la scalata al mio corpo.

    Nel luogo in cui il traino si era fermato v’era un antico tempio, considerato il più grande di tutto il reame, il quale, macchiato alcuni anni prima da uno scellerato omicidio, era stato considerato come profano dallo zelo religioso di quel popolo, spogliato dei suoi ornamenti e dei suoi arredi e destinato poi a usi diversi. Si decise che io dovessi alloggiare in questo edificio. Il grande portale, volto a settentrione, era alto circa quattro piedi e largo almeno due, così che potevo facilmente entrarvi carponi; ai due lati della porta vi erano due finestrelle, alte nemmeno sei pollici da terra. Da quella di sinistra i fabbri reali fecero passare novantun catene, simili a quelle che, in Europa, si usano per gli orologi da signora e quasi della stessa grossezza, e me le legarono alla caviglia sinistra con trentasei lucchetti. Di fronte a questo tempio, sull’altro lato del grande stradale, circa venti piedi più in là, c’era una torretta alta almeno cinque piedi: lì sopra salì l’Imperatore, con molti fra i principali signori della sua Corte, per potermi vedere, come mi fu detto poi, senza esser veduti da me. Si calcolò che circa centomila abitanti erano usciti dalla città per lo stesso scopo; e credo che, a dispetto delle mie guardie, non furono meno di diecimila quelli che, in più riprese, si arrampicarono sul mio corpo con le scale. Ma uscì subito un proclama per impedir questo sotto pena di morte. Quando i fabbri giudicarono impossibile per me spezzar le catene, tagliarono tutte le cordicelle che mi legavano; e allora mi alzai, ma con un senso di profonda tristezza quale non avevo mai provato in vita mia. Non potrei esprimere il clamore e lo sbigottimento del popolo nel vedermi alzare e camminare. Le catene che mi imprigionavano la gamba sinistra eran lunghe circa sei piedi e non solo mi permettevano di camminare su e giù in un semicerchio, ma, fissate com’erano a circa quattro pollici dalla porta, mi permettevano di entrarvi carponi e di stendermi per quant’ero lungo nel tempio.

    Capitolo secondo

    L’Imperatore di Lilliput, con numeroso seguito di gentiluomini, viene a visitare l’Autore nella sua prigione – Descrizione della persona e degli abiti di Sua Maestà – Alcuni dotti sono incaricati di insegnare all’Autore la loro lingua – Egli ottiene il favore generale con la mitezza del suo carattere – Si fa un’ispezione nelle sue tasche e gli son portate via la spada e le pistole.

    Quando mi trovai in piedi mi guardai in giro, e devo confessare di non aver mai contemplato una più gradevole scena. Il paese, tutt’intorno, mi parve un susseguirsi di giardini, e i campi cintati, generalmente di quaranta piedi quadrati, mi sembravano aiuole fiorite. Questi campi si alternavano con boschi di una mezza pertica, i cui più alti alberi, a quel che potevo giudicare, sembravano di sette piedi. Scorsi alla mia sinistra la città, simile a uno scenario di teatro.

    Già da alcune ore ero fieramente incalzato da alcune esigenze naturali: né c’è da meravigliarsene, perché da quasi due giorni non davo loro soddisfazione; e, tra l’impellenza e la vergogna, mi sentivo nel massimo imbarazzo. Il miglior espediente che seppi escogitare fu di strisciar nella mia casa, cosa che feci senz’altro; e, chiusa la porta dietro di me, mi inoltrai per quanto me lo permetteva la lunghezza della mia catena e mi sgravai così di quell’incomodo fardello. Ma fu quella l’unica volta che mi macchiai di un atto così poco irreprensibile, e spero che il candido lettore vorrà tenermene per scusato dopo avere maturamente e imparzialmente considerato il mio caso e la situazione disperata in cui mi trovavo. In seguito fu mia costante abitudine sbrigar questa faccenda all’aria aperta appena alzato, allontanandomi di tutta la lunghezza della mia catena; e ci si prese ogni mattina la dovuta cura di far portar via con una carriola, prima che venissero i visitatori, le materie che avrebbero potuto offenderli: due servi erano adibiti a questo ufficio. Non mi sarei trattenuto a lungo su di un particolare che, a prima vista, potrà apparire di poco momento, se non lo avessi creduto necessario per salvare, di fronte al mondo, la mia reputazione in fatto di pulizia, sulla quale, mi dicono, alcuni maligni si sono compiaciuti di esprimere dubbi in questa e in altre occasioni.

    Terminata quest’avventura, uscii dalla mia casa per respirare una boccata d’aria pura. L’Imperatore era già sceso dalla torre e veniva cavalcando verso di me, cosa che per poco non gli costò cara: perché l’animale, per quanto perfettamente addestrato, alla vista inconsueta di una montagna che gli si muoveva davanti, s’impennò a un tratto; ma quel principe, eccellente cavallerizzo, si tenne in sella finché accorsero gli scudieri a tenergli la briglia dandogli il tempo di smontare. Messo piede a terra, Sua Maestà mi considerò tutt’in giro con grande ammirazione, tenendosi però prudentemente fuori della portata della mia catena; poi ordinò ai suoi cuochi e ai suoi cantinieri, già pronti, di darmi cibi e vini. Subito essi spinsero avanti tutto ciò su certi veicoli a ruote e me li misero vicino. Io presi questi veicoli e non tardai a vuotarli: venti eran pieni di alimenti solidi e dieci di bevande; ognuno dei primi mi forniva due o tre eccellenti bocconi. Versai in uno di quei carri il contenuto di dieci bottigliette di coccio e lo bevvi in un sorso; e così feci col resto.

    L’Imperatore e i giovani principi del sangue, dei due sessi, accompagnati da molte dame, sedevano a qualche distanza nelle loro vetture; ma, dopo l’incidente capitato al cavallo dell’Imperatore, si alzarono e si avviarono verso la sua persona che adesso descriverò. L’Imperatore² supera, di quasi quanto è lunga una mia unghia, ogni altro personaggio della sua Corte, cosa che basta da sola a empir di riverenza chi lo vede. I tratti del suo volto sono virili ed energici: labbro austriaco e naso aquilino; ha olivastro il colorito, il portamento eretto, corpo e membra ben proporzionati, grazia nei movimenti e maestà nel contegno. Aveva allora passato il primo fiorir della giovinezza essendo ormai sui ventott’anni e nove mesi; ne aveva regnati circa sette in gran prosperità, e vincitore in ogni guerra. Per meglio vederlo mi ero coricato su di un fianco in modo da mettere il volto allo stesso livello del suo, ed egli era solo a tre iarde da me: comunque, in seguito, l’ho tenuto più volte tra le mie mani e quindi non posso ingannarmi nella descrizione. Il suo vestito era singolarmente semplice, di una foggia tra asiatica ed europea; in testa portava un elmetto di oro lucente, adorno di gioielli e sormontato da una piuma. Teneva in mano la spada sguainata per difendersi se mai avessi spezzato le catene; la lama era lunga circa tre pollici, l’elsa e la guaina eran d’oro ornate di diamanti. Aveva la voce acuta, ma chiara e distinta, ed io potevo udirlo facilmente anche quando stavo in piedi. Le dame e i cortigiani eran vestiti tutti con il massimo sfarzo così che il luogo in cui eran raccolti sembrava un bel gonnellino steso a terra e ricamato a figure d’oro e d’argento. Sua Maestà Imperiale mi rivolse più volte la parola ed io sempre risposi, ma nessuno di noi poté capire una sillaba; molti sacerdoti e uomini di legge (a quanto supposi dai vestiti) lì presenti furono invitati a parlarmi, ed io parlai loro in tutte le lingue di cui avevo una minima infarinatura, quali l’alto e basso olandese, il latino, il francese, lo spagnolo, l’italiano e la lingua franca; ma invano.

    Circa due ore dopo, la Corte si ritirò ed io fui lasciato sotto buona guardia per prevenire l’indiscrezione e probabilmente la malizia del popolino, smanioso di farmi ressa intorno quanto più vicino potesse e osasse. Alcuni di quella marmaglia, infatti, ebbero l’impudenza di tirarmi addosso le loro frecce mentre me ne stavo seduto a terra davanti alla porta di casa mia, e poco mancò che non mi cavassero l’occhio sinistro. Il colonnello ordinò che sei dei caporioni fossero acciuffati e gli parve che la punizione più adeguata fosse quella di darmeli nelle mani solidamente legati, cosa che subito alcuni soldati misero in esecuzione spingendo verso di me quei disgraziati con la punta delle picche. Io li presi su tutti con la destra, ne ficcai cinque nella tasca della giacca e, quanto al sesto, feci mostra di volermelo mangiar vivo. Quel povero diavolo strillava come un pazzo, e il colonnello e i suoi ufficiali erano in gran pena, specialmente quando mi videro cavar fuori il temperino. Ma presto tolsi loro ogni timore perché, guardandolo bonariamente, mi affrettai a tagliare le cordicelle che lo legavano e lo misi delicatamente a terra lasciandolo scappare via. Usai agli altri eguale trattamento, cavandomeli di tasca uno per uno, e notai che, soldati e popolo, eran stati vivamente colpiti da questo mio atto di clemenza, citato poi a Corte in modo molto favorevole per me.

    Verso notte, entrai con qualche difficoltà nella mia casa dove dormii sulla nuda terra; e così avvenne per un paio di settimane in attesa del letto che l’Imperatore aveva ordinato di prepararmi. Seicento materassi delle loro comuni dimensioni furono portati con carri e messi in opera in casa mia; centocinquanta, cuciti insieme, formarono la larghezza e la lunghezza, e ne furono messi quattro strati, che tuttavia mi proteggevano assai poco dalla durezza di un pavimento di pietra liscia. Nelle stesse proporzioni mi provvidero di lenzuola, coperte e piumini piuttosto passabili per uno che, come me, era stato provato da tante traversie.

    La notizia del mio arrivo si diffuse per tutto il reame e richiamò uno straordinario numero di gente ricca, oziosa e curiosa che veniva a vedermi: i villaggi rimasero spopolati e gravi danni ne sarebbero probabilmente derivati all’agricoltura e all’economia domestica se Sua Maestà Imperiale non avesse provveduto, con vari editti e proclami di Stato, a combattere tale inconveniente. Stabilì che quelli che mi avevan già veduto tornassero alle loro case e non si azzardassero ad avvicinarsi di meno di cinquanta iarde dalla mia dimora senza un permesso di Corte; in conseguenza di ciò, i Segretari di Stato fecero considerevoli guadagni.

    Frattanto l’Imperatore teneva frequenti concili per deliberare che partito si dovesse prendere nei miei riguardi; seppi più tardi da un amico fidato, un personaggio importante considerato addentro nei segreti di Stato più di ogni altro, che la Corte si trovava, per causa mia, nel più grande imbarazzo: si temeva che io riuscissi a liberarmi e che il mio nutrimento non solo divenisse troppo costoso, ma provocasse una carestia. A tratti decidevano di lasciarmi morir di fame o di colpirmi la faccia e le mani con frecce avvelenate che mi avrebbero spacciato in poco tempo; ma poi consideravan che il puzzo di una così immensa carcassa avrebbe potuto causare una pestilenza nella metropoli e probabilmente nell’intero reame. Nel bel mezzo di queste discussioni, vari ufficiali dell’Armata vennero alla porta della sala del Gran Consiglio, e due di loro, fatti entrare, fecero una relazione sulla mia condotta nei riguardi dei sei criminali summenzionati; e questo fece una così favorevole impressione nel cuore di Sua Maestà e dell’intera adunanza, che fu inviata una commissione imperiale per obbligare tutti i villaggi, nel giro di novecento iarde dalla capitale, a consegnare ogni mattino sei buoi, quaranta montoni e altre vettovaglie per il mio nutrimento, unitamente a una congrua quantità di pane, vino e altri liquori. Sua Maestà faceva assegnamento sul suo tesoro privato per il pagamento di tutto ciò. Perché questo principe vive soprattutto del suo patrimonio, ricorrendo assai di rado, e solo in casi gravissimi, al sussidio dei suoi sudditi, i quali son tenuti a sostenerlo in guerra a proprie spese. Fu anche fondato un corpo di domestici addetti alla mia persona con un salario per il loro mantenimento e, ai due lati della mia porta, furono costruite per loro comodissime tende. Parimenti fu dato ordine che trecento sarti mi facessero un abito completo alla moda del paese; che sei tra i più chiari professori di Sua Maestà avessero l’incarico di insegnarmi la lingua del paese e, infine, che i cavalli dell’Imperatore e quelli della nobiltà e delle truppe di guardia fossero frequentemente esercitati dinanzi a me perché si abituassero alla mia vista.

    Tutti questi ordini furono debitamente eseguiti e, in circa tre settimane, feci grandi progressi nella conoscenza della lingua: durante questo tempo l’Imperatore mi onorò spesso delle sue visite e si compiacque di assistere alle lezioni dei miei maestri. Già cominciavamo a far conversazione alla meglio e le prime parole che imparai furono per esprimere il mio desiderio che si degnasse di mettermi in libertà, grazia che imploravo ogni giorno da lui in ginocchio. La sua risposta, per quanto potei capire, fu che bisognava attendere, che non poteva decider su questo senza essersi consultato con il suo Consiglio, e che, anzitutto, io dovevo: Lumos kelmin pesso desmar lon Emposo; vale a dire: «Giurare pace con lui e il suo reame». Comunque sarei stato trattato con tutti i possibili riguardi; e mi consigliò di cattivarmi, con la pazienza e la buona condotta, la sua stima e quella dei suoi sudditi. Mi pregò anche di non avermene a male se doveva dar ordine a certi suoi funzionari di perquisirmi: perché probabilmente portavo indosso armi che potevano essere molto pericolose, se rispondevano alla prodigiosa mole della mia persona. Risposi che Sua Maestà sarebbe stata soddisfatta, perché ero pronto a spogliarmi e a vuotar le mie tasche davanti a lui: espressi tutto ciò parte a parole e parte a cenni. Egli mi fece sapere che, conformemente alle leggi del suo regno, io dovevo essere perquisito da due suoi funzionari; che questo, lo sapeva bene, non si sarebbe potuto fare senza il mio consenso e il mio aiuto; che aveva una così buona opinione della mia generosità e del mio senso di giustizia che avrebbe affidato alle mie mani le loro persone; che qualunque cosa essi mi togliessero mi sarebbe stata restituita quando io avessi lasciato il paese o ne sarei stato rimborsato secondo il valore da me stesso stabilito. Io presi su i due funzionari e li misi dapprima nelle tasche della mia giacca, poi in tutte le altre tasche che avevo, eccettuati i due taschini e un’altra tasca segreta che non mi curai di far perquisire contenendo alcune piccolezze utili solo a me. In uno dei taschini v’era un orologio d’argento, nell’altro una borsa con un poco d’oro. Quei signori, portati con sé penna, inchiostro e carta, stesero un esatto inventario di tutto ciò che videro e, quando ebbero finito, mi pregarono di rimetterli a terra per poterlo consegnare all’Imperatore. Più tardi tradussi in inglese questo inventario ed ecco qui, parola per parola:

    Imprimis, nella tasca destra della giacca del Grande Uomo Montagna (traduco così le parole Quinbus Flestrin), dopo la più rigorosa perquisizione, abbiamo trovato solo un gran pezzo di tela ordinaria, abbastanza largo per far da tappeto alla gran sala di Vostra Maestà. Nella tasca sinistra abbiamo visto un’enorme cassa d’argento con coperchio dello stesso metallo che non riuscimmo ad aprire ad onta di tutti i nostri sforzi. Esprimemmo il nostro desiderio che fosse aperta, e uno di noi, entratovi, si trovò fino a mezza gamba in una specie di polvere di cui alcuni granelli ci volarono in faccia facendoci starnutire entrambi parecchie volte. Nella tasca destra del panciotto abbiamo trovato una straordinaria massa di materiali bianchi e sottili, piegati gli uni su gli altri, della grossezza di circa tre uomini, legati con una grossa corda e segnati con figure nere: congetturiamo umilmente che si tratti di una scrittura di cui ogni lettera è grande almeno quanto la metà del nostro palmo. Nella sinistra v’era una specie di macchina dal cui dorso si protendevano venti lunghe sbarre, simili alle palizzate davanti alla corte di Vostra Maestà: supponiamo che l’Uomo Montagna con essa si pettini, poiché non sempre lo abbiamo importunato con domande, vista la grande difficoltà di farci intendere. Nella grande tasca sul lato destro del suo coprimezzo (traduco così la parola Ranfu-Lo, con cui essi alludevano ai miei calzoni), abbiamo visto un pilastro di ferro vuoto, lungo circa quanto un uomo, fissato su di un robusto pezzo di legno, più grosso del pilastro; e su di un lato del pilastro v’erano enormi pezzi di ferro che ne sporgevano, tagliati in strane fogge: non sappiamo a che cosa serva. Nella tasca sinistra un altro meccanismo dello stesso genere. Nel taschino a destra v’eran parecchi pezzi rotondi e piatti di metallo rosso e bianco, e di diverso volume; alcuni pezzi bianchi, che ci son sembrati di argento, erano così grossi e pesanti che il mio collega ed io abbiamo potuto sollevarli a fatica. Nel taschino sinistro v’erano due pilastri neri di forma irregolare; riuscimmo a fatica a raggiungerne l’estremità poiché stavamo in fondo alla sua tasca. L’uno di essi era coperto e sembrava tutto d’un pezzo; ma, all’estremità superiore dell’altro, appariva una sostanza bianca e rotonda, grande quanto due delle nostre teste. In ognuno di essi era chiusa un’immane lama di acciaio, che, dietro nostro ordine, egli fu costretto a mostrarci: temevamo infatti che potessero essere pericolosi meccanismi. Egli li tolse dai loro astucci e ci disse che, nel suo paese, era solito radersi la barba con uno di essi e, con l’altro, tagliarsi le pietanze. Rimanevano due tasche in cui non potevamo entrare, da lui chiamate taschini: erano due lunghe fessure tagliate nella parte superiore del suo coprimezzo, ma tenute strettamente chiuse dalla pressione del ventre. Dal taschino destro pendeva una gran catena d’argento alla cui estremità era assicurata una meravigliosa sorta di meccanismo. Lo invitammo a tirar fuori tutto ciò che era attaccato a quella catena: era un globo per metà di argento e per metà di qualche metallo trasparente; dalla parte trasparente vedemmo infatti strane figure disegnate tutt’in giro, ma, quando credemmo di poterle toccare, ci accorgemmo che quella sostanza diafana arrestava le nostre dita. Ci avvicinò la macchina all’orecchio e udimmo uno strepito incessante, simile a quello di un

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