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I magnifici 7 capolavori della letteratura americana
I magnifici 7 capolavori della letteratura americana
I magnifici 7 capolavori della letteratura americana
E-book2.281 pagine35 ore

I magnifici 7 capolavori della letteratura americana

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Info su questo ebook

POE, Le avventure di Gordon Pym
HAWTHORNE, La lettera scarlatta
MELVILLE, Moby Dick
H. JAMES, Giro di vite
LONDON, Il richiamo della foresta
WHARTON, L’età dell’innocenza
FITZGERALD, Il grande Gatsby

Edizioni integrali

Questo volume raccoglie sette perle della letteratura americana, sette voci che hanno contribuito a delineare e definire la peculiare identità di una tradizione giovane, ma estremamente ricca e sfaccettata. Sono romanzi che narrano di avventure nella natura selvaggia e celebrano l’epica della libertà, come Il richiamo della foresta, capolavoro di Jack London; o tragiche epopee per mare, come quella che Herman Melville fa vivere al Capitano Achab nel corso della sua sfida a Moby Dick, la balena bianca, colosso marino che è anche rappresentazione dell’inconoscibile. Racconti con elementi gotici e inquietanti, come Le avventure di Gordon Pym, unico romanzo scritto da Edgar Allan Poe, ricco di significati simbolici e sfuggenti, o Giro di vite di Henry James, in cui un’atmosfera cupa e minacciosa, piena di oscuri presagi, incombe su paesaggi e persone. Ma sono anche storie che ci parlano della cultura e della società americane, mettendone spesso in evidenza i limiti e le contraddizioni, come La lettera scarlatta, in cui, attraverso le vicende dell’adultera Ester Prynne, Nathaniel Hawthorne condanna l’implacabilità puritana della città di Boston; o L’età dell’innocenza, mirabile affresco della borghesia newyorchese di fine Ottocento, contro il cui ottuso moralismo si scaglia Edith Wharton; e Il grande Gatsby, “classico moderno” di Francis Scott Fitzgerald ambientato nei frenetici anni Venti, in cui il sogno del protagonista, al pari dell’originario “sogno americano” di un Mondo Nuovo, si frantuma e si disperde a contatto con la realtà.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854152441
I magnifici 7 capolavori della letteratura americana
Autore

Nathaniel Hawthorne

Nathaniel Hawthorne was born is Salem, Massachusetts in 1804. His father died when he was four years old. His first novel, Fanshawe, was published anonymously at his own expense in 1828. He later disowned the novel and burned the remaining copies. For the next twenty years he made his living as a writer of tales and children's stories. He assured his reputation with the publication of The Scarlet Letter in 1850 and The House of the Seven Gables the following year. In 1853 he was appointed consul in Liverpool, England, where he lived for four years. He died in 1864.

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    Anteprima del libro

    I magnifici 7 capolavori della letteratura americana - Nathaniel Hawthorne

    Indice

    EDGAR ALLAN POE, LE AVVENTURE DI GORDON PYM

    Introduzione

    Nota biobibliografica di Edgar Allan Poe

    NATHANIEL HAWTHORNE, LA LETTERA SCARLATTA

    Introduzione

    Prefazione alla seconda edizione

    Nota bibliografica di Nathaniel Hawthorne

    HERMAN MELVILLE, MOBY DICK

    Il «libro malvagio»

    Nota biobibliografica di Herman Melville

    HENRY JAMES, GIRO DI VITE

    Introduzione

    Nota biobibliografica di Henry James

    JACK LONDON, IL RICHIAMO DELLA FORESTA

    Introduzione

    Nota biobibliografica di Jack London

    EDITH WHARTON, L’ETÀ DELL’INNOCENZA

    La «signora» della narrativa

    Nota biobibliografica di Edith Wharton

    F. SCOTT FITZGERALD, IL GRANDE GATSBY

    Introduzione

    Nota biobibliografica di F. Scott Fitzgerald

    432

    In queste edizioni

    I magnifici 7 capolavori della letteratura erotica

    I magnifici 7 capolavori della letteratura francese

    I magnifici 7 capolavori della letteratura inglese

    I magnifici 7 capolavori della letteratura irlandese

    I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana

    I magnifici 7 capolavori della letteratura per ragazze

    I magnifici 7 capolavori della letteratura per ragazzi

    I magnifici 7 capolavori della letteratura russa

    I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca

    Le magnifiche 7 signore della letteratura inglese

    Prima edizione ebook: maggio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5244-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di Librofficina

    Avvertenza: le opere sono presentate in ordine cronologico in base alle date di nascita degli autori.

    I magnifici 7 capolavori

    della letteratura americana

    Poe, Le avventure di Gordon Pym

    Hawthorne, La lettera scarlatta

    Melville, Moby Dick

    H. James, Giro di vite

    London, Il richiamo della foresta

    Wharton, L’età dell’innocenza

    Fitzgerald, Il grande Gatsby

    Edizioni integrali

    Edgar Allan Poe

    Le avventure di Gordon Pym

    A cura di Tommaso Pisanti

    Titolo originale: The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket, traduzione di Enzo Giachino.

    Introduzione

    Per molto tempo, si sa, Edgar Allan Poe, serrato in quella che sembrava un’assoluta oniricità, era apparso scrittore pressoché estraneo allo «svolgimento» stesso di una letteratura americana protesa invece verso estroversioni naturistiche e operative, lungo le linee d’espansione emersoniana e whitmaniana. Ma poi quelle stesse linee e l’intera esaltazione naturistico-ottimistica si sono anch’esse rivelate dense d’inquietudini e di componenti in «nero» (la blackness americana) di eredità «gotica» e anche puritana¹.

    Fu però il francese, l’europeo Baudelaire a collegare, con prodigiosa intuizione, l’orrido e il tenebroso di Poe non tanto con certe ormai scontate tendenze romantiche quanto – come aveva d’altronde ribadito lo stesso Poe – con il «terrore che è nell’anima»² e con coerenti esigenze e specifiche scelte stilistico-letterarie. L’orrido come un acuminato strumento di esplorazione nei labirinti della mente, nei meandri psicologici, negli enigmi di una condizione umana problematica. L’influsso di Poe diventerà allora, di colpo, vastissimo, ha costituito anzi uno dei capitoli più fenomenali nella storia degli incontri e dei rapporti fra le letterature: e si pone all’origine stessa della radicale svolta che condurrà al «modernismo», alla «nuova provincia dell’arte d’oggi»³.

    Una blackness ad ogni modo, quella di Poe, composita e variegata, benché s’accompagnasse, a livello biografico, a quel suo precario vivere da randagio, tra esaltazioni e depressioni (e a un affidarsi spesso all’alcol e agli oppiacei, soprattutto dopo la morte di Virginia, la moglie-bambina). Ma «era un bere per disperazione», ha scritto William Carlos Williams⁴. Altro che il ritratto «satanico» che ha circolato per tanto tempo⁵. Vi erano, in Poe, struggimenti d’assolutezze, tensioni verso miti d’armonie remote e perdute. Un ardore mitopoietico classico-neoclassico, con ombre orfico-pitagoriche, suggestioni d’Oriente (componenti che danno, subito, alla nascente espressività americana spessore e profondità). «Elena, la tua bellezza è per me / come quei navigli nicei d’un tempo lontano…» «Helen, thy beauty is to me / like those Nicéan barks of yore…»).

    Vi è largamente posto, s’intende, anche per l’indagine psicoanalitica: e certe suggestive commistioni estetico-funeree («la morte di una bella donna è l’argomento più poetico del mondo») sono state spesso collegate con l’immagine ossessiva della giovane madre perduta a neanche due anni. Del padre, non si seppe più nulla. Attori entrambi di teatro, a Boston, al tempo della nascita di Edgar, nel 1809. E lui, Edgar, accolto nella casa del facoltoso mercante John Allan e di sua moglie Frances, a Richmond, in Virginia. I meandri dell’inconscio, certo: ma indagando con «juicio», ad ogni modo, quando il sigillo definitivo è dato dal conseguimento di un’intrinseca organicità poetica, di uno stile.

    Poe è, comunque, tutt’altro che immerso nella totalità romantica. E, soprattutto, si sono via via evidenziati e precisati, in Poe, gli aspetti di affilata consapevolezza, di lucida costruttività stilistico-letteraria: con presenza, persino, di sensi ludici, parodici, istrionici, mistificatori. «Per fare delle sue immagini losche e abbaglianti un sistema funzionale, Poe doveva costruire una retorica intimidatoria e duramente coerente: ma tenendone appunto, contemporaneamente, lucido controllo di direzione e di effetti».

    Interrotti gli studi all’università, messosi in urto con l’Allan, Poe inizia quella sua vita errabonda, di passerby. A Baltimora ritroverà la zia Maria Clemm, di cui sposerà la figlia quattordicenne, Virginia (un caso, più che di matrimonio, di «vampirismo spirituale»? Con un «vibrare di nervi all’unisono», ha scritto Lawrence). Un inquieto errare: fino alla tragico-paradossale morte, proprio a Baltimora, nel 1849.

    Poe inizia come poeta, con inquietezze ribellistiche alla Byron (il poemetto Tamerlano), slanci alla Shelley (il poemetto Al Aaraaf), platonici entusiasmi per l’iperurania Bellezza, incisività d’immaginazione alla Coleridge; e, soprattutto, con quei suoi «effetti» stregati, quei paesaggi foschi e insieme illuminati da una strana lattea luce, con quei balenii di fosforescenze e di anticipatrici risonanze e «dissonanze» (in La Città nel mare, e, più tardi, in Ulalume, nella cupa fascinazione di The Raven, «Il Corvo», pur così attentamente «costruito»).

    E poi i racconti, i tales famosissimi, straordinari, extraordinaires, come apparvero a Baudelaire: visionari e loici. Berenice, Morella, Re Peste, Ligeia. Magici nomi di donne «depositarie di un sapere mistico e arcano»¹⁰ (e, poi, Il crollo della casa degli Usher, Il ritratto ovale, Il pozzo e il pendolo, Il gatto nero, Il cuore rivelatore, Lo scarabeo d’oro). Tutti pubblicati, via via, su giornali e riviste, prima di essere raccolti in volume (1840 e 1846). Poe lavora intensamente, freneticamente; e ama, in fondo, questo comunicare attraverso tali nuovi «canali». È ritornato a Richmond, dopo la morte di John Allan (che nel suo testamento non l’ha neanche nominato), scrive sul «Southern Literary Messenger», diventandone redattore capo e facendone fortemente aumentare la tiratura. Ha un suo pubblico che incomincia ad essere coinvolto, scrive recensioni rigorose, critica anche nomi famosi e intoccabili (come il poeta-professore Longfellow, considerato quasi, allora, il «poeta nazionale»). Ma tutto riprenderà, di lì a poco, ad essere precario e fuggevole.

    Ed è sul «Southern Literary Messenger» che comincia ad uscire, a puntate (solo due puntate nel gennaio e febbraio del 1837), The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket (pubblicato in volume nell’anno successivo).

    Un romanzo? No, non un «romanzo» (novel) nel senso di costruzione «organica» quale allora si richiedeva. Una «narrativa», comunque, un «resoconto» di una certa estensione, di un’eccezionale avventura raccontata dal giovane Pym di Nantucket (l’isola atlantica delle baleniere, poco a sud di Capo Cod). Con riassuntivo sottotitolo: «Contiene i particolari dell’ammutinamento e del feroce massacro, che avvenne a bordo del brigantino americano Grampus, in rotta verso i mari del Sud e della susseguente cattura del vascello per opera dei sopravvissuti; il loro naufragio e gli orribili patimenti che soffrirono per la fame; il loro salvataggio da parte della goletta britannica Jane Guy: la breve crociera di quest’ultima nell’oceano Antartico; la sua cattura e la carneficina dell’intero equipaggio in un gruppo di isole all’84o parallelo di latitudine sud, insieme con molte altre incredibili avventure e scoperte compiute più a sud, in seguito a quel calamitoso disastro»¹¹.

    Un quasi romanzo, ad ogni modo. L’unico scritto da Poe, se si eccettua l’incompiuto Journal of Julius Rodman. E in contraddizione, si direbbe, con quanto lo stesso Poe andava intanto elaborando circa l’«unità d’effetto», (unity of effect), appunto, da conseguire, da parte dello scrittore (e del poeta) attraverso una netta e stringata concentrazione, e mai dilatazione, delle componenti: giacché lo stato d’«eccitamento» (excitement) prodotto dall’efficace scrittore (o poeta) non può essere che «intenso e breve» e non può essere protratto per pagine e pagine, attraverso tutto un «lungo» poema o romanzo.

    Così scriverà Poe, più tardi, nel suo saggio Philosophy of Composition¹². Per cui, «lo scrittore non adatterà i suoi pensieri alle esigenze della trama; ma, al contrario, è dopo aver stabilito con ponderata considerazione un determinato effetto da conseguire che inventerà la trama e creerà via via le situazioni che meglio possano aiutarlo a rendere quell’effetto prestabilito».

    E The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket non sembra smentire tutto questo? La concentrazione, l’applicazione di quanto Poe andava elaborando e sostenendo sono, dunque, nei tales, nei racconti. Vi era tuttavia in Poe qualcosa che premeva e spingeva a tentare articolazioni di più ampia misura creativa, oltre alla compiaciuta tentazione di mostrare come in un’epoca dominata dal «romanzo» e da una continua richiesta di romanzi, anch’egli potesse scriverne (senza dire, più esteriormente, delle possibilità di più consistenti remunerazioni, di cui Poe, nelle sue condizioni di precarietà, aveva sempre bisogno). Interiormente, comunque, Poe intendeva fondere, in un racconto a più ampio respiro, dati «concreti» e realistici di un avventuroso viaggio marino e significati ultimi e sfuggenti: da rimescolare attraverso sottili interventi e «giochi» di sperimentazione e d’alchimia linguistico-stilistica.

    Per cui, se The Narrative prende inizio con un attacco di normale, pacato resoconto di viaggio, con la consueta autopresentazione da parte del narrante («Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Mio padre era un rispettabile commerciante in articoli marittimi, a Nantucket, dove sono nato…»¹³), alla maniera del Robinson Crusoe di Defoe, discopre e sviluppa poi subito altre orientazioni, in una crescente tensione di ambivalenze: che finiscono con l’invadere la pagina al di là dell’attento dosaggio, pur perseguito lungo l’intera narrazione, tra «veridicità» (vi è sempre un attenuante «come non ho mai visto» nelle situazioni più estreme e fuori d’ordinario) e soprarealismo significante e simbolizzante.

    Il giovanissimo Arthur Gordon Pym s’imbarca, in segreto, sulla baleniera di cui è capitano il padre del suo amico Augustus (l’amicizia come fondamentale situazione americana¹⁴). Deve però attendere nelle tenebre della stiva, come avverte Augustus con un messaggio scritto col sangue e fatto pervenire tramite un cane che si chiama Tigre. Nel frattempo, però, l’equipaggio si è ammutinato. Pym si salva insieme con Augustus e col gigantesco meticcio Peters. Ha spaventato i rivoltosi travestendosi da fantasma di un marinaio ucciso. Dopo altre peripezie (Augustus muore intanto di cancrena) Pym e Peters sono raccolti dalla goletta inglese Jane Guy diretta, in esplorazione, verso le regioni antartiche. Ma nell’isola di Tsalal, tutta «nera», selvaggi diabolici fanno scempio della nave e dell’equipaggio. Pym e Peters riescono, ancora, a salvarsi attraverso burroni e caverne labirintiche sulle cui pareti sono incisi strani segni, come misteriosi geroglifici. Riaffrontano il mare in canoa, finché non li blocca una «gigantesca cortina» che «occupava l’orizzonte in tutta la sua estensione». E scaturisce da lì un fulgore abbagliante.

    Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve¹⁵.

    Non vi è, tuttavia, vera fusione (com’è invece nei tales più rappresentativi). Da una parte, la «veridicità» e lo sviluppo propriamente narrativo restano alquanto fragili, con una delineazione solo abbozzata dei caratteri, con le troppo minuziose digressioni esplicative (con l’ausilio magari, di libri e manuali di marineria allora correnti); dall’altra, emblemi e simboli irrompono, a loro volta, in maniera un po’ informe. Ma con una loro potente carica di per se stessa, si direbbe, fortemente coinvolgente. Ed è una tale emblematizzazione che dà direzione, e vivezza e smalto, all’intera narrative, e che fa di un nervoso e un po’ improbabile accumulo di incidenti di mare d’ogni sorta (orribili tempeste, naufragi, salvataggi, ammutinamenti, cannibalismi, strani animali e feroci selvaggi in remote isole) qualcosa, specialmente nella parte finale, di intensamente significante.

    Forando, si può dire, l’inadeguato involucro del resoconto empirico, «le parole creano un’altra realt໹⁶, diffondono atmosfere, sensi d’ambiguità, simbologie. Vi è, già immediato, il «trucco» dell’Avvertenza, all’inizio, il gioco tra autore «vero» e autore «finto» con riferimento, da parte del narrante, a un «mister Poe». E del resto il trittico di nomi Arthur Gordon Pym non sembra risuonare come Edgar Allan Poe? E poi il rosso acceso del sangue (vi è, incalzante, tutta una simbologia dei colori), il nero infernale dell’isola, il feroce scontro fra tutto quanto è «nero» e quanto è «bianco» (con allusività anche razzistiche?). La cavità della nave è il grembo materno; il viaggio è un viaggio onirico – fino alla mitopoiesi delle ultime pagine – fino alla scoperta dei segni misteriosi, fino al culmine dell’apparizione della «figura umana dal volto velato».

    Il polo, l’Antartico in particolare, avevano da sempre affascinato Poe: come una terra incognita, «deposito» di segrete possibilità, di inedite, «surreali» forme e modi d’esistenza (e molto se ne parlava, del resto, in quegli anni).

    E in Poe, d’altra parte, è tutt’altro che assente il fantasticare «fantascientifico»¹⁷. Ma che cosa rappresenta quell’incontro finale, in cui è poi il senso stesso del libro? Quel trionfo del bianco è morte e desolazione o emblema di catarsi e rinascita? Non vi è catastrofe, ma catarsi, appunto. Quell’immenso biancore, somma e annullamento, al tempo stesso, di tutti i colori (l’«omni-color»), è metafisica metafora dell’ego che si reinnesta nel cosmo; o della primordiale dea madre che ci riaccoglie, come in un «ritorno alle origini della creazione»¹⁸, in una unità in cui si ricompongono tutti i frammenti («si era spalancato un abisso per riceverci»)?

    Certo, la visione è solo un baleno, è come una visione drasticamente interrotta: ma fissata in un’efficacia ormai «mitica». Poe ha bisogno, per ragioni narrative, di far sopravvivere Pym, senza indicare intanto, in modo «credibile», come ciò possa essere avvenuto; e rientra perciò, bruscamente, nel criterio della «verosimiglianza» con una un po’ sconcertante «Nota finale». Ma «nessun lettore può credere al ritorno e alla sopravvivenza di Pym»¹⁹.

    Ad ogni modo, più che ad un generico panteismo, occorrerebbe qui collegare il tutto a quanto Poe stesso esporrà, più tardi, compiutamente, in Eureka, il poemetto filosofico in versi. Non vi è separazione tra lo spirituale e il materiale, e la «materia» si fa «spirito», per Poe, e progredisce, attraverso l’energia, l’etere, l’elettricità, il magnetismo, il pensiero, l’anima – fino a Dio. La grande, enorme figura dal volto velato è un tale Dio? O qualcosa, paradossalmente, di ancor più sfuggente?

    Da lì, da quel biancore germinerà, comunque, anche l’immacolato biancore dell’enorme, mostruosa Balena di Melville. E Jules Verne – ancora, un francese –, colpito dalla potente suggestione della scena finale, vorrà, a suo modo, perfino dare un seguito a The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket²⁰.

    TOMMASO PISANTI

    1 H. Levin, The Power of Blackness: Hawthorne, Poe, Melville, New York 1958.

    2 Nella prefazione ai Tales of the Grotesque and the Arabesque (1840). Sugli influssi «francesi» di Poe: P.F. Quinn, The French Face of Edgar Allan Poe, Carbondale, Ill., 1957.

    3 E. Cecchi, in Scrittori inglesi e americani, Milano 1962,

    I

    , p. 91.

    4 In Nelle vene dell’America, tr. it., Milano 1969, p. 299.

    5 Ritratto che risale soprattutto al velenoso Memoir di R.W. Griswold (1815-1857), da Poe stesso scelto, per ironica-paradossale sorte, come curatore delle sue opere.

    6 M. Bonaparte, Edgar Poe. Sa vie et son oeuvre. Con prefazione di S. Freud, Parigi 1933.

    7 G. Manganelli, nella Prefazione a Opere scelte di E. A. Poe, Milano 1971, p.

    XIII

    .

    8 D.H. Lawrence, Classici americani, tr. it., Milano 1948, p. 78.

    9 E.A. Poe, Tutte le poesie, a cura di T. Pisanti, Roma 1990; E.A. Poe, Opere scelte, cit.; E.A. Poe, Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym, Roma 1992.

    10 R. Oliva, in «Introduzione» a E.A. Poe, Tre donne: Berenice, Morella, Ligeia, Milano 1980.

    11 Trad. di E. Giachino, in E.A. Poe, Le avventure di Gordon Pym, a cura di U. Rubeo, Pordenone 1991.

    12 Trad. di E. Chinol, in E.A. Poe, Opere scelte, cit.; trad. di T. Pisanti, in E.A. Poe, Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym, cit.

    13 Trad. di E. Vittorini (Le avventure di Gordon Pym, Milano 1937) (ultima rist., 1990, p. 7).

    14 L. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, tr. it., Milano 1960.

    15 Trad. di E. Vittorini, cit., p. 215.

    16 E.H. Davidson, Poe. A Critical Study, Cambridge, Mass., 1964.

    17 «Gordon Pym è una sorta di cosmonauta ottocentesco, il suo vascello essendo una rozza astronave cosmica» (C. Pagetti, Il senso del futuro. La fantascienza nella letteratura americana, Roma 1970). Inoltre: H. Beaver, The Science Fiction of E.A. Poe, Harmondsworth 1976.

    18 F. Binni, in «Introduzione» a E.A. Poe, Il racconto di Arthur Gordon Pym, Milano 1990.

    19 R. Asselineau, in «Introduzione» a E.A. Poe, Les aventures d’Arthur Gordon Pym, Parigi 1973, p. 31.

    20 Le Sphynx des glaces (1897). Si veda anche, di Verne, Edgar Allan Poe et ses oeuvres (1864; tr. it. a cura di M. Di Maio, Roma 1991).

    La relazione di Arthur Gordon Pym da Nantucket

    che contiene

    i particolari dell’ammutinamento e del feroce massacro, che avvenne a bordo del brigantino americano Grampus, in rotta verso i mari del Sud e della susseguente cattura del vascello per opera dei sopravvissuti; il loro naufragio e gli orribili patimenti che soffrirono per la fame; il loro salvataggio da parte della goletta britannica Jane Guy; la breve crociera di quest’ultima nell’oceano Antartico; la sua cattura e la carneficina dell’intero equipaggio in un gruppo di isole all’84o parallelo di latitudine sud, insieme con molte altre incredibili avventure e scoperte compiute più a sud, in seguito a quel calamitoso disastro.

    AVVERTIMENTO

    Or sono pochi mesi, al mio ritorno negli Stati Uniti, dopo la straordinaria serie di avventure nei mari del Sud e altrove, di cui si offre una narrazione nelle pagine seguenti, il caso mi pose in contatto con parecchi gentiluomini di Richmond, nella Virginia, i quali manifestarono un profondo interesse per tutto ciò che si riferisce alle regioni che avevo visitato, e costantemente mi spronavano a offrirne al pubblico una relazione, quasi fosse questo un mio preciso dovere. Io avevo tuttavia parecchie buone ragioni per declinare l’invito: alcune strettamente personali, che non concernono che me; altre di natura diversa.

    Una delle considerazioni che mi sconsigliava di scrivere era che, non avendo tenuto alcun diario durante la maggior parte del viaggio, temevo che non sarei stato in grado di scrivere, basandomi esclusivamente sulla memoria, una relazione così particolareggiata e aderente ai fatti da avere l’aspetto di quella verità che realmente possiederebbe sfrondata delle naturali ed inevitabili esagerazioni cui tutti siamo inclini, quando riferiamo eventi che hanno lasciato un’impressione così profonda nella nostra immaginazione.

    Un altro motivo era che gli incidenti che avrei dovuto narrare erano di natura così meravigliosa che, non essendo suffragati da altre asserzioni tranne la mia – eccettuata la testimonianza di un solo individuo, un meticcio, – io non potevo sperare di ottenere credenza che presso i familiari e gli amici, che hanno avuto motivo, durante l’intero corso della vita, di prestar fede alle mie affermazioni, mentre il pubblico, in generale, avrebbe considerato ciò che io avrei riferito come null’altro se non una serie di impudenti e ingegnose favole. Tuttavia la causa principale che mi impedì di ottemperare a quei consigli fu la sfiducia nelle mie capacità di scrittore.

    Tra quei gentiluomini della Virginia, che manifestarono un vivo interesse alla mia narrazione, soprattutto nei confronti di quella parte che narra le avventure nell’oceano Antartico, vi era un certo signor Poe, direttore, sino a qualche tempo addietro, del «Southern Literary Magazine», una rivista mensile pubblicata dal signor Thomas W. White nella città di Richmond. Egli non si stancava di esortarmi a preparare immediatamente una relazione completa di ciò che avevo veduto e sofferto e di fidare nell’acutezza e nel comune buon senso del pubblico, insistendo, non senza ragione, che per quanto rozza potesse risultare la stesura del libro, la sua stessa eventuale ineleganza sarebbe stata nuova prova della veridicità di quanto veniva riferito.

    Tuttavia, malgrado questa osservazione, io non mi decidevo mai a seguire i suoi consigli. Egli allora (vedendo che non riusciva a smuovermi) propose che gli permettessi di stendere, in parole sue, una narrazione della prima parte delle mie avventure, basandosi sui fatti che gli avrei fornito io stesso, e di pubblicarla sul «Southern Messenger», sotto forma di narrazione romanzesca. A questa proposta, non avendo nessuna specifica obiezione, acconsentii, esigendo solo che conservasse il mio vero nome. In due numeri successivi del «Messenger», gennaio e febbraio 1837, apparvero due puntate del cosiddetto romanzo, e per esser più sicuri che venisse considerata opera di fantasia, nel sommario della rivista, accanto al titolo del racconto, figurò il nome del signor Poe.

    Il modo con cui venne accolto questo sotterfugio mi indusse infine a sobbarcarmi alla fatica di narrare e pubblicare le mie avventure, perché m’accorsi che, malgrado l’aria romanzesca che era stata così ingegnosamente conferita a quella parte del mio racconto che apparve sul «Messenger» (pure senza mutare o alterare un solo fatto), il pubblico non s’era mostrato per nulla disposto ad accettare la narrazione come un romanzo, e il signor P. ricevette parecchie lettere, che chiaramente manifestavano una convinzione del tutto opposta. Dal che conclusi che i dati di fatto della mia narrazione si sarebbero rivelati di tal natura da recare implicita la prova della loro autenticità, e che di conseguenza non dovevo affatto temere l’incredulità del pubblico.

    Da quanto è stato riferito, sarà facile capire quale parte di ciò che segue sia mia fatica personale, e così pure convincersi che nelle poche prime pagine scritte dal signor Poe non è stato alterato fatto veruno. Anche a quei lettori che non abbiano visto il «Messenger» sarà superfluo indicare il punto dove termina la parte scritta da lui e dove comincia la mia, perché risulterà evidente dalla differenza dei due stili.

    A.G.

    PYM

    New York, luglio 1838

    Capitolo primo

    Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Mio padre era un rispettabile commerciante in articoli marittimi a Nantucket, dove io nacqui. Il mio nonno materno faceva il notaio e aveva una buona clientela. Fortunato in tutto, aveva speculato con profitto sui fondi di quella che era un tempo chiamata la Edgarton New Bank. Con questi e altri mezzi era riuscito a metter da parte un discreto capitale. Era attaccato a me, credo, più che a qualsiasi altra persona al mondo, tanto che tutto faceva pensare che alla sua morte io avrei ereditato buona parte della sua sostanza. A sei anni mi mandò a scuola dal vecchio signor Ricketts, un gentiluomo con un braccio solo e modi piuttosto eccentrici – e noto a quasi tutti quelli che siano vissuti a New Bedford. Rimasi nella sua scuola finché non compii i sedici anni, dopo di che mi iscrissi all’Accademia del Signor E. Roland, che si trovava sulla collina. In questa Accademia divenni intimo amico del figlio del signor Barnard, un capitano marittimo che di solito navigava per la ditta Lloyd e Vredenburgh. Anche il signor Barnard è ben noto a New Bedford e, son sicuro, conta molti parenti a Edgarton. Suo figlio si chiamava Augustus e aveva circa due anni più di me. Aveva già compiuto un viaggio con suo padre sulla baleniera John Donaldson e non faceva che parlare di una delle sue avventure nel Pacifico meridionale. Io ero solito recarmi frequentemente a casa sua e starci tutto il giorno, e talvolta anche la notte. Si dormiva allora nello stesso letto e quasi sempre capitava che egli mi tenesse sveglio sino all’alba, narrandomi storie sugli indigeni dell’isola di Tinian e su altri posti che aveva visitato nei suoi viaggi. Finì che non potei non interessarmi a ciò che diceva e, poco alla volta, sentii nascere in me un grande desiderio di navigare. Possedevo una barca a vela chiamata Ariel, che valeva circa settantacinque dollari. Aveva una specie di mezzo ponte o di cabina ed era armata come una corvetta; ho dimenticato quale ne fosse il tonnellaggio ma ricordo che avrebbe potuto portare dieci persone, abbastanza comodamente. Con questa barca avevamo l’abitudine di compiere alcune delle più pazze diavolerie che si possano immaginare, e quando adesso ci penso non riesco a capacitarmi d’essere ancora vivo.

    Mi limiterò a narrare una di queste avventure, come introduzione a un racconto ben più lungo e importante. Una sera c’era stata una festa a casa del signor Barnard, e tanto Augustus che io, verso la fine, eravamo piuttosto brilli. Come sovente capitava in simili casi, preferii condividere il suo letto che recarmi a casa mia. Augustus si addormentò subito, mi parve, molto tranquillamente (era quasi l’una quando gli invitati se n’erano andati), e senza aver detto una sola parola sul suo argomento preferito. Poteva esser trascorsa mezz’ora da quando c’eravamo coricati, e io mi stavo assopendo, a mia volta, quando egli improvvisamente si alzò e bestemmiando orribilmente dichiarò che non si sarebbe rassegnato a dormire per nessun Arthur Pym della cristianità, quando da sud-ovest spirava una brezza così invitante. Io rimasi di stucco, perché non capivo che intenzioni avesse, ed ero portato a credere che i vini e i liquori bevuti l’avessero fatto uscire un poco di senno. Egli continuò a parlare molto tranquillo, dicendo che capiva benissimo che io lo credevo ubriaco, mentre invece non era stato mai più lucido in tutta la sua vita. Solo che era stanco, soggiunse, di starsene a letto a dormire come un cane, in una notte tanto bella, così che aveva deciso di alzarsi, vestirsi e fare una gita in barca. Ancora adesso non riesco a capire che cosa passò in me allora, ma le parole non gli erano uscite di bocca che io mi sentii corso da un brivido di entusiasmo e ritenni la sua folle proposta una delle cose più intelligenti e ragionevoli che si potessero fare. Fuori imperversava quasi una burrasca, e faceva tremendamente freddo, perché ci trovavamo verso la fine di ottobre. Tuttavia balzai dal letto in una specie di estasi, e gli dichiarai che non mi sentivo affatto meno coraggioso di lui, e che come lui ero stanco di restarmene a cuccia come un cane, ed ero pronto a condividere tutte le gite di piacere che potesse mai organizzare qualsiasi Augustus Barnard di Nantucket.

    In un battibaleno fummo vestiti e già correvamo verso la barca. Ormeggiata presso il cantiere della Pankey e Co., essa cozzava col bordo contro le travi scabre della vecchia gettata in rovina. Augustus vi saltò dentro e si mise subito ad aggottare, perché era quasi piena a metà d’acqua. Fatto questo, issammo fiocco e vela maestra e, facendole portare in pieno, ci avventurammo, arditi, verso l’aperto mare.

    Come ho già detto il vento soffiava veemente da sud-ovest. La notte era limpida e fredda. Augustus reggeva il timone e io mi sedetti presso l’albero maestro, sul ponte della cabina. Si filava a una notevole velocità, e né l’uno né l’altro avevamo scambiato parola da quando c’eravamo staccati dalla gettata. A questo punto io chiesi al mio compagno quale direzione intendesse seguire, e a che ora pensava saremmo potuti probabilmente ritornare. Lui fischiettò per alcuni minuti, poi dichiarò irritato: «Io, per me, continuo a navigare; tu, se lo preferisci, puoi benissimo tornartene a casa». Quando volsi gli occhi su lui, mi accorsi immediatamente che, malgrado l’indifferenza che ostentava, nel suo intimo era fortemente agitato. Riuscivo a scorgerlo bene nel lume della luna: il volto era più pallido del marmo, e la mano gli tremava tanto che doveva faticare non poco per tener salda la barra del timone. M’accorsi che c’era qualcosa che non andava e mi allarmai seriamente. In quel tempo non m’intendevo molto del governo di una barca, così che dipendevo veramente dalle abilità nautiche del mio compagno. Si aggiunga che il vento era ancora rinfrescato e che noi stavamo rapidamente allontanandoci da terra. Ma mi vergognavo a manifestare alcuna trepidazione e per circa mezz’ora mantenni un silenzio assoluto. Tuttavia, dopo qualche tempo, non riuscendo più a reggere a quell’ansia, suggerii ad Augustus che forse sarebbe stato meglio tornare. Come già prima gli occorse circa un minuto perché si decidesse a rispondermi o a badare al mio consiglio. «Tra poco», dichiarò in fine. «Abbiamo tutto il tempo che si vuole… a casa più tardi… quando ci farà comodo». M’ero aspettato una risposta simile, ma v’era qualcosa nel tono di quelle parole che mi riempì di un indescrivibile senso di terrore. Tornai a fissare attentamente il mio compagno. Aveva le labbra assolutamente bianche e le ginocchia gli tremavano tanto che non sembrava più in grado di reggersi in piedi. «Nel nome di Dio, Augustus», urlai allora, completamente atterrito, «cos’hai? Di che si tratta? Che cosa intendi fare?»

    «Fare?!», egli balbettò, in apparenza con la massima sorpresa. Poi, lasciata la barra, cadde bocconi sul fondo della barca, «Fare?… ma niente… non c’è niente da fare… stiamo tornando… tornando… non vedi?».

    Improvvisamente un lampo mi rivelò l’orrenda verità. Balzai su lui e lo sollevai. Era ubriaco, nel modo più completo, tanto da non esser più in grado né di stare in piedi, né di parlare o vedere. Volgeva su me occhi vitrei, e quando, al colmo della disperazione, lo lasciai andare, rotolò giù come un tronco nell’acqua del fondo, dalla quale lo avevo sollevato. Era evidente che, durante la sera, aveva bevuto assai più di quanto avessi pensato, e che la sua proposta a letto era stata il risultato d’una forma di ubriachezza altamente concentrata – una condizione che, come la pazzia, frequentemente permette alla vittima di assumere l’aria di una persona lucida e perfettamente a posto. Più tardi l’aria gelata della notte aveva sortito il suo solito effetto – l’energia mentale aveva cominciato a cedere sotto la sua influenza – e senza dubbio la confusa percezione che egli ormai aveva dalla nostra pericolosissima situazione non era servita che ad accelerare la catastrofe. Ormai era completamente insensibile e tutto lasciava pensare che tale sarebbe rimasto per parecchie ore.

    È quasi impossibile immaginare l’intensità del mio terrore. I fumi del vino recentemente bevuto avevano cominciato a svaporare, lasciandomi doppiamente timido e irresoluto. Sapevo che, per conto mio, non ero assolutamente in grado di governare la barca, e che un vento violentissimo e un forte riflusso cospiravano a spingerci verso la nostra fine. Alle nostre spalle si stava addensando un uragano, a bordo non avevamo né bussola né provviste ed era evidente che, se avessimo mantenuto quella rotta, prima che spuntasse l’alba non saremmo più stati in vista della terra. Questi pensieri, con una folla di altri ugualmente allarmanti, mi balenarono per la mente con sconcertante rapidità, e per alcuni istanti mi paralizzarono a tal punto da togliermi la possibilità di compiere uno sforzo qualsiasi. La barca solcava le acque a una velocità terrificante, fiocco e maestra portavano in pieno senza neppure un terzaruolo, sì che la prua era quasi completamente sommersa dalla spuma. Era un vero miracolo che non scuffiasse, perché Augustus, come ho già detto, aveva mollato il timone, e, nel mio stato d’agitazione, non avevo neppure pensato di impugnare io la barra. Per buona fortuna tuttavia la barca tenne il vento e, poco alla volta, io recuperai una certa presenza di spirito. Ma il vento aumentava in modo sempre più terribile, e tutte le volte che la barca, dopo essersi tuffata, si risollevava, il mare alle spalle investiva e spazzava il cassero, riempiendola d’acqua. Ero così completamente gelato in tutte le membra da non sentir quasi più nulla. Alla fine, col coraggio della disperazione, balzai sulla vela maestra e disarmai tutto. Come era da aspettarsi, la vela volò fuoribordo e, essendosi inzuppata, sradicò di schianto l’albero maestro. Fu solo questo incidente che ci salvò da rovina immediata. Non avendo che il fiocco fui in grado di bordeggiare, e se talvolta imbarcavo un’ondata, non mi trovavo più sotto il terrore d’una morte immediata. Impugnai dunque la barra e respirai con maggiore libertà, essendomi accorto che c’era ancora qualche possibilità di salvezza. Augustus giaceva sempre immobile nel fondo della barca e siccome correva pericolo di annegare da un momento all’altro (perché dov’era caduto vi era quasi un piede di acqua), cercai e infine riuscii a sollevarlo un poco e lo mantenni seduto passandogli un giro di corda attorno alla vita e fissandone l’altra estremità a un anello sul ponte della cabina. Disposto tutto il meglio che mi fu possibile, dato il mio stato d’animo e il gelo che mi irrigidiva, mi raccomandai a Dio e decisi che avrei sopportato qualunque evento con tutta la forza morale di cui disponevo.

    Avevo appena avuto il tempo di formulare questa risoluzione quando improvvisamente un acuto strido, un confuso urlio, come uscito dalle gole di centomila diavoli, parve invadere l’intera atmosfera attorno e sopra la nostra barca. Finché avrò vita non riuscirò mai a dimenticare l’agonia di terrore che esperimentai in quel momento. Mi si rizzarono i capelli, sentii il sangue congelarsi nelle vene, il mio cuore cessò completamente di battere e quando senza perdere neppure un istante sollevai gli occhi, per scoprire la causa del mio spavento, precipitai anch’io a testa in giù nell’interno della barca e giacqui insensibile sul corpo del mio compagno.

    Quando rinvenni mi trovavo nella cabina del Penguin, una grossa baleniera diretta a Nantucket. Mi circondavano parecchie persone curve su me, e Augustus, più pallido della morte, mi massaggiava le mani. Quando vide che schiudevo gli occhi, si abbandonò a tali esclamazioni di gratitudine e gioia da far ridere e piangere i presenti, gente tutt’altro che tenera. Il mistero della nostra sopravvivenza ci fu presto svelato. Eravamo stati investiti dalla baleniera, che navigava di bolina stretta e bordeggiava verso Nantucket, sfruttando tutte le vele che avevano avuto il coraggio di issare, e di conseguenza correndo in direzione quasi perpendicolare alla nostra. Parecchi uomini erano di vedetta a prua, ma non avevano visto la nostra barca se non quando era ormai impossibile evitare lo scontro e i loro gridi di avvertimento, lanciati non appena ci avevano scorti, erano appunto l’urlio che tanto mi aveva allarmato. Il grande legno, mi si disse, era passato senza difficoltà su noi, come la nostra barchetta sarebbe passata su una piuma, senza avvertire il minimo incaglio. Dal ponte del vascello investito non era giunto alcun grido e tra il ruggito del vento e del mare non era stato possibile percepire che un leggero stridore, nel momento in cui la fragile imbarcazione inghiottita si era soffregata contro la chiglia della nave investitrice, e questo era stato tutto. Pensando che la nostra barca (la quale, come si ricorderà, era disalberata) fosse qualche inutile rottame alla deriva, il capitano (capitano E.T.V. Block di New London) aveva intenzione di proseguire senza starci a pensar su più che tanto. Per fortuna due marinai di vedetta giurarono di aver visto qualcuno al timone e insistevano che forse sarebbe stato ancora possibile salvarlo. Ne seguì una discussione durante la quale Block, vivamente irritato, finì per dichiarare che non era il suo mestiere quello di star sempre a badare ai gusci di noce che incontrava, che il suo bastimento non avrebbe certo virato di bordo per una sciocchezza simile, e che se qualcuno era stato travolto nessuno ne aveva colpa, e tanto meno lui, e che quel tale poteva annegare e andare al diavolo, e altre frasi dello stesso genere. Ma Henderson, il secondo, a questo punto si fece avanti, giustamente indignato, al pari dell’equipaggio, da frasi siffatte, che rivelavano una atroce crudeltà. Visto che gli uomini dell’equipaggio lo sostenevano parlò chiaramente, spiattellando al capitano che lo considerava degno di pendere da una forca, e che l’avrebbe disobbedito anche se dovesse venir impiccato, nel preciso momento in cui metteva piede a terra. Poi si avviò verso poppa, scostando Block (che impallidì visibilmente, ma non disse più nulla) e, afferrando il timone, impartì a chiara voce l’ordine: «Barra di sottovento!». Gli uomini volarono ai loro posti e il bastimento virò di bordo. Tutto questo aveva richiesto circa cinque minuti, tanto che si pensava fosse ormai quasi impossibile salvar qualcuno, dato e non concesso che a bordo della barca si trovasse effettivamente qualcuno. Eppure, come il lettore già sa, tanto Augustus che io venimmo salvati, e il nostro salvataggio pare fosse dovuto a quei casi di incredibile fortuna che le anime sagge e timorate attribuiscono a uno speciale intervento della Divina Provvidenza.

    Mentre la baleniera era in panna il secondo fece abbassare il caicco e vi saltò dentro con due uomini, quelli stessi, credo, che avevano dichiarato di avermi scorto al timone. Si erano appena staccati a sottovento dalla murata (la luna splendeva sempre limpida) quando questa ebbe un lungo e greve rullio sopravvento e Henderson, in quel preciso momento, alzandosi nel suo sedile urlò alla ciurma di forzare addietro. Non diceva altro, non faceva che ripetere impaziente: «Forzate addietro, forzate addietro!». I marinai forzarono quanto più potevano, ma ormai il bastimento aveva completamente voltato di fianco e già si muoveva di prua, sebbene tutti i marinai a bordo compissero violenti sforzi per ridurre le vele. Allora, sebbene fosse cosa pericolosa, il secondo si afferrò alle grandi reggisartie, non appena queste si trovarono alla sua portata. Un altro violento colpo di rollio adesso portò la murata di tribordo fuor dell’acqua, sin quasi alla chiglia, e in quel preciso momento risultò ovvia la causa della sua ansietà. Videro infatti un uomo che, attaccato nel modo più singolare al fondo lucido e brillante del Penguin, che era rivestito e ribadito di rame, a ogni movimento dello scafo, vi picchiava violentemente contro. Dopo parecchi inutili sforzi, compiuti durante le rullate del bastimento e col rischio imminente di far colare a fondo il caicco venni finalmente liberato dalla mia pericolosa posizione e issato a bordo, perché quel corpo visto dal secondo era precisamente il mio. Pare che una delle caviglie dell’armatura, fuoruscita dal rame, mi avesse fermato, mentre passavo sotto il bastimento, e mi avesse fissato in modo così straordinario al suo fondo. La testa del bullone aveva perforato il colletto del mio giaccone verde di lana e mi s’era infilata nella nuca, venendo ad incastrarsi tra due muscoli, proprio sotto l’orecchio destro. Venni subito messo a letto, sebbene sembrassi ormai morto. A bordo non v’erano medici, ma il capitano mi trattò con ogni riguardo, forse, penso, per fare ammenda davanti all’equipaggio del suo atroce comportamento durante la prima parte dell’avventura.

    Nel frattempo Henderson si era di nuovo staccato dal bastimento, sebbene il vento ormai volgesse in uragano. Non erano trascorsi molti minuti, quando si imbatté in alcuni frammenti della nostra barca, e poco dopo uno degli uomini che si trovavano con lui asserì che riusciva a percepire un grido di aiuto, lanciato a intervalli tra la furia della tempesta. Questo indusse i tenaci marinai a perseverare nella loro ricerca per più di mezz’ora, nonostante i ripetuti ordini di tornare a bordo impartiti dal capitano Block e sebbene ogni momento trascorso in così fragile scialuppa fosse gravido di imminenti e mortali pericoli. Infatti non si riusciva quasi a immaginare come avesse fatto un caicco così fragile a restare in acqua senza esser subito fatto in mille pezzi. Era però stato costruito per la pesca alle balene e, come ho avuto più tardi motivo di credere, era fornito di camere d’aria, alla maniera delle barche di salvataggio usate lungo le coste del Galles.

    Dopo aver cercato invano, per il periodo di tempo che ho detto, avevano ormai deciso di tornare al bastimento, quando, proprio in quell’istante, percepirono un debole grido da un oggetto scuro che passò rapidamente davanti a loro. Lo inseguirono e non tardarono a raggiungerlo. Videro che era l’intero ponte della cabina dell’Ariel. Accanto vi era Augustus che si dibatteva debolmente e sembrava moribondo. Quando gli furono accosto, si accorsero che era attaccato per mezzo di una fune a quelle tavole galleggianti. Si ricorderà che io stesso gli avevo passato una fune attorno alla vita, fissandola a un anello per impedirgli di cadere. Questa mia precauzione, evidentemente, era stata proprio ciò che l’aveva salvato. L’Ariel era di costruzione leggera e, quando era affondato, s’era naturalmente sfasciato. Il ponte della cabina, come era prevedibile, era stato sollevato dall’impeto dell’acqua che entrava e completamente staccato dallo scafo. Aveva quindi galleggiato (con altri frammenti) e Augustus, che vi era legato, era stato portato a galla, così scampando a una morte terribile.

    Occorse più di un’ora, dacché era stato issato a bordo del Penguin, perché fosse in grado di dare informazioni sul suo conto o di capire la natura dell’incidente occorso alla nostra barca. Finalmente si destò del tutto e parlò a lungo delle impressioni che aveva avuto, mentre si trovava in acqua. Non appena riavutosi, si era trovato sott’acqua, che roteava con inconcepibile velocità, mentre una corda gli s’era attorcigliata due o tre volte intorno al collo. L’istante dopo si era sentito spinto rapidamente in alto, ma, andando a cozzare violentemente con la testa contro un oggetto duro, aveva nuovamente perso la conoscenza. Una seconda volta rinvenuto s’era trovato in possesso delle sue facoltà mentali, le quali tuttavia erano ancora assai confuse e annebbiate. Comunque a questo punto era riuscito a capire che c’era stato qualche incidente e che lui si trovava in acqua, sebbene ne emergesse con la bocca e potesse respirare abbastanza liberamente. Con ogni probabilità in questo momento il rottame correva rapido alla deriva, spinto dal vento, e si trascinava dietro il poveretto, che galleggiava sul dorso. Naturalmente, finché fosse stato in grado di mantenere questa posizione, gli sarebbe stato quasi impossibile annegare. Poco dopo una ondata lo sbatté attraverso il ponte ed egli cercò di mantenersi là sopra, lanciando di tanto in tanto un grido di aiuto. Poco prima che venisse scoperto dal signor Henderson era stato obbligato, per eccessiva stanchezza, ad allentare la presa ed era ricaduto in mare, e si era dato per perduto. Durante tutto questo tempo non aveva il più tenue ricordo dell’Ariel, né di quanto si riferiva alle cause del disastro. Un vago senso di terrore e disperazione si era impadronito delle sue facoltà mentali. Quando finalmente era stato raccolto, l’intelletto gli si era come annebbiato e, infatti, trascorse una buona ora a bordo del Penguin, prima che fosse in grado di rendersi conto della sua situazione. In quanto a me, venni richiamato in vita da una condizione assai prossima alla morte (dopo che ogni altro mezzo era stato tentato invano per tre ore e mezza) da una serie di vigorose frizioni con stracci di flanella inzuppati in olio bollente, procedimento che era stato suggerito da Augustus. La ferita al collo, sebbene d’aspetto impressionante, non era molto seria e non tardai a guarirne.

    Il Penguin entrò in porto verso le nove del mattino, dopo aver affrontato uno dei più tremendi fortunali che mai siano stati registrati nei pressi di Nantucket. Tanto Augustus che io riuscimmo a trovarci a casa del signor Barnard in tempo per la colazione, che per fortuna, dopo la festa della sera precedente, era stata servita un po’ più tardi del solito. Penso che a tavola fossero tutti piuttosto stanchi per notare l’aria esausta che avevamo noi due, e che naturalmente un esame attento avrebbe immediatamente rivelato. Tuttavia gli studenti sanno compiere dei miracoli, quando si tratta di ingannare, e io credo veramente che nessuno dei nostri amici a Nantucket abbia mai avuto il minimo sospetto che la terribile storia narrata da alcuni marinai della città, di aver speronato una barca in mare e aver mandato ai pesci dai trenta ai quaranta disgraziati, avesse qualche rapporto sia con l’Ariel che col mio compagno e con me. Noi due più tardi parlammo frequentemente di quell’episodio, e mai senza venir colti da un brivido. Una volta, infatti, Augustus francamente mi confessò che, in vita sua, non aveva mai esperimentato un così terribile senso di sgomento, come quella notte quando, a bordo della barchetta, aveva avuto improvviso sentore della propria ubriachezza, che stava per sommergerlo.

    Capitolo secondo

    In nessun caso, che si riferisca a malanni e pericoli, siamo in grado di trarre le conclusioni, avverse o favorevoli, con completa sicurezza, anche di fronte ai dati di fatto più semplici. Si potrebbe supporre che un’avventura, come quella che ho poco fa descritto, sarebbe riuscita a raffreddare la mia incipiente passione per il mare. Invece non sperimentai mai più ardente desiderio di affrontare i pericoli connessi con una vita marinara quanto durante la settimana che seguì il nostro miracoloso salvataggio. Questo breve periodo parve sufficiente a cancellare dalla memoria tutte le ombre e a far convergere la più vivida luce su tutti i piacevoli ed eccitanti aspetti, su tutto il pittoresco del recente pericoloso episodio. Le mie conversazioni con Augustus diventavano ogni giorno più frequenti e io ero sempre più interessato e ansioso. Possedeva un modo di narrare le sue avventure marine (più di metà delle quali, sospetto adesso, inventate di sana pianta) ben adatto ad aver successo con una persona che possedeva il mio entusiastico temperamento e la mia immaginazione piuttosto cupa sebbene ardente. È strano anche che egli riuscisse a meglio destare il mio entusiasmo per quella vita quando descriveva le sofferenze più terribili, gli attimi disperati. Per il lato piacevole delle sue descrizioni io avvertivo ben scarsa simpatia. La mia immaginazione amava attardarsi tra naufragi e atroci privazioni, scene di morte o prigionia tra orde barbare, evocava un’intera esistenza trascorsa tra lacrime e dolori, su qualche grigio e desolato scoglio, in un oceano vergine e sconosciuto. Siffatte visioni o desideri – perché esse assurgono allo stato di veri desideri – sono comuni, mi hanno assicurato più tardi, a tutta la numerosa razza dei giovani melanconici. Al tempo di cui parlo, io le consideravo solo come profetici lampi di un destino, che mi sentivo in certa misura designato a vivere. Augustus partecipava completamente del mio stato d’animo. È probabile infatti che la nostra intima comunione si fosse risolta in un parziale scambio di nature.

    Circa diciotto mesi dopo il naufragio dell’Ariel, la ditta Lloyd e Vredenburgh (una casa che aveva certi rapporti d’affari, credo, con gli Enderby di Liverpool) mise in riparazione il brigantino Grampus, armandolo per la pesca della balena. Si trattava di un vecchio legno, scarsamente in grado di tenere il mare, anche dopo che fosse stato fatto tutto il possibile per rimetterlo in ordine. Non riesco a capire perché fosse stato scelto quello, a preferenza di altri buoni vascelli, che appartenevano agli stessi armatori, ma così avevano deciso. Il signor Barnard ne ebbe il comando e Augustus si sarebbe imbarcato con lui. Mentre stavano facendo gli ultimi preparativi, egli frequentemente richiamava la mia attenzione sulla splendida occasione che mi veniva offerta di soddisfare il mio desiderio di viaggiare. Io non ero affatto sordo ai suoi inviti, ma il problema non poteva venir risolto facilmente. Mio padre non si opponeva in modo deciso, ma mia madre, al solo sentir parlare della cosa, veniva colta da attacchi isterici e, cosa più grave, mio nonno, dal quale tanto mi attendevo, aveva solennemente promesso che non m’avrebbe lasciato uno scellino, se avessi mai ardito anche solo menzionare la cosa in sua presenza. Queste difficoltà tuttavia, invece di attenuare i miei desideri, non servivano che a rinfocolarli. Infine decisi di partire in ogni caso e, avendo manifestato la mia intenzione ad Augustus, ci mettemmo a studiare un piano, per porre in atto i nostri propositi. Nel frattempo cessai di parlare coi miei parenti di quel viaggio e attendendo, apparentemente, ai miei soliti studi, tutti pensarono che avessi ormai rinunziato all’idea. In seguito ho avuto più volte occasione di esaminare la mia condotta in questo frangente con un senso di dolore non meno che di sorpresa. La raffinata ipocrisia a cui ricorsi per mandare a buon effetto il mio piano – un’ipocrisia che pervadeva ogni parola e ogni azione della mia vita e per un periodo di tempo così lungo – mi risultò tollerabile, soltanto in virtù della violenta e ardente aspettazione con cui anticipavo l’esaudimento delle mie avventurose visioni, così a lungo vagheggiate.

    Per secondare i miei piani strategici, dovetti necessariamente affidare molte cose alla cura di Augustus, che era occupato per la maggior parte del giorno a bordo del Grampus, dovendo badare, per conto di suo padre, ad alcune sistemazioni nella cabina e nella cala. Comunque, ogni sera non mancavamo di trovarci per un breve colloquio e per parlare delle nostre speranze. Dopo aver trascorso circa un mese in questo modo, senza essere riusciti a immaginare un piano che ci paresse promettente, egli mi disse infine di aver trovato ciò che faceva per noi. Io avevo un parente che viveva a New Bedford, un certo signor Ross, in casa del quale ero solito trascorrere due o tre settimane di fila. Il brigantino avrebbe dovuto salpare verso la metà di giugno (1827) e noi decidemmo che, un giorno o due prima, mio padre avrebbe ricevuto un biglietto dal signor Ross, che mi invitava ad andare a casa sua a trascorrere una quindicina di giorni con Robert e Emmet (i suoi figli). Augustus si sarebbe incaricato lui stesso di scrivere la lettera e di farla recapitare. Dopo che avessi fatto finta di partire per New Bedford, mi sarei presentato al mio compagno, che avrebbe pensato a trovarmi un nascondiglio a bordo del Grampus. Questo nascondiglio, mi assicurò, l’avrebbe preparato in modo che potessi starci comodamente per parecchi giorni, durante i quali non avrei dovuto farmi vedere. Quando poi il brigantino si fosse allontanato tanto da escludere in modo assoluto ogni possibilità di tornare in porto, io allora sarei stato ufficialmente installato e ammesso a tutti i comodi del quadrato e il padre, per conto suo, si sarebbe limitato a ridere allegramente della burla. Avremmo poi incrociato quanti vascelli volevamo, per mezzo dei quali mandare a casa una lettera, che informasse i miei genitori della mia avventura.

    Finalmente giunse la metà di giugno e tutto era pronto. La lettera venne scritta e recapitata, e un lunedì mattina io uscii di casa, lasciando credere a tutti che avrei preso il postale per New Bedford. In realtà mi recai subito da Augustus, che mi attendeva all’angolo di una strada. Secondo il nostro progetto primitivo io mi sarei tenuto nascosto sino a quando non fosse calata la notte e solo allora sarei salito clandestinamente sul brigantino. Essendo, però, favoriti da una densa nebbia, decidemmo di non perdere tempo. Augustus mi precedeva verso il molo, io lo seguivo a breve distanza, ravvolto in uno spesso gabbano da marinaio, che lui mi aveva portato, in modo che non fosse facile riconoscermi. Proprio mentre stavamo svoltando il secondo angolo, dopo esser passati davanti al pozzo del signor Edmund, in chi mai vado a incocciare se non nel vecchio signor Peterson, mio nonno, che mi si ferma dinanzi e mi squadra con la massima attenzione?

    «Sull’anima mia, Gordon», mi disse infine, dopo una lunga pausa; «ma cosa vuol dire? A chi hai portato via quel lurido gabbano?»

    «Signore», risposi io, assumendo come meglio potevo, date le esigenze del momento, un’aria di offeso stupore, e parlando nel modo più villano che seppi, «vi sbagliate alquanto, perché anzitutto, in primo luogo, non è che io mi chiamo Gordon, e poi voi farete meglio, mascalzone che non siete altro, a non dire che il mio gabbano nuovo è lurido!».

    Dovetti compiere degli sforzi per non schiantare dalle risa a vedere in che modo il vecchio signore accolse la mia villana risposta. Indietreggiò di due o tre passi, impallidì dapprima e poi avvampò d’ira, sollevò gli occhiali e li rimise a posto, infine mi corse incontro con l’ombrello in resta. Ma si fermò di colpo, nella sua corsa, come colpito da un improvviso ricordo e, subito dopo, fatto dietrofront si allontanò zoppicando per la strada, tutto scosso da impeti d’ira e borbottando tra i denti: «Non vanno… questi occhiali nuovi… credevo che fosse Gordon… mascalzone di un vecchio pirata farabutto…».

    Dopo essercela scapolata per un pelo, procedemmo con maggior attenzione e arrivammo sani e salvi alla nostra meta. A bordo non vi erano che due o tre marinai, verso prua, intenti a qualche lavoro intorno ai boccaporti della cambusa. Come noi sapevamo, il capitano Barnard era occupato negli uffici di Lloyd e Vredenburgh, dove sarebbe rimasto sino a tarda sera, così che avevamo ben poco da temere da parte sua. Augustus salì per primo a bordo, poco dopo io lo seguii, senza venir notato dai marinai che lavoravano. Andammo subito nel quadrato, dove non v’era nessuno. Tutto era sistemato con la massima comodità possibile, cosa piuttosto insolita per una baleniera. Vi erano quattro ottime cabine, con cuccette ampie e comode. Notai anche una grossa stufa e un tappeto assai spesso e pregiato, che copriva il pavimento sia del quadrato che delle cabine. Il soffitto si trovava a un’altezza di sette piedi; insomma, tutto mi sembrava assai più spazioso ed elegante di quanto mi sarei immaginato. Tuttavia Augustus non mi lasciò molto tempo per osservare quelle meraviglie, insistendo sulla necessità che io mi nascondessi il più rapidamente possibile. Mi condusse pertanto nella sua cabina, che si trovava a tribordo, a ridosso della paratia. Appena entrati chiuse la porta e tirò il chiavistello. Mi pareva di non aver mai visto prima una cameretta più accogliente di quella in cui mi trovavo allora. Lunga circa dieci piedi, aveva una sola cuccetta che, come ho già detto, era ampia e comoda. Nella parte più vicina alla paratia vi era uno spazio di circa quattro piedi quadrati, che conteneva un tavolo, una sedia, e, appesi, degli scaffali di libri, in genere libri di viaggi e avventure. Vi erano anche tante piccole comodità nella cabina, tra le quali non dovrei dimenticare una specie di armadio o ghiacciaia, dove Augustus mi indicò una quantità di leccornie, sia cibi che bevande.

    Dopo di che egli spinse con le nocche delle dita contro un certo punto del tappeto, in un angolo dello spazio poco prima menzionato, informandomi che una parte del pavimento, della larghezza di circa sedici pollici quadrati, era stata accuratamente segata e poi rimessa a posto. Come egli spinse, questa parte si sollevò sufficientemente per permettergli di insinuarvi sotto le dita. In questo modo aprì la ribalta della botola (nel punto in cui era stato fissato il tappeto per mezzo di bullette) e io m’accorsi che dava nella cala poppiera. Poi con un fiammifero accese una candela che sistemò in una lanterna cieca, e si infilò in quell’apertura dicendomi di seguirlo. Io gli ubbidii, ed egli allora ribaltò la portella, assicurandola all’apertura con un chiodo piantato sul lato inferiore, mentre naturalmente il tappeto riprendeva la posizione primitiva sul pavimento e ogni traccia dell’apertura restava nascosta.

    La lanterna emanava raggi così fiochi che solo con estrema difficoltà riuscii a tentoni a trovare una strada, tra la confusa congerie di oggetti che mi circondavano in ogni dove. Poco alla volta tuttavia gli occhi mi si abituarono a quella tenebra e io potei procedere con minor difficoltà, tenendomi stretto alle falde della giacca del mio amico. Il quale, dopo essersi infilato e aver girovagato tra innumeri passaggi, mi condusse infine davanti a una cassa con rinforzi in ferro, come quelle che vengono talvolta usate per imballare del vasellame costoso. Era alta quasi quattro piedi, lunga ben sei, ma molto stretta. Sulla sua sommità si trovavano due grossi barili da olio, vuoti, e sopra ancora una notevole quantità di stuoie di paglia che raggiungeva il soffitto. In ogni altra direzione era incastrato, così fittamente quanto era possibile, e sino a toccare il soffitto, un completo caos di quasi ogni specie di attrezzi marittimi, insieme con un eterogeneo campionario di gabbie, panieri, barili e balle, tanto che sembrava un vero miracolo che fossimo riusciti a rintracciare il passaggio che guidava sino alla mia cassa. Venni a sapere più tardi che Augustus, aiutato da un solo individuo, che non sarebbe partito col brigantino, di proposito aveva stivato in quel modo la cala, allo scopo di offrirmi un nascondiglio completamente sicuro.

    Quindi il mio amico mi fece vedere che uno dei lati della cassa poteva essere rimosso a volontà. Infatti lo fece scivolare di fianco e mi mostrò l’interno, che mi divertì molto. Il fondo, coperto da un materasso preso da una delle cuccette della cabina, conteneva quasi ogni articolo di conforto che si era potuto sistemare in così breve spazio, concedendomi al tempo stesso posto sufficiente per stare comodo, sia seduto che completamente disteso. Tra le altre cose vi erano libri, penna, inchiostro e calamaio, tre coperte, una grossa brocca piena d’acqua, un caratello di gallette, tre o quattro immense mortadelle, un enorme prosciutto, una coscia di montone arrostito, e sei o sette bottiglie di cordiali e liquori. Io senz’altro mi installai nel mio piccolo appartamento, e con un senso di soddisfazione maggiore, ne sono sicuro, di quello provato da qualsiasi monarca nell’atto di entrare in un palazzo nuovo. Augustus mi indicò il modo per fissare la parete mobile della cassa, e poi, accostando la candela al ponte, mi mostrò una funicella nera, stesa per terra. Mi informò che questa, partendo dal mio nascondiglio, seguiva tutte le necessarie circonvoluzioni tra gli oggetti della stiva, e finiva a un chiodo, che era piantato nel ponte della cala, immediatamente sotto la botola che dava nella sua cabina.

    Per mezzo di questa funicella sarei stato facilmente in grado di ritrovare la mia strada anche senza la sua guida, nell’evenienza che qualche imprevisto caso dovesse rendere necessario un simile passo da parte mia. Dopo di che si congedò, lasciandomi la lanterna, insieme a una certa quantità di candele e fiammiferi, e promettendo di venirmi a visitare tutte le volte che gli fosse possibile, senza correre il rischio di venire scoperto. Questo accadeva il 17 giugno.

    Io rimasi tre giorni e tre notti (almeno, da quanto potei giudicare) nel mio nascondiglio, senza mai uscirne se non due volte allo scopo di sgranchirmi le membra, mettendomi in piedi tra due gabbie, che si trovavano proprio davanti all’apertura della cassa. Durante questo periodo non vidi mai una volta Augustus, ma questo non mi causò alcuna apprensione, perché sapevo che il brigantino sarebbe partito da un momento all’altro e, nel trambusto, egli non avrebbe facilmente potuto trovare un momento propizio per scendere fino a me. Infine udii che la botola veniva aperta e chiusa, e poco dopo egli mi chiamò sottovoce, chiedendomi se tutto andava bene e se avevo bisogno di qualcosa.

    «Nulla», risposi io; «sto benissimo qui. Quando salperemo?»

    «Fra meno di mezz’ora», mi rispose. «Sono venuto a informartene, temendo che tu fossi un po’ preoccupato per la mia assenza. Per qualche giorno ancora non avrò la possibilità di venirti a trovare, magari per tre o quattro giorni. A bordo tutto va benissimo. Dopo essere salito e aver chiuso la botola segui la funicella e vieni dove è piantato il chiodo. Vi troverai il mio orologio, che ti potrà essere utile, dato che non puoi regolarti sul sole. Penso che non sai nemmeno da quanto tempo sei sepolto. Sono appena tre giorni, oggi ne abbiamo 20. Te lo porterei io stesso l’orologio, ma ho paura che notino la mia assenza!». Dopo di che risalì sopraccoperta.

    Circa un’ora dopo che si era ritirato avvertii chiaramente il moto del brigantino e mi congratulai con me stesso perché finalmente il viaggio era cominciato. Soddisfatto da questa idea, decisi di eliminare dalla mente ogni preoccupazione e di attendere il corso degli eventi, finché non mi fosse permesso di scambiare quella cassa con la sistemazione più spaziosa, ma difficilmente più comoda, del quadrato.

    La prima cosa cui pensai fu di andare a prendere l’orologio. Lasciata la candela accesa avanzai a tastoni nel buio, seguendo la funicella nelle sue innumerevoli giravolte, durante alcune delle quali scoprii che, dopo essermi allontanato notevolmente, mi ritrovavo alla distanza di un piede o due da una posizione precedentemente occupata. Finalmente raggiunsi il chiodo e, essendomi impadronito dell’oggetto per cui m’ero messo in viaggio, ritornai sano e salvo alla mia cassa. Dopo di che diedi uno sguardo ai libri, che così provvidenzialmente mi erano stati forniti, e scelsi il volume che narra la spedizione di Lewis e Clark alle foci del Columbia. Con questa lettura mi svagai per un certo tempo, poi,

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