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I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca
I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca
I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca
E-book1.741 pagine28 ore

I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca

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Info su questo ebook

GOETHE, I dolori del giovane Werther
HOFFMANN, Gli elisir del diavolo
KAFKA, Il processo
J. ROTH, La Marcia di Radetzky
MUSIL, I turbamenti del giovane Törless
ZWEIG, Novella degli scacchi
SCHNITZLER, Doppio sogno

Edizioni integrali

In questo volume sono raccolti sette gioielli della letteratura tedesca. Sette opere in cui la creatività letteraria ha toccato i suoi vertici. Si parte con Goethe e I dolori del giovane Werther, romanzo epistolare simbolo dello Sturm und Drang, che anticipa temi propri del romanticismo tedesco, in cui si entra appieno, con Gli elisir del diavolo di Hoffmann, matura rappresentazione della catastrofe che minaccia l’individuo se abbandona le certezze illuministe. Si prosegue con Il processo di Kafka, storia dai tratti surreali in cui un impiegato, Josef K., viene accusato, arrestato e processato per motivi che nessuno vuole rivelargli. Nel suo capolavoro La Marcia di Radetzky, Roth dà vita a un affresco di rara forza narrativa, in cui le vicende storiche dell’Impero austro-ungarico si intrecciano a quelle umane di una famiglia fedele sostenitrice dell’imperatore. Sempre all’interno della crisi della società mitteleuropea si iscrive I turbamenti del giovane Törless di Musil, storia dei tormenti e delle scoperte che accompagnano il superamento dell’adolescenza di uno studente e dei suoi compagni di collegio. Concludono il volume Novella degli scacchi, capolavoro dell’austriaco Stefan Zweig, le cui opere furono bruciate nei roghi nazisti, e Doppio sogno di Schnitzler, quasi una favola in bilico tra sogno e realtà, resa celebre dal film di Kubrick Eyes Wide Shut.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854152434
I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca
Autore

Franz Kafka

Franz Kafka (Praga, 1883 - Kierling, Austria, 1924). Escritor checo en lengua alemana. Nacido en el seno de una familia de comerciantes judíos, se formó en un ambiente cultural alemán y se doctoró en Derecho. Su obra, que nos ha llegado en contra de su voluntad expresa, pues ordenó a su íntimo amigo y consejero literario Max Brod que, a su muerte, quemara todos sus manuscritos, constituye una de las cumbres de la literatura alemana y se cuenta entre las más influyentes e innovadoras del siglo xx. Entre 1913 y 1919 escribió El proceso, La metamorfosis y publicó «El fogonero». Además de las obras mencionadas, en Nórdica hemos publicado Cartas a Felice.

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    Anteprima del libro

    I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca - Franz Kafka

    431

    Prima edizione ebook: maggio 2013

    © 2007 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5243-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    I magnifici 7 capolavori

    della letteratura tedesca

    Goethe, I dolori del giovane Werther

    Hoffmann, Gli elisir del diavolo

    Kafka, Il processo

    J. Roth, La Marcia di Radetzky

    Musil, I turbamenti del giovane Törless

    Zweig, Novella degli scacchi

    Schnitzler, Doppio sogno

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Avvertenza

    Le opere sono presentate in ordine cronologico in base alle date di nascita degli autori.

    Johann Wolfgang von Goethe

    I dolori del giovane Werther

    Introduzione di Emanuele Trevi

    Con un saggio di Giorgio Manacorda

    Titolo originale: Die Leiden des jungen Werthers. Traduzione di Angelo G. Sabatini e Anna Maria Pozzan.

    Werther: il romanzo come malattia

    Passato poco più di un mese dall’incontro con Lotte, e già irrimediabilmente intrappolato nei lacci della sua passione (passione fatale se mai ce ne furono), Werther annota un sintomo secondario, ma straordinariamente rivelatore, di quella che è diventata la sua esistenza considerata come malattia. Nonostante l’abilità e l’esercizio, confessa nella lettera al fidato Wilhelm del 24 luglio 1771, sta disimparando a disegnare. Mai ha vissuto giorni così felici, nel pieno rigoglio dell’estate e dell’amore, mai ha sentito con tanta intensità e intimità la presenza della natura. L’estasi è tale che basta un singolo filo d’erba a parlargli in nome del Tutto. Eppure – Werther non sa come esprimersi più esattamente con l’amico – il suo potere di rappresentazione si è indebolito, e la tecnica del disegno, intesa in senso stretto, non è sufficiente a ridargli vigore. Di fronte al suo spirito, tutto diventa instabile, ondeggiante, incline alla sparizione. La mano, che dovrebbe seguire i contorni di un’immagine interiore sufficientemente stabile nella memoria, non riesce a tracciare un’immagine attendibile dell’amata. Per ben tre volte Werther ci ha provato. Tre volte gli eroi dell’epica antica tentano di abbracciare la parvenza delle persone amate prima di rendersi conto che si tratta di spettri. Non è escluso che Goethe, assiduo lettore di Omero e Virgilio, volesse alludere a questa patetica situazione classica. Quello che è certo è il disordine interiore di Werther, manifestato senza ombra di dubbio dalla perdita dell’abilità di disegnare.

    Quando compone I dolori del giovane Werther, all’inizio del 1774, il ventiquattrenne Goethe è ancora tentato dalla carriera di artista. E il disegno, incoraggiato dal padre fin dall’infanzia e praticato a un ottimo livello tecnico, rimarrà sempre per lui una fonte di grande soddisfazione creativa, come ben sanno i lettori del Viaggio in Italia. Vale a dire che l’evocazione di questo particolare impedimento di Werther non è affatto casuale. È implicito nell’atto stesso del disegnare un certo grado di serenità, di equilibrio interiore, di armonia tra lo spirituale e il corporeo. L’esattezza della linea è una posta in gioco, e insieme un metodo. È il segno di una vittoria: l’astrazione rende leggibile il mondo, riducendolo a un contorno sul quale a chi lo osserva è possibile esercitare i suoi diritti. Come il pensiero logico, come le regole geometriche, come la musica, il disegno è in un certo senso un gesto di appropriazione. L’indomabile opacità e complessità delle apparenze, provvisoriamente catturata in un sistema di segni, scende a compromesso, per così dire, con le esigenze del soggetto – questo perenne ostaggio dei fenomeni. Ma Werther non può più godere di un tale privilegio. E se la notte del suicidio è ancora molto lontana, qualunque minuscolo sintomo ci avverte che il male è all’opera: bisognerà solo dargli tempo di impadronirsi totalmente di questo nuovo tipo di eroe – un eroe malato. Perché ogni patologia ha un suo ciclo, dal primo manifestarsi alle estreme conseguenze. E dunque, ha bisogno di un determinato tempo, che non può essere considerato una circostanza causale e accessoria. Al contrario, di ogni male noi possiamo accertare la peculiare lunghezza del decorso. Per dirla nella più semplice delle maniere: sarebbe assurdo raccontare la storia di Werther facendolo suicidare una settimana dopo l’incontro con Lotte, e sarebbe ugualmente assurdo inchiodarlo alla sua sofferenza, mettiamo, per dieci anni. Invece, che dall’incontro con Lotte al colpo di pistola risolutore passi all’incirca un anno e mezzo, è perfettamente verosimile. Il genio di Goethe ha ricavato ogni possibile conseguenza poetica da questo fatto bruto.

    A parte un breve numero di lettere mandate a Wilhelm prima dell’incontro con Lotte alla festa campestre, che fanno da necessario prologo, mostrandoci il carattere dell’eroe quando è ancora libero dalla passione fatale, il tempo narrativo coincide esattamente con il decorso della patologia che viene descritta. L’uno rafforza la credibilità dell’altro, con il risultato che quello che teniamo per le mani può ancora essere considerato, a tanta distanza di tempo, uno dei più perfetti e convincenti risultati nell’intera storia del romanzo occidentale. E se è vero che imparare la lezione di un grande libro vuol dire ben altro che riproporne gli argomenti e la tonalità psicologica, per trovare qualcuno che abbia veramente appreso qualcosa di essenziale dal libretto di Goethe bisognerà andare molto oltre la generazione romantica degli Ortis, dei René e degli Adolphe. È il Kafka del Processo, semmai, quello stesso Kafka che nutriva per Goethe una specie di venerazione religiosa, ad avere assimilato alla perfezione il modello narrativo wertheriano, fondato sull’irreversibile e l’ineluttabile. Dal momento in cui si avvia un procedimento nei suoi confronti, Josef K. è perduto esattamente come Werther mentre contempla la prima volta Lotte circondata da fratellini e sorelline. In entrambi i casi, è solo questione di tempo. In entrambi i casi, la sfida artistica consiste nel rendere verosimile il tempo – ancora più che i caratteri e le situazioni.

    Torniamo ancora brevemente sulle difficoltà incontrate da Werther, candidato di fresca nomina alla catastrofe, nel disegno. Più che la matita, vorrebbe avere per le mani un materiale plasmabile, come la cera o la creta. Anche se non verrebbero fuori, probabilmente, che delle «torte» come quelle dei bambini, Werther vorrebbe fare come il Tristano della leggenda medievale, che consola la sua solitudine scolpendo la statua di Isotta. Ma è semmai un altro tema della leggenda, quello della follia di Tristano, che può essere evocato con pertinenza a proposito dell’eroe di Goethe. Se non sa disegnare o modellare, non per questo Werther è estraneo al potere delle immagini. Al contrario, l’immagine di Lotte si è accampata in lui come un esercito conquistatore, sbriciolando le difese, annichilendolo. È quasi inutile dire che questa immagine, questo fantasma del desiderio, non rende più conto della persona amata in maniera obiettiva e condivisibile. Nemmeno Albert, che pure ama Lotte e la sposa, potrà mai vederla attraverso la lente sublimante, lo specchio ustorio di Werther. Ciò potrebbe essere detto di qualunque innamorato; e soprattutto di coloro che, non ricambiati, sono condannati a consumarsi in fantasie prive di sbocco. Goethe pesca volentieri in una realtà psicologica empirica, fin troppo universale, ingrandendola però fino a farne un potente fattore di isolamento. Tra le sue tante caratteristiche, l’amore di Werther per Lotte possiede in sommo grado quello di essere incomprensibile al prossimo. Non lo capiscono né Wilhelm né Albert, e non lo capisce Lotte, che addirittura (supremo sacrilegio!) pensa a un’amica capace di deviare e incanalare quella passione in modo più gratificante... L’incomprensione di Lotte è la più grave, perché è innegabile che tra lei e Werther una certa corrente di tenerezza (complici anche le continue assenze di Albert per lavoro) abbia iniziato a scorrere fin dal primo incontro. Portando il ragionamento fino alla sua conseguenza estrema e paradossale (ma è la natura del romanzo a suggerirlo), possiamo affermare che nemmeno Werther capisce se stesso, e ciò renderà inevitabile il suicidio. Indubbiamente, ama più il sentimento in sé che l’oggetto di questo sentimento.

    Nessuno ha descritto meglio di Roland Barthes questo peccato originale, in una pagina dei Frammenti di un discorso amoroso, che consistono in gran parte, vale la pena ricordare, in un acuto e sensibile commento al romanzo di Goethe. Lotte in realtà è «scialba», osserva Barthes all’inizio di un capitolo dei Frammenti intitolato Amare l’amore, e dedicato all’«accesso di linguaggio durante il quale il soggetto giunge ad annullare l’oggetto amato sotto il volume dell’amore stesso». Lotte, prosegue il grande critico francese, «è il meschino personaggio di una messa in scena vigorosa, tormentata, sfavillante, allestita dal soggetto Werther; in virtù d’una sovrana decisione di questo soggetto, un oggetto insignificante viene posto al centro della scena, e là viene adorato, incensato, chiamato in causa, coperto di discorsi, di preghiere (e forse, segretamente, d’insulti); si direbbe che essa sia una grossa colomba, immobile, tutta chiusa nelle sue penne, con un maschio un po’ matto che le gira intorno». Non si potrebbe descrivere meglio questo peccato così wertheriano, che è l’amore dell’amore. Ma se i comprimari del dramma, come abbiamo segnalato, non sono in grado di comprendere l’eccesso di soggettività di Werther, è lecito porsi un’altra domanda: l’autore capisce il suo personaggio? Fino a che punto, insomma, Goethe si confessa in Werther? Non si tratta di una curiosità pettegola: nell’ambiguo rapporto tra l’autore e il suo personaggio, in quella pericolosa dialettica fra repulsione e identificazione, risiede forse il segreto più intimo dell’efficacia del romanzo, della sua capacità di erigersi a modello d’esistenza e sensibilità, della sua stupefacente forza di persuasione.

    Come nei calderoni dei maghi delle fiabe, anche nei Dolori del giovane Werther, questa specie di prodigio in forma di romanzo, entrano i più diversi ingredienti, per trasformarsi in qualcosa di imprevisto e rivelatore. Si può partire (come facevano tanti contemporanei) dalla considerazione di eventi privati che hanno segnato la biografia sentimentale del giovane Goethe nel periodo precedente alla stesura del romanzo. Per almeno due volte, Goethe si ficca in una classica situazione triangolare, che comprende l’amante, l’amata e un (marito) o fidanzato legittimamente geloso. Fino a un certo punto, insomma, si comporta come farà il suo Werther.

    Ai vertici del primo triangolo, oltre a Goethe ci sono Charlotte Buff e Johann Georg Christian Kestner, che gli rimarranno abbastanza amici anche dopo lo scandalo suscitato dalla pubblicazione del romanzo. A Charlotte/Lotte non venne nemmeno concesso un prudente cambio di nome, a suggello di un ritratto letterario pieno di particolari ben riconoscibili e desunti dalla realtà del modello. L’incontro con la Buff risale al 1772, quando Goethe compie un ultimo e infruttuoso tentativo di intraprendere una carriera giuridica, presso la Suprema Corte dell’impero germanico di Wetzlar, cittadina che offre poche attrazioni (a parte gli amori) ma è circondata dal bellissimo paesaggio che verrà presto immortalato nel romanzo. Sul piano della realtà, però, la vicenda si conclude il 10 settembre con l’improvviso ritorno a Francoforte, preceduto da un commovente addio ai fidanzati. Nel romanzo di Werther, che non si prende nemmeno la briga di cambiare le date, questa separazione segna solo la fine della prima parte. Werther insomma compie l’errore che gli sarà fatale, quello di tornare indietro, non potendo sopravvivere senza Lotte. È una mossa autodistruttiva che Goethe invece non farebbe mai, ma che è necessaria al romanzo nel suo procedere verso lo scioglimento tragico. È un caso molto interessante, si deve ammettere, di rapporto tra autore e personaggio. Fino a un certo punto, il rispecchiamento dell’uno nell’altro è addirittura pedante. Poi però il primo compie delle scelte legate a una specie di istinto di conservazione, mentre il secondo, in qualche modo più coerente, procede verso la catastrofe. Non che manchino i modelli reali anche sul versante dell’autodistruzione.

    Poco dopo il ritorno a Francoforte, il fedele Kestner aveva spedito a Goethe una lettera che conteneva precisi ragguagli sulla morte per suicidio (la notte tra il 29 e il 30 ottobre del 1772) di un comune amico di Wetzlar, Karl Wilhelm Jerusalem, figlio di un famoso teologo, animo sensibile e inconsapevolmente wertheriano. I particolari forniti da Kestner, come quello delle pistole chieste in prestito per la bisogna, confluiranno interamente nel romanzo di Goethe. Il buon Kestner avrà avuto la sensazione di essere piombato in un mondo di idioti: anche Jerusalem si era innamorato di una donna già impegnata, la moglie di un certo Herdt, funzionario della Suprema Corte. Goethe, invece, leggendo la celebre lettera-reportage, dovette rabbrividire più di una volta. A differenza di Kestner, provava di sicuro un sentimento più complesso della semplice pietà per il giovane sventurato. In Jerusalem, insomma, non vedeva un essere totalmente diverso da sé, e dunque incomprensibile. Sarebbe stato bello tacitare la coscienza in questo modo: ma le cose non stavano così. Goethe aveva fatto in tempo a tirarsi indietro, certo, ma il canto di quelle sirene lo conosceva, quell’accordo di amore e morte vibrava nelle cavità del suo intimo con profonde e non casuali risonanze... In questo senso, Werther si potrebbe davvero definire l’ombra di Goethe, nel senso che a questo termine conferisce la psicologia di Carl Gustav Jung. Un altro grandissimo romanziere, Joseph Conrad, direbbe che il personaggio è il compagno segreto dell’autore. L’uno realizza una pulsione di morte dal quale l’altro, giunto a un bivio, si ritira. Preferendo, magari, cosa del tutto impensabile per Werther, trovarsi invischiato in un nuovo triangolo: che è esattamente quanto accade poche settimane dopo il provvidenziale rientro da Wetzlar a Francoforte. In questa nuova situazione il ruolo del geloso spetta a Peter Anton Brentano, padre di due protagonisti della stagione romantica, Clemens e Bettina. Molto meno gentile di Kestner, Brentano non ci pensa due volte a mettere alla porta Goethe, quando l’amicizia con sua moglie, Maximiliane La Roche, inizia a diventare imbarazzante e a suscitare pettegolezzi indesiderati. Ancora una volta, però, Goethe dimostra di essere fatto di una pasta ben diversa da quella del suo Werther. Qualche lacrima, ma niente drammi. E i tempi, in quei primi mesi del 1774, sono ormai maturi per dedicarsi alla scrittura.

    Insistere su certi dettagli biografici che fanno corona ai Dolori del giovane Werther non significa affatto negare la presenza di innumerevoli modelli letterari all’interno del romanzo. Parlando nel 1938 a Princeton della coppia formata da Werther e Lotte, Thomas Mann aveva ragione nel collocarli «nel corteo delle classiche coppie amorose della poesia e della leggenda», assieme a «Petrarca e Laura, Romeo e Giulietta, Abelardo ed Eloisa, Paolo e Francesca». È tanto più giusta, l’osservazione di Mann, quanto più anche le altre celebri coppie citate si rendono colpevoli (in misura più o meno drammatica) di passioni proibite e impossibili.

    Che il romanzo di Goethe sia letteralmente intriso di letteratura, dalla prima all’ultima pagina, non è in contraddizione con la sua capacità di registrare, interpretare, sublimare accadimenti reali. Potremmo dire che a monte del testo, così come lo leggiamo, c’è una specie di Grande Codice fatto di parole scritte ed esperienze vissute, le une o le altre sullo stesso piano di dignità. La letteratura si ispira alla vita e, con un incessante moto circolare, questa torna a modellarsi attingendo alle pagine dei libri. Prima di spararsi, Werther stesso beve un bicchiere di vino e sfoglia per l’ultima volta l’Emilia Galotti di Lessing. Ma anche Goethe, i suoi amici, i suoi amori, l’infelice Jerusalem, non facevano che modellare il testo della vita sul testo letterario. Quando ci si interroga sull’enorme forza persuasiva del romanzo di Goethe, esercitata su generazioni di lettori in ogni angolo d’Europa, bisognerà allora ricordare questa legge fondamentale: ciò che esercita un così altro grado di influenza è a sua volta sommamente influenzabile, permeato di tutte le correnti emotive, simboliche, intellettuali del suo tempo. Ben presto, e fino ai nostri giorni, l’idea di Werther non poté più essere dissociata da quella dei suoi tanti emuli, che lo seguirono sulla strada della morte volontaria, tenendo in mano il suo romanzo proprio come lui aveva tenuto in mano l’Emilia Galotti di Lessing. Censori, educatori, governanti se ne preoccupavano come di un nemico più potente di un esercito straniero e più insidioso di una malattia epidemica. Valgano per tutti le parole di un funzionario veneto ai tempi della dominazione austriaca: «romanzo di mano maestra», si riconosce lealmente al libro di Goethe, «ma tende artificiosamente a renderci insopportabile l’esistenza; e in tal modo scuote le fibre del cuore, che può essere cagione di terribili conseguenze».

    Ci sono anche altri aspetti imitativi, incomparabilmente meno pericolosi, dal punto di vista morale e sociale, del suicidio. Certi vestiti uguali a quelli indossati dall’eroe innamorato, addirittura un profumo, l’Eau de Werther... Nella loro innocenza di semplici gadget, questi sono indizi di un potere di suggestione anche più perturbanti dei gesti estremi. Trasformate un’idea letteraria in un profumo, e avrete la misura di un potere capace di metterne in crisi molti altri, di evidenziare discontinuità e fratture anche nei tessuti sociali e nelle tradizioni che più si ritenevano immutabili e inviolabili. Si può dire che prima dei Dolori del giovane Werther, solo La nouvelle Héloïse di Rousseau (pubblicata nel 1761) era stata capace di intrattenere con i suoi lettori un tale rapporto di persuasione, capace di modificarne il carattere e la visione del mondo. Come ha dimostrato lo storico Robert Darnton in un suo ormai celebre saggio sui lettori di Rousseau e la formazione della sensibilità romantica, «un antico stile di lettura religiosa» viene applicato a «nuovi materiali» profani come il romanzo. La letteratura, insomma, pur essendo un prodotto secolare, si arroga quel potere di conversione che fino ad allora era stato la prerogativa del testo sacro. Nello sviluppo di questa formidabile rivoluzione, i cui effetti non sembrano del tutto conclusi nemmeno al giorno d’oggi, il romanzo di Goethe ha giocato un ruolo decisivo, non limitandosi ad accettare supinamente l’eredità di Rousseau, ma, per così dire, alzando la posta in gioco in maniera tanto ardita da lasciare stupefatti. Perché i lettori di Rousseau, se si sposavano e allevavano i figli ricavando valori, orientamenti, e perfino nomi di battesimo dalla Nouvelle Héloïse, aderivano pur sempre a un sistema di valori, rivoluzionario quanto si vuole, ma pur sempre basato su solidissime virtù e certezze morali.

    Non si può affermare la stessa cosa adoperando alla stregua di un vangelo le lettere del povero Werther. Lo ha spiegato da par suo Isaiah Berlin, dichiarando che «la morte di Werther fu completamente inutile». Il suo sacrificio, secondo il grande storico delle idee, si consuma infatti all’interno di una società che non è in grado di trarne nessun vantaggio, perché non può capirlo. Werther è il capostipite di una «lunga serie di uomini superflui» che conta tra i suoi membri molti protagonisti di romanzi celebri, dal René di Chateaubriand allo Zivago di Pasternak. La solitudine dei suoi funerali («nessun prete lo accompagnò», come suona la celebre ultima frase del libro) può essere eletta a emblema e a rito di fondazione di un nuovo clima spirituale, nel quale nemmeno la morte è in grado di riconciliare le ragioni dell’individuo e quelle della società. E non era certo una questione di morale cristiana pura e semplice. Nessun giovane greco e romano, aveva osservato Lessing, al quale i Dolori non erano affatto piaciuti, sarebbe arrivato all’estremo di un suicidio per motivi così futili. Ma è proprio questa critica a rivelarci la grandezza dell’invenzione di Goethe. Non più le virtù, ma la debolezza, lo spreco del talento, lo smarrirsi nei propri stessi errori, l’incapacità di vivere come gli altri, diventano, con Werther, i tratti distintivi dell’eroe. E da allora in poi, gli scrittori dovranno imparare a occuparsi, più che della lontananza del sublime, di ciò che è fin troppo simile a noi, e che, volenti e nolenti, siamo costretti a riconoscere come la nostra ombra, il nostro sintomo, la nostra verità inespressa.

    EMANUELE TREVI

    Riferimenti bibliografici

    Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso (1977), trad. di Renzo Guidieri, Torino, Einaudi, 1979.

    Isaiah Berlin, Le radici del Romanticismo (1965), trad. di Giovanni Ferrara degli Uberti, Milano, Adelphi, 2001.

    Stefano Calabrese, «Wertherfieber», bovarismo e altre patologie della lettura romanzesca, in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, vol. I, La cultura del romanzo, Torino, Einaudi, 2001.

    Italo Alighiero Chiusano, Vita di Goethe, Milano, Rusconi, 1981.

    Robert Darnton, I lettori rispondono a Rousseau: la costruzione della sensibilità romantica, in Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese (1984), a cura di Renato Pasta, Milano, Adelphi, 1988.

    Thomas Mann, Il Werther di Goethe (1938), in Dialogo con Goethe, a cura di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1955.

    Ladislao Mittner, Il «Werther», romanzo antiwertheriano (1950), in La letteratura tedesca del Novecento e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960.

    Guido Morpurgo Tagliabue, La lettura del Werther come introduzione a qualsivoglia opera di Goethe (1985), in Goethe e il romanzo. Tre saggi, Torino, Einaudi, 1991.

    Morte per amore o amore per la morte?

    Sul più famoso romanzo del più famoso scrittore tedesco sono stati versati fiumi di inchiostro per dimostrare che si tratta di un romanzo sociale (eversione della morale corrente), e sotto sotto politico (l’insofferenza wertheriana verso la nobiltà), o storico o, per meglio dire, di un documento delle condizioni in cui versava la borghesia in Germania die­ci-quin­dici anni prima della Rivoluzione francese. Ma non sarà addirittura un romanzo filosofico? E, allora, sarà più importante l’influenza di Rousseau (che aveva scritto un romanzo epistolare) o di Spinoza, rintracciabile nel panteismo del giovane Goethe? Per non parlare delle interpretazioni religiose o addirittura misticheggianti – quante volte Werther è stato paragonato a Cristo? E, inoltre, trattandosi del più importante romanzo dello Sturm und Drang, sarà da considerare pre-romantico o post-illuminista?

    Si potrebbe seguitare a elencare le interpretazioni e i problemi che sono stati rovesciati sulle spalle di questo piccolo libro scritto da un ragazzo di venticinque anni. Goethe, alla fine, voleva scrivere un romanzo d’amore – e questo ha fatto, il resto viene dopo. Eppure quello che ci hanno visto critici letterari, critici della cultura, filosofi, psicologi, storici e sociologi è in larga parte plausibile. La grandezza del primo romanzo di Goethe è proprio nel fatto che, parlando d’amore, parla di tutto. D’altronde, la ricchezza dei significati non è tipica dei grandi capolavori? Quindi, anche in questa piccola introduzione non sarà possibile prescindere da tutto il resto; ma cercheremo di concentrare la nostra attenzione sui protagonisti, limitandoci a leggere I dolori del giovane Werther come un romanzo d’amore.

    Wilhelm

    Werther scrive delle lettere all’amico Wilhelm, lettere in cui racconta il proprio infelice amore per Lotte. Benché dietro ci sia una storia vera – il rapporto del giovane Goethe con Lotte Buff, poi Kestner – si tratta di un manufatto letterario. La forma romanzo epistolare era di gran moda nel Settecento, basti pensare alla Pamela di Richardson o alla Nouvelle Héloïse di Rousseau o, per limitarsi all’ambito tedesco, ai romanzi di Gellert, di Hermes, di Musäus e di un’amica di Goethe, Sophie von La Roche. Ma il Werther non è costruito come uno scambio epistolare. Goethe introduce una novità di grande rilievo: riporta solo le lettere del protagonista. Non ci sono le risposte dei suoi interlocutori (quasi esclusivamente Wilhelm, solo quattro o cinque sono indirizzate a Lotte e ad Albert). Siamo, quindi, davanti a un romanzo epistolare che somiglia molto a un diario, il che ha consentito a Goethe di adottare l’ottica di Werther in modo radicale, mascherandola, però, da scambio con l’esterno. Il mondo è filtrato dagli occhi del protagonista, la sua emotività deborda e plasma persone, cose, eventi e paesaggi – e nulla la può fermare o solo imbrigliare, perché anche Wilhelm, che in qualche modo rappresenta il principio di realtà, è raccontato, contestato, disinnescato da Werther. Le sue lettere non compaiono, e Wilhelm è come se non entrasse mai veramente in scena. Forse non è altro che il fantasma di una coscienza positiva, saggia; se non addirittura l’immagine latente del padre che, come tutti i padri, indica ciò che si dovrebbe fare. Werther, scrivendo della propria decisione di smettere di lavorare, si rivolge a Wilhelm al plurale, accomunandolo alla madre: «Voi prorompereste di nuovo in lamenti». E due mesi dopo prevede – come si prevedono le ramanzine paterne – la reazione di Wilhelm alla notizia che non riesce a fermarsi neanche dal principe ereditario: «Di’ pure ciò che credi, ma io non posso continuare a restare in questo luogo».

    Se Wilhelm parlasse in prima persona, le sue lettere sarebbero un insieme di saggi consigli di tipo morale o, forse, moralistico. Esortando Werther a svolgere un’attività retribuita, egli consigliava a un disadattato l’acquisizione disciplinata della sua posizione di borghese: «Nella Germania divisa in staterelli per lo più impotenti, il compromesso tra la nobiltà e la piccola borghesia consisteva essenzialmente in questo, che quella occupava i posti più alti e questa i posti più bassi dell’amministrazione». La situazione storica descritta da Lukács ha la sua incarnazione in Wilhelm, la cui solida visione della vita coincide con la saggia morale dell’accettazione. Il rifiuto wertheriano di sottostare alle regole ha significato, tra l’altro, la rottura di un’amicizia nascente, quella con il conte di C., che per un certo periodo ha significato molto nella vita di Werther.

    Wilhelm, oltre a essere una finzione letteraria, cioè il necessario destinatario delle lettere (del quale bisogna limitare l’azione scenica a una latente funzione di contrappunto, affinché non sovrasti il personaggio principale) è, come abbiamo accennato, una sorta di coscienza del protagonista. Non è un caso che Wilhelm parli attraverso le parole di Werther. In che altro modo infatti potrebbe esprimersi la coscienza di un individuo, se non attraverso le parole dell’individuo stesso nel momento in cui discute e contesta ciò che la propria coscienza cerca di imporgli?

    Wilhelm, proprio perché non esiste in maniera definita come personaggio, finisce con essere portatore dei valori dell’ordine costituito. Se Albert è il borghese descritto come tale (anche nei suoi aspetti positivi), Wilhelm è l’anima filistea che agisce dentro e fuori di noi e, come una sirena, ci richiama alle gioie dell’integrazione. Se è vero che la fisionomia di Wilhelm deve sempre essere desunta dalle parole di Werther, non è sicuro che il destinatario delle lettere esista. La necessità di mantenere questa ambiguità; la repulsione del giovane scrittore per l’aspetto moralistico della logica di Wilhelm; la resistenza goethiana a personificare un’idea astratta come la coscienza; il ruolo paterno cui assolve Wilhelm – ruolo che può esistere, e contemporaneamente essere rimosso, solo a patto di non essere troppo definito: una presenza tanto forte e vicina da potere o dovere punire –; la necessità della finzione letteraria. Tutte queste funzioni che sono Wilhelm si oppongono alla sua entrata in scena. Wilhelm, che sembrerebbe esprimere il sentimento dell’amicizia, è un’astrazione. Egli è portatore di significati che sono in contrasto con la figura di un amico che partecipi delle sofferenze e delle azioni del protagonista da una posizione di schietta partnership.

    Lotte

    Nel crescendo della seconda parte del Werther, di pagina in pagina, Lotte viene sempre più coinvolta in un rapporto fatto di colpevoli silenzi e di complicità inconfessate; coinvolta fino alla reticenza se, in preda all’angoscia, non racconta ad Albert la scena del bacio. Un bacio che Lotte a mente fredda non avrebbe mai subito e a cui, soprattutto, non avrebbe mai partecipato. Il candore e l’onestà di Lotte vengono lentamente minati dal pavido amore di Werther, che immagina che sia lei, invece, a creare le condizioni del disastro finale: «Lei non vede, non s’accorge che sta preparando un veleno che ci trascinerà entrambi in un abisso». Questo passaggio della lettera del 21 novembre 1772, oltre a essere sintomatico della passione malata con cui Werther investiva la vita dell’amata, è una spia della sapienza goethiana nella costruzione del romanzo e delle sue rispondenze interne. Si tratta di una prefigurazione del tragico epilogo: non solo Werther muore d’amore per Lotte, e quindi si può considerare (almeno in interiore cordis) Lotte causa del suicidio, ma sarà lei a offrire a Werther «il calice della morte», cioè la pistola. Goethe risolve in narrazione la fantasia wertheriana di essere ucciso da Lotte:

    L’apparizione del domestico di Werther la mise in grande agitazione; questi porse il biglietto ad Alberto che si voltò tranquillamente verso la moglie dicendole: «Dagli le pistole». E al ragazzo disse: «Gli auguro buon viaggio». Carlotta rimase colpita come da un fulmine; si alzò vacillando, senza sapere che cosa le stesse accadendo. Si avvicinò lentamente alla parete, prese le armi, le spolverò, esitò e avrebbe indugiato a lungo se Alberto non l’avesse sollecitata con uno sguardo indagatore. Consegnò al domestico l’arma fatale senza dire una parola, e quando il ragazzo fu uscito, ripiegò il lavoro e andò in camera sua in preda a una inesprimibile angoscia. Il cuore le faceva presagire tutti gli orrori. Voleva gettarsi ai piedi di suo marito e raccontargli tutto: la storia della sera prima, la sua colpa, i suoi timori; ma poi pensava che sarebbe stato inutile e che mai avrebbe potuto spingere suo marito a recarsi da Werther.

    A conferma del coinvolgimento di Lotte nella passione di Werther analizziamo rapidamente il sapiente crescendo della seconda parte del romanzo. Nella lettera del 24 novembre, la partecipazione di Lotte viene enunciata in forma soggettiva e indiretta, attraverso Werther. Segue il 24 novembre un’affermazione dello stesso tipo e, pochi giorni dopo, una testimonianza soggettiva e diretta: «Lei non sta bene, Werther», esclama Lotte. Dopo queste due testimonianze soggettive, enunciate da Werther o da Lotte, Goethe introduce la voce obiettiva dell’editore, obiettiva non solo perché di persona che non partecipa al dramma, ma anche perché narra a dramma consumato. L’editore ricorda come Werther turbasse la pace di Lotte, e come lei cercasse di difendersi tentando di ricondurre l’amore di lui a una dimensione più consueta: «Possibile che non ci sia al mondo una fanciulla che possa appagare i desideri del suo cuore? [...] Ci pensi. Un viaggio certamente riuscirà a distrarla».

    Un viaggio. Il rimedio classico alle pene d’amore. Con questo consiglio Lotte dimostra ancora una volta la propria partecipazione all’angoscia di Werther, ma anche la sua vera natura, al di là di ogni idealizzazione wertheriana. La proposta del viaggio (che non a caso è la stessa proposta di Wilhelm) è l’ultimo tentativo per salvare il salvabile: Werther, il rapporto matrimoniale con Albert, ormai palesemente in crisi, e soprattutto se stessa, il suo piccolo mondo di affetti e di leggi. Lotte sente che sta per cedere, e allora si appiglia alla propria coscienza rispettosa delle convenzioni sociali e affettive. Per un momento Lotte si identifica pienamente con Albert (e Werther lo dice) e con la figura di Wilhelm.

    Ma, tra i saggi consigli e lo svenimento finale, c’è quel succedersi di cedimenti che Goethe ha preparato una parola dopo l’altra, coinvolgendo Lotte fino ad arrivare alla lettura del galeotto Ossian che, per una sorta di transfert, permette ai due innamorati di allentare i freni fino al punto in cui Lotte «prese le mani di Werther e se le condusse al seno, mentre le loro guance ardenti si avvicinavano. Il mondo scomparve. Egli la chiuse in un abbraccio, la strinse e baciò appassionatamente la sua bocca tremante». Lotte, quindi, cede e viene coinvolta, oltre che affettivamente, anche fisicamente.

    Dopo la scena del bacio, l’editore descrive Lotte che, «tremando d’amore e di sdegno», tenta, combattendo con se stessa, di sottrarsi all’abbraccio di Werther. Se è vero che la fonte inconsapevole del personaggio Lotte è nel rapporto di Goethe con la sorella Cornelia, ciò può contribuire a spiegare come mai Lotte sia meno materna di quanto ci si potrebbe aspettare. Werther può, sia pur fugacemente, profanarne la purezza. È il momento del trionfo degli infantili pensieri di onnipotenza, possibili solo perché Cornelia, in quanto sorella, è pur sempre una madre accessibile. Ma, al di là delle apparenze, l’astrattezza di Lotte e la sua derivazione da un archetipo materno è dimostrata dal fatto che «Werther parla sempre di un amore non sessuale». Come dice Eissler, che cita il seguente passo del romanzo: «Cosa mai significa, amico? Ho paura di me stesso! Il mio amore per lei non è forse il più sacro, il più puro, il più fraterno amore? Ho mai dato spazio nella mia anima a un desiderio colpevole?», Goethe, nei confronti di Cornelia, dimostra un wertheriano desiderio di purezza, elevandola il più possibile verso sfere «divine». «Devo ammettere», dice in Poesia e verità, «che quando ho fantasticato sul suo destino, non l’ho mai pensata volentieri come una moglie, bensì come badessa, come rappresentante di una nobile comunità». Il Werther nasce quindi dal bisogno di controllare ed espellere un forte desiderio incestuoso improvvisamente e acutamente riaccesosi quando la sorella-madre Cornelia si sposò, abbandonandolo per un altro uomo. Questo, tra l’altro, spiega perché anche Albert sia una figura partecipe di tanti tratti paterni, e perché Werther gli contesti questo ruolo: «E che importa se Albert è tuo marito? Marito! Per il mondo questo è importante, e per il mondo l’amarti, il volerti strappare alle sue braccia è un peccato. Una colpa? Bene, e allora io mi punisco».

    Werther

    Per tutta la prima parte del libro il protagonista vaga solo nella campagna. I suoi contatti sono casuali e con persone isolate, o con il microcosmo della famiglia di Lotte – che sembra sospesa in un mondo che non esiste, tanto la sua vita è appartata, chiusa nel cerchio delle faccende e degli affetti domestici. Werther viene spinto contro voglia a lavorare, a inserirsi attivamente nella comunità. Per un breve periodo si notano gli effetti benefici dell’uscita dall’isolamento, e la gioia nella possibilità di esistere tra gli altri e per gli altri: «Da quando sono costretto a essere ogni giorno in mezzo alla folla e vedo ciò che gli altri fanno e come agiscono, sono molto più contento di me stesso».

    Ma questo atteggiamento positivo è di breve durata. Già nella lettera che segue, benché sembri sulla falsariga di quella precedente, si nota il riaffiorare di un atteggiamento di distacco. Werther vive la vita come una singolare commedia, cui egli non partecipa, se non come spettatore. Evita l’inserimento anche nel momento in cui lavora, perché il lavoro è confronto con gli altri, e quindi sconfitta. Come infatti sarà: una bruciante sconfitta cercata nel confronto con i rivali più forti. Il Mittner insinua che Werther sia inconsciamente rimasto apposta a casa del conte di C. dopo cena per essere umiliato. Il modo sprezzante e ironico col quale descrive i personaggi che intervengono alla festa non è che un modo per lenire l’offesa: «Che razza di gente è quella il cui animo è tutto assorbito dal cerimoniale. Per anni non fanno altro che pensare e agire all’unico scopo di conquistare un posto più in vista a tavola!». E più avanti nella medesima lettera: «Pazzi sono quelli che non vedono come non è il posto che conta, e come anzi chi occupa il primo raramente ha il ruolo più importante!». Ma lui, Werther, che ruolo aveva?

    La poca considerazione di sé induce Werther a subire delle umiliazioni sociali ma, ancor di più, lo induce ad accettare qualsiasi cosa dalla donna amata: «Carissimo, siamo al punto che lei può fare di me ciò che vuole». Rinnovare la propria umiliazione offre in certi casi la possibilità di dimostrare a se stessi quanto ingiusta e sciocca essa sia. Lotte, personaggio più complesso di quanto sembri, coglie questo livello quando dice: «La prego, disse ancora prendendogli la mano, cerchi di contenersi, pensi a quante soddisfazioni possono procurarle la sua intelligenza, la sua intuizione, i suoi talenti! Sia uomo». Che è esattamente ciò che Werther sente come impossibile: «La nostra fantasia [...] costruisce una serie di esseri tra i quali noi occupiamo l’ultimo posto e tutto ci sembra più splendido e più perfetto di noi». Ma questa svalutazione di sé ha il suo, altrettanto convinto, contrario: «Mentre gli altri soddisfatti fanno bella mostra in giro della poca forza e del poco talento che posseggono, io dovrei dubitare delle mie energie, o delle mie doti? Buon Dio, tu che mi hai concesso tutti questi doni, perché non te ne sei tenuti la metà e non mi hai dato in cambio la fiducia in me stesso e la capacità di accontentarmi?». È evidente la contraddizione tra la consapevolezza della propria superiorità e la sua inagibilità, a meno di accettare una perdita: perdita di ruolo sociale, perdita della donna amata, perdita della vita. «La perdita è, nella realtà psichica, un guadagno», dice Theodor Reik in un libro dedicato al masochismo nell’uomo moderno¹. L’affermazione di sé passa per la propria sconfitta. Il confine tra la morte per amore e l’amore per la morte, come si vede, è sottilissimo.

    La grande ostentazione di sentimenti amorosi dimostra che Werther ha un estremo bisogno di essere amato, ma una limitata capacità di amare. Al di là delle apparenze, è più disposto a ricevere che a dare, e ciò che dà (la propria ostentata sofferenza) non è che un modo per legare a sé la donna amata. Può appassionarsi fino al parossismo, ma non amare. Lotte smaschera il vero motivo della passione di Werther indicandolo nel fatto che non la può possedere. Werther è incapace di esternare la propria passione, se non in una situazione in cui è sicuro di non essere corrisposto. Così entra in un vortice di alti e bassi che lo porterà a procurarsi amore attraverso la propria distruzione. Non esiste più grande atto di amore (o più esattamente ricatto d’amore) dell’annullarsi per la persona amata: «Voglio morire! Non è disperazione, è la consapevolezza di aver esaurito il mio compito, e di sacrificarmi per te».

    Il suicidio, a questo punto, è la logica conseguenza. Se non ci si ama, ci si può uccidere, ma il coraggio di morire farà del suicida una sorta di eroe. È l’esaltazione negativa della diversità dai comuni mortali. La frustrazione del successo sociale è il prezzo da pagare per un altro sentimento di elezione, ben più assoluto: «Non intendo costringere dei devoti cristiani a seppellire i loro corpi vicino a quello di un povero sventurato». L’aggettivo sventurato esprime una presunzione di valore al contrario. Non è un caso che il sentimento di essere eccezionale si manifesti in maniera scoperta quando ormai la fine è inevitabile. Werther con la propria morte non auspica che questo: legare a sé Lotte per sempre con un meccanismo fatto di amore represso, di rimorso e senso di colpa: «Lotte udì suonare il campanello e un tremito le corse per tutte le membra, svegliò il marito, si alzarono, il servitore, balbettando e piangendo, diede loro la notizia. Lotte cadde svenuta ai piedi di Albert». Werther ha ottenuto che Lotte, lasciando ogni ritegno, si pieghi piangendo sul sepolcro del suo innamorato. Le parti si sono invertite. Espiata la punizione, Werther è degno dell’amore della sua intangibile donna. A questo punto la morte è consolante.

    Il tema della morte percorre tutto il romanzo, inizia in sordina come incapacità di sentire. Si tratta di quella aridità sentimentale che Werther aveva descritto nella lettera del 3 novembre 1772: «Questo cuore è morto, non vi è più felicità». Egli si sente «come un vuoto e arido vaso». Werther sceglie questo modo d’essere come estrema possibilità di resistere a un ostile mondo di cose. Anche il sonno è sintomo di questo disperato quanto inutile tentativo di evitare la sofferenza: «Dio sa quante volte mi metto a letto col desiderio, e persino con la speranza, di non risvegliarmi più; al mattino poi riapro gli occhi, rivedo il sole e mi sento infelice».

    L’incapacità di inserimento, il desiderio di rientrare nella latenza della propria superiorità negativa, il rifiuto dell’azione per il sogno a occhi aperti, rasentano il vagheggiamento dell’oblio di sé, il proprio annullamento: la latenza diventa passività. Dal sogno a occhi aperti si passa alla sottomissione a un destino segnato. In Werther questo carattere dolorosamente passivo è evidente fin dal titolo del romanzo. Nel titolo italiano, così come è normalmente tradotto, si perde una importante sfumatura semantica. Leiden, infatti, non indica soltanto il concetto di dolore in sé (per questo esiste Schmerz) ma il momento della ricezione passiva e sofferta del dolore. Leiden andrebbe forse meglio tradotto con ‘sofferenze’ o ‘pene’, vocaboli che danno più il senso del patire.

    All’interno della propria logica mentale, Werther non si uccide, ma patisce l’estrema umiliazione che la sua donna vuole infliggergli per vedere se finalmente diventa uomo. La felicità di Werther per il fatto che sia Lotte a dargli l’arma, non è soltanto dettata dal compiacimento di chi gioisce di un segno del fato, e neanche soltanto dal piacere di coinvolgere Lotte nel proprio meccanismo affettivo, è qualcosa di più e di più profondo. In quel momento la mano di Lotte non è solo armata metaforicamente, ma di fatto. Nella realtà psichica di Werther è Lotte che fa violenza su di lui, egli accetta, e compie l’atto formale di premere il grilletto. Castigarsi fino al limite estremo della distruzione di sé è l’unico atto che possa chiudere il cerchio, e fare di lui una sorta di virile fenice.

    Werther ha un atteggiamento calmo e deciso: «Voglio morire. Questa mia non è disperazione, no, ma certezza». In un biglietto scritto dopo le undici, Werther annota: «Tutto è quieto intorno a me, la mia anima è tranquilla». Sempre in quest’ultima lettera si rivolge all’amata, dimostrando fermezza e coraggio: «Ho finito, Lotte. Non tremo». La fine non ha nulla di disperato o di improvviso: «aveva detto a se stesso che doveva agire senza precipitazione, con calma, che voleva compiere quel passo, non suscettibile di pentimento, con piena e completa convinzione, con decisione fredda e ponderata». La morte è preparata con calma, quasi pianificata. È quindi molto meno romantica di quanto non si creda, e lo stesso Werther ne era consapevole: «Ho deciso, Lotte, voglio morire. Te lo scrivo senza romantiche esaltazioni». Non solo, la stessa descrizione del suicidio, con il suo crudo realismo (come ricorda Mittner) «è confutazione raccapricciante della romantica morte in bellezza». Werther, infatti, «bruttato di sangue col cranio sfracellato e le cervella schizzate fuori, continua a rantolare per dodici ore senza riconoscere quelli che vorrebbero consolarlo».

    Werther prepara il suicidio con una meticolosità da contabile che paga i debiti e mette a posto i libri prima di tornarsene a casa la sera. Le ultime ore sono un susseguirsi di atti amministrativi, che molto contrastano con l’immagine del suicida romantico. La morte non dimostra di per sé il coraggio di chi la affronta: ciò che conta è il modo come la si affronta. Werther va incontro alla sua distruzione senza panico, per una volta senza timori femminili, con responsabilità, serenità e fermezza. Diventa adulto e uomo in punto di morte e in virtù della morte.

    GIORGIO MANACORDA

    ¹ Cfr. T. Reik, Masochism in Modern Man, New York 1941.

    Ho raccolto con cura ed espongo qui tutto ciò che ho potuto trovare

    intorno alla storia del povero Werther: so che me ne sarete grati.

    Non potrete negare ammirazione e affetto al suo spirito

    e al suo cuore, né lacrime al suo destino.

    E tu, anima buona, che provi le sue stesse angosce, trova conforto

    nel suo dolore; questo libretto divenga il tuo amico se per colpa tua

    o della sorte non puoi trovarne uno più prossimo.

    Libro primo

    4 maggio 1771

    Come sono contento di essere partito! Amico mio carissimo, che cos’è mai il cuore dell’uomo! Aver abbandonato te, che amo tanto, dal quale ero inseparabile, e sentirmi contento! Ma so che mi perdonerai. Tutte le altre relazioni non parevano scelte apposta dal destino per angosciare un cuore come il mio? Povera Eleonora! Eppure io ero innocente. Che cosa potevo io fare se, mentre le grazie capricciose di sua sorella mi procuravano piacevole passatempo, la passione andava accendendosi nel suo cuore? Eppure... sono proprio innocente? Non sono stato io ad alimentare i suoi sentimenti? Non ero io a deliziarmi delle ingenue espressioni della sua natura, che spesso ci facevano ridere, quantunque fossero così poco risibili? Non ero io... Oh, che cos’è mai l’uomo, che può rammaricarsi di se stesso! Te lo prometto, io voglio, mio caro amico, correggermi, non voglio più ruminare come ho fatto finora quel po’ di male che il destino mi ha mandato; voglio godere il presente, e il passato sia il passato. Certo, tu hai ragione, mio caro: minori sarebbero i dolori fra gli uomini se essi – e Dio sa perché son fatti così – non lavorassero tanto di fantasia per richiamare alla memoria i mali passati e sopportassero un tollerabile presente.

    Sii tanto cortese da dire a mia madre che curerò nel miglior modo possibile i suoi affari e gliene darò notizia al più presto. Ho parlato con la zia e in verità non ho trovato in lei la persona tanto cattiva di cui spesso a casa nostra si parla. È una donna vivace e impetuosa, con un ottimo cuore. Le ho comunicato le lagnanze di mia madre per la parte di eredità che si è trattenuta e lei mi ha detto le sue ragioni e a quali condizioni sarebbe disposta a rendere tutto, anche più di quanto noi chiediamo. Basta, ora non ho voglia di scrivere altro su questa faccenda, di’ a mia madre che tutto andrà bene. Amico mio, anche in questa piccola questione ho visto come i malintesi e la pigrizia producano nel mondo più scompiglio che la malignità e la malvagità. Se non altro queste ultime sono certamente più rare.

    Del resto qui io mi trovo molto bene; in questi luoghi paradisiaci la solitudine è un balsamo prezioso per lo spirito; e questa giovanile stagione scalda potentemente il mio cuore che spesso rabbrividisce. Ogni albero, ogni siepe, è un mazzo di fiori e vorrei essere come un maggiolino per librarmi in questo mare di profumi e cogliervi il mio nutrimento.

    La città in sé non è bella, ma in compenso la circonda un’indicibile bellezza di natura. Per questo il defunto conte M. volle creare un giardino su una delle colline che s’intrecciano graziosamente e formano leggiadrissime valli. Il giardino è semplice, e si nota a prima vista che il piano non fu tracciato da un esperto giardiniere, ma da un cuore sensibile che qui voleva gioire di se stesso. Già molte lacrime ho versato in memoria di colui che non è più, nel piccolo padiglione, ormai cadente, che era il suo posto favorito e ora è il mio. Presto sarò padrone del giardino; il giardiniere mi è affezionato quantunque sia qui da poco; e non se ne pentirà.

    10 maggio

    Una mirabile serenità si è diffusa nella mia anima, simile al dolce mattino primaverile, e ne gioisco con tutto il mio cuore. Sono solo e mi godo la mia vita in questa terra fatta per anime simili alla mia. Sono così felice, mio caro, sono così immerso nel mio placido essere che la mia arte ne soffre. Ora non potrei disegnare nulla, neanche una riga, eppure non sono mai stato così gran pittore come in questo momento. Quando la diletta valle intorno a me è avvolta nei suoi vapori e l’alto sole passa sulla impenetrabile oscurità della mia selva, e solo qualche raggio filtra nell’interno sacrario, io mi stendo tra l’alta erba presso lo scrosciante ruscello, e più vicino alla terra osservo mille svariate specie d’erbette; allora sento più vicino al mio cuore il brulichio di quel piccolo mondo degli innumerevoli infiniti vermiciattoli e moscerini tra gli steli, e sento la presenza dell’Onnipossente, che ci fece a Sua immagine e l’alito dell’infinito Amore che ci conduce e ci sostiene in una eterna delizia; oh amico! E quando poi davanti ai miei occhi si estende il crepuscolo e intorno a me posa il mondo e il cielo penetra nella mia anima come le sembianze di una donna amata; allora spesso mi prende nostalgia e penso: Ah, potessi esprimere tutto questo, trasfondere sulla carta ciò che vive in te con tanta pienezza e calore, in modo da farne lo specchio della tua anima, come la tua anima è lo specchio dell’infinito di Dio. Oh, amico!... A tanto non resisto e m’inchino alla meravigliosa potenza di queste visioni.

    12 maggio

    Io non so se spiriti ingannevoli dimorino in questa contrada o se la calda, celestiale fantasia che ho nel cuore faccia apparire tanto paradisiaco ciò che mi sta intorno. Proprio davanti al villaggio c’è una fontana, una fontana da cui sono incantato come Melusina dalle sue sorelle. Discendi una breve collina e ti trovi all’entrata di un arco, dove, se scendi venti gradini circa, vedi sgorgare limpidissima acqua da rocce marmoree. Il piccolo muro che chiude il recinto, gli alberi che circondano il posto, la freschezza del luogo, tutto è così attraente, così misterioso. Non passa giorno che io non sieda lì un’ora. Vengono dalla città le ragazze ad attingere acqua, necessaria e innocente faccenda che un tempo compivano le figlie stesse dei re. E quando sono lì il mondo patriarcale rivive in me con vivace immagine, e penso come i patriarchi accanto al pozzo stabilivano relazioni e matrimoni e come spiriti propizi vigilavano sulle fontane e sulle sorgenti. Oh, chi non è capace di provare tali sentimenti non deve mai essersi ristorato alla freschezza di una fontana dopo una faticosa marcia estiva!

    13 maggio

    Mi domandi se mi devi mandare i miei libri. Mio caro, per amor di Dio, lasciali dove sono. Non voglio più farmi guidare, spronare, infiammare dai libri; questo cuore divampa già di per sé; io ho bisogno di un canto che mi culli, e l’ho trovato, abbondantemente, nel mio Omero. Quante volte placo il mio sangue agitato... perché non c’è nulla di così mutevole e incostante come il mio cuore. Mio caro, ho bisogno di dire questo a te che hai sopportato così spesso il fastidio di vedermi passare dall’affanno ai più arditi sogni e da una dolce malinconia alla più funesta passione? È vero che io tratto il mio cuore come un bimbo ammalato e tutti i capricci gli sono concessi. Ma non lo dire a nessuno; c’è gente che non me lo perdonerebbe.

    15 maggio

    La gente semplice del luogo mi conosce già e mi vuol bene, specialmente i bambini. I primi giorni, quando mi univo a loro e amichevolmente li interrogavo su questo e quello, alcuni credevano che volessi burlarmi di loro e mi lasciavano bruscamente. Ma non me la sono presa; soltanto sentivo meglio ciò che avevo già spesso osservato: le persone di una certa condizione si tengono sempre a una fredda distanza dal popolo comune perché credono di rimetterci avvicinandosi a esso; vi sono poi buontemponi e burloni malvagi che fingono di piegarsi fino al popolo soltanto per fargli sentire meglio la loro boria.

    Io so bene che noi non siamo né possiamo essere simili; ma penso che colui il quale, per farsi portare rispetto, crede necessario rimanere lontano dalla cosiddetta plebe, è biasimevole quanto un vile che si nasconde al suo nemico per paura di essere sconfitto.

    Recentemente sono andato alla fontana e ho trovato una giovane donna di servizio che aveva posato il secchio sull’ultimo scalino e guardava se sopraggiungesse qualche compagna e l’aiutasse ad alzarlo sul capo. Sono sceso e l’ho guardata. «Posso aiutarti, fanciulla?», ho chiesto. Essa è arrossita moltissimo, dicendo: «Oh no, signore!». «Senza complimenti». Si è aggiustata il cercine, e io l’ho aiutata. Mi ha ringraziato e se n’è andata su per la scala.

    17 maggio

    Ho fatto ogni sorta di conoscenze, ma non sono riuscito a trovare una vera compagnia. Non so che cosa la gente possa trovare in me: molti mi hanno in simpatia, si legano a me e mi dispiace quando si può fare strada comune soltanto per un breve tratto. Se mi chiedi com’è qui la gente, ti debbo rispondere: come dappertutto. Il genere umano in verità è una cosa uniforme! I più passano la maggior parte del tempo a vivere, e quel poco di libertà che gli resta li tormenta a tal punto da cercare ogni mezzo per disfarsene. Oh, destino degli uomini! Tuttavia è buonissima gente. Quando riesco a lasciarmi andare e a godere con loro le gioie che ancora sono concesse all’uomo, come divertirsi cordialmente intorno a una tavola bene imbandita, organizzare una gita, un ballo o qualcosa di simile, ne risento un ottimo effetto; solo non devo pensare alle tante altre energie che si sciupano in me e che devo accuratamente nascondere. Ah! Il mio cuore ne è angosciato! Eppure, essere incompresi è il destino di noi tutti. Ah se fosse qui l’amica della mia giovinezza, se l’avessi conosciuta. Dovrei dire a me stesso: Tu sei pazzo! Tu cerchi ciò che qui non può essere trovato. Ma io l’ho avuta: ho sentito il suo cuore e la sua anima, quando era con me mi faceva essere più di quello che io sono, perché ero tutto ciò che io posso essere. Grande Iddio! C’era allora una sola forza della mia anima che rimanesse sopita? Non potevo dispiegare davanti a lei in tutta la sua interezza il mirabile sentimento con cui il mio cuore abbracciava la natura? I nostri colloqui non erano forse un eterno intrecciarsi di raffinata sensibilità, di ardite ispirazioni, le cui variazioni, anche le più sfrenate, erano segnate dall’impronta del genio? E ora... Ahimè, gli anni che aveva più di me l’hanno condotta alla tomba prima. Non potrò mai dimenticarla: né la sua forte intelligenza, né la sua divina rassegnazione. Pochi giorni fa ho incontrato il giovane V., un ragazzo dal cuore aperto e dall’aspetto simpatico. È uscito da poco dall’università, non che si reputi un sapiente ma è comunque convinto di sapere più degli altri. Da molti indizi ho potuto capire che è stato molto diligente; insomma ha un bel corredo di cognizioni. Avendo saputo che disegno molto e conosco il greco (due cose eccezionali in questo paese) è venuto da me e ha sfoderato la sua sapienza, da Batteux a Wood, da de Piles a Winckelmann e mi ha detto che ha letto tutta la prima parte della teoria di Sulzer e che possiede un manoscritto di Heine sullo studio dell’antichità. L’ho lasciato parlare.

    Ho fatto conoscenza con un’altra brava persona: il borgomastro, uomo leale e schietto. Mi han detto che è una vera gioia vederlo tra i suoi figlioli; ne ha nove in tutto, e si dice un gran bene specialmente della figlia maggiore. Mi ha pregato di andarlo a visitare e uno di questi giorni lo farò. Abita in un casino da caccia, del principe, a un’ora e mezzo da qui, dove ha ottenuto di potersi ritirare dopo la morte della moglie, perché da allora il soggiorno in città e nella casa comunale gli è divenuto troppo penoso. Inoltre mi sono capitati tra i piedi certi tipi originali in cui tutto è spiacevole, insopportabili soprattutto nelle loro manifestazioni di amicizia.

    Addio! Questa lettera ti piacerà, è completamente storica.

    22 maggio

    Che la vita dell’uomo sia soltanto un sogno è già stato affermato da molti, e tale sentimento si è impadronito anche di me. Quando considero i limiti entro cui sono prigioniere le forze attive e speculative dell’uomo, quando vedo che ogni attività mira all’unico scopo di soddisfare i bisogni, i quali, a loro volta, servono soltanto a prolungare la misera esistenza, e poi comprendo che l’appagamento su certi punti delle nostre speculazioni non è altro che sognante rassegnazione perché dipingiamo soltanto variopinte figure e luminosi panorami sulle pareti fra le quali siamo prigionieri, tutto ciò, Guglielmo, mi ammutolisce. Rientro in me stesso e trovo un universo! Ma formato più di presentimenti e di oscuri desideri che di immagini e di forze viventi. Allora tutto si confonde davanti ai miei sensi, e io sorrido e continuo a sognare nel mondo.

    Che i fanciulli non sappiano che cosa vogliono è verità constatata da tutti i dottissimi maestri di scuola e istitutori; ma che anche gli adulti, come i bambini, brancolino su questa terra e non sappiano né da dove vengano né dove vadano e che anche essi agiscano non secondo veri scopi, ma si lascino guidare invece solo da biscotti e dolci e vergate: questo nessuno vuole crederlo eppure a me sembra una verità lampante. Ammetto, poiché so ciò che mi risponderesti in proposito, che i più felici sono proprio coloro i quali come i bambini vivono alla giornata, portando a spasso le bambole che vestono e spogliano e girando con gran rispetto intorno al cassetto dove la mamma ha chiuso il biscotto; e, quando finalmente sono riusciti a portar via ciò che desiderano, lo divorano e con la bocca piena gridano: «Ancora!». Queste sono creature felici!

    E si trovano bene anche quelli che danno titoli pomposi alle loro misere faccende o magari anche alle loro passioni e poi le presentano al genere umano come opere gigantesche intraprese per il suo bene e la sua salute. Felice chi può essere così!

    Ma chi umilmente riconosce dove ogni cosa va a finire, chi vede come ogni borghese soddisfatto riesca a trasformare il suo giardino in paradiso e come anche lo sventurato prosegua il suo cammino sotto il fardello e tutti ugualmente abbiano interesse a vedere la luce del sole per un minuto di più, colui pure è tranquillo e costruisce il suo mondo in sé, ed è felice, perché è un uomo. E, per quanto limitati siano i suoi confini, conserva pur sempre in cuor suo il sentimento della libertà e sente di potere abbandonare questo carcere quando vuole.

    26 maggio

    Tu conosci da tempo la mia abitudine di costruire, di erigere a caso in qualche posto tranquillo una capanna, e di vivere lì con ogni semplicità. Anche qui ho trovato un posticino, che fa per me. A un’ora circa dalla città c’è un luogo chiamato Wahlheim¹. È situato in una interessante posizione, in cima a una collina: uscendo per il sentiero che conduce al villaggio, si scopre all’improvviso l’intera vallata. Una buona ostessa, vivace e piacevole nonostante l’età, offre vino, birra, caffè; e, ciò che importa di più, ci sono due tigli che con i loro larghi rami coprono la piazzetta dinanzi la chiesa, stretta tutt’intorno da case di contadini, da granai e cortili. Non ho mai trovato luogo più intimo e appartato; lì, mi faccio portare dall’ostessa tavolino e seggiola, bevo il mio caffè e leggo Omero. La prima volta che capitai per caso sotto i tigli, in un bel pomeriggio, trovai il luogo deserto. Erano tutti nei campi; c’era solo un bambino di circa quattro anni, seduto per terra, che teneva tra le gambe un altro di forse sei mesi sostenendolo con le braccia a mo’ di seggiola; era immobile, sebbene i suoi occhi neri guardassero con vivacità in giro. Quel quadretto mi piacque; sedetti su di un aratro di fronte ai due ragazzi e disegnai con grande piacere la scenetta fraterna. Vi aggiunsi la siepe vicina, la porta di un fienile e alcune ruote rotte, tutto alla rinfusa com’era e dopo un’oretta circa mi accorsi di aver messo insieme un disegno ordinato e interessante senza avervi aggiunto nulla di mio. Questo ha rinforzato il mio proposito di attenermi in futuro unicamente alla natura. Essa soltanto è infinitamente ricca, solo essa può formare il grande artista. Molto si può ragionare in difesa delle regole, su per giù le stesse cose che si possono dire in lode della società borghese. Un uomo che si forma su di esse non farà mai alcunché di cattivo gusto o di assurdo, come chi si lascia plasmare dalle leggi e dall’educazione non diventerà mai un vicino insopportabile né un vero birbante; ma tutte le regole, si dica quello che si vuole, distruggono il vero sentimento e la sincera espressione della natura. Mi dirai che questo è troppo, che esse impongono soltanto certi limiti e tagliano i rami troppo frondosi ecc. Amico mio, posso servirmi di un paragone? L’arte è come l’amore: un giovane innamorato si dedica interamente a una ragazza, passa tutte le ore della giornata con lei, a lei dedica ogni sua energia e i suoi averi, per dimostrarle che le appartiene completamente. A un certo punto si intromette un filisteo, un uomo che riveste una carica importante, e gli dice: «Mio caro signore, amare è umano, ma lei deve amare virilmente! Distribuisca le sue ore, ne dedichi alcune al lavoro e altre libere alla sua ragazza! Faccia un calcolo di ciò che possiede, provveda prima ai suoi bisogni; non le proibisco di farle qualche dono col rimanente, ma non tanto spesso; a esempio per il suo onomastico e compleanno ecc.». Se il giovane segue questo consiglio diverrà certamente un uomo utile e consiglierei a un qualsiasi principe

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