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America
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E-book344 pagine5 ore

America

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Info su questo ebook

Introduzione di Italo Alighiero Chiusano
Traduzione di Mirella Ulivieri
Edizione integrale

Il sedicenne Karl Rossmann viene mandato dai genitori in America, come punizione per aver sedotto una cameriera nella natia Praga. Accolto in casa di un ricco zio, ne è poi bruscamente scacciato senza una vera colpa. Sempre senza colpa, verrà licenziato dall’albergo in cui aveva trovato lavoro come lift, finendo per essere assunto nel «Grande teatro» di Oklahoma. A questo punto il romanzo si interrompe. Incompiuto come Il Castello, America è da alcuni considerato il più “vivace” romanzo kafkiano. Ma a ben vedere, la storia trasmette al lettore la stessa carica di angoscia degli altri due romanzi e il candido e cavalleresco Rossmann, così ingiustamente perseguitato, ricorda il tono assurdo e surreale di alcuni personaggi di Chaplin e di Buster Keaton.


Franz Kafka

il più celebre interprete della complessità del vissuto umano e delle angosce che turbano la nostra epoca, nacque a Praga nel 1883. Figlio di un agiato negoziante, gretto e autoritario, con cui visse sempre in conflitto, trascorse un’esistenza apparentemente monotona e priva di grandi avvenimenti. Poco dopo la laurea s’impiegò in un ente pubblico, dove rimase fino a due anni prima della sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1924 a causa della tubercolosi. Scrisse tre romanzi, America, Il processo e Il Castello, un gran numero di bellissimi racconti, tutti pubblicati dalla Newton Compton nella collana e nel volume unico Tutti romanzi, i racconti, pensieri e aforismi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854126107
America
Autore

Franz Kafka

Franz Kafka (Praga, 1883 - Kierling, Austria, 1924). Escritor checo en lengua alemana. Nacido en el seno de una familia de comerciantes judíos, se formó en un ambiente cultural alemán y se doctoró en Derecho. Su obra, que nos ha llegado en contra de su voluntad expresa, pues ordenó a su íntimo amigo y consejero literario Max Brod que, a su muerte, quemara todos sus manuscritos, constituye una de las cumbres de la literatura alemana y se cuenta entre las más influyentes e innovadoras del siglo xx. Entre 1913 y 1919 escribió El proceso, La metamorfosis y publicó «El fogonero». Además de las obras mencionadas, en Nórdica hemos publicado Cartas a Felice.

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    Anteprima del libro

    America - Franz Kafka

    Il fuochista

    Quando il sedicenne Karl Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori perché una cameriera l'aveva sedotto e aveva avuto un figlio da lui, entrò nel porto di New York sulla nave che aveva rallentato, vide la statua della Libertà tanto a lungo contemplata, come se attorno ad essa la luce del sole si fosse improvvisamente fatta più intensa. Il braccio con la spada svettava alto come se si fosse alzato allora, e attorno alla sua figura aleggiava libera l'aria.

    «Com'è alta!», si disse, e giacché non pensava minimamente a muoversi fu spinto via via contro il parapetto dalla folla sempre più folta di facchini che gli passavano accanto.

    Un giovanotto con cui aveva fatto una superficiale conoscenza durante il viaggio gli disse passando: «Non ha ancora voglia di scendere?». «Io sono pronto», disse Karl e lo guardò ridendo, e un po' per spavalderia, e un po' perché era un ragazzo robusto si mise la valigia in spalla. Ma guardando il suo conoscente che già si allontanava con gli altri facendo lievemente oscillare il bastoncino, si accorse costernato di aver dimenticato giù nella nave il suo ombrello. Pregò in tutta fretta il conoscente, che non parve molto entusiasta, di aspettare per cortesia qualche istante accanto alla sua valigia, diede un'ultima occhiata al luogo per raccapezzarsi al ritorno e si allontanò di corsa. Di sotto trovò con disappunto che un passaggio il quale gli avrebbe di molto accorciato il percorso, era stato chiuso, il che verosimilmente aveva a che vedere con lo sbarco dei passeggeri, e dovette faticosamente cercare delle scale che scendessero fino in basso attraverso corridoi che piegavano in continuazione, una cabina vuota con una scrivania deserta, sinché non si fu davvero perso del tutto, dato che aveva fatto quel percorso una volta o due soltanto, e sempre in numerosa compagnia. Nel suo sgomento, e poiché non incontrava nessuno e sopra di sé udiva soltanto il continuo scalpiccio di migliaia di piedi, e di lontano percepiva l'ultimo ansito delle macchine già spente, senza riflettere si mise a bussare a una porticina davanti alla quale si era fermato nel suo girovagare.

    «È aperto», gridarono da dentro, e con vero sollievo Karl aprì la porta. «Perché bussa così come un pazzo?» chiese un uomo gigantesco dandogli appena un'occhiata. Da una specie di lucernario una luce opaca, già consumata nella parte alta della nave, scendeva nella misera cabina nella quale erano stipati, come in un magazzino, un letto, un armadio, una poltrona e l'uomo. «Mi sono perso», disse Karl, «durante il viaggio non me n'ero accorto, ma è una nave terribilmente grande.»

    «Sì, in questo ha ragione», disse l'uomo con un certo orgoglio, continuando a trafficare attorno alla serratura di una valigetta che premeva con ambedue le mani, cercando di udire lo scatto della serratura. «Ma venga dentro!», proseguì l'uomo, «non vorrà mica restare là fuori!»

    «Non disturbo?», chiese Karl. «E perché dovrebbe disturbare?»

    «Lei è tedesco?», cercò ancora di assicurarsi Karl, che aveva udito dei molti pericoli che minacciavano i nuovi arrivati in America, specie da parte degli irlandesi. «Tedesco, tedesco», disse l'uomo. Karl però esitava ancora. Allora l'uomo afferrò all'improvviso la maniglia e chiudendo di colpo la porta spinse Karl dentro la cabina. «Non sopporto che mi si guardi dal corridoio», disse l'uomo che si era rimesso a trafficare attorno alla valigia, «Tutti quelli che passano guardano dentro, non ci resisto!»

    «Ma il corridoio è vuoto», disse Karl pressato scomodamente contro il letto. «Già, adesso», disse l'uomo. «Ma è ben di adesso che stiamo parlando», pensò Karl, «è difficile discorrere con quest'uomo.»

    «Si metta sul letto, così avrà più spazio», disse l'uomo. Karl vi si arrampicò sopra alla meglio, ridendo di cuore nel vano tentativo che aveva fatto di montarci sopra d'un balzo. Ma non appena fu sul letto, esclamò: «Santo cielo, mi sono completamente dimenticato della valigia!». «Dov'è?»

    «Sopra coperta, ci fa la guardia un mio conoscente. Già, ma come si chiama?» E dalla tasca segreta che sua madre gli aveva cucito nella fodera della giacca per il viaggio estrasse un biglietto da visita. «Butterbaum, Franz Butterbaum». «Ha un gran bisogno di quella valigia?»

    «Naturalmente.»

    «E allora perché l'ha affidata a un estraneo?»

    «Avevo dimenticato l'ombrello di sotto e son corso a prendermelo, ma non volevo trascinarmi dietro la valigia. Poi però mi sono anche perso.»

    «Lei è solo? Senza compagnia?»

    «Sì, solo.»

    «Forse dovrei affidarmi a quest'uomo», passò per la testa a Karl, «dove trovo ora come ora un amico migliore?»

    «E adesso ha perso anche la valigia. Per non parlare dell'ombrello.» E l'uomo si sedette in poltrona, come se adesso la faccenda di Karl suscitasse in lui un certo interesse. «Credo però che la valigia non sia ancora perduta.»

    «La fede rende beati», disse l'uomo e si grattò energicamente tra i capelli scuri, corti e folti, «su una nave, con i porti cambiano anche le usanze. Ad Amburgo forse il suo Butterbaum avrebbe fatto la guardia alla valigia, qui molto probabilmente ormai non c'è più traccia né dell'uno né dell'altra.»

    «Ma allora debbo subito andar su a controllare», disse Karl cercando di scendere dalla cuccetta. «Rimanga», disse l'uomo, e con una manata sul petto lo fece ricadere indietro, in modo addirittura brutale. «Ma perché?» chiese Karl irritato. «Perché non ha alcun senso», disse l'uomo, «tra un minuto esco anch'io, così andremo insieme. O la valigia è stata rubata, e allora non c'è niente da fare, oppure quello l'ha lasciata lì, e allora la troveremo più facilmente quando la nave sarà vuota. E così pure il suo ombrello.»

    «Lei è pratico della nave?» chiese Karl con una certa diffidenza, parendogli che l'idea, del resto convincente, che sulla nave vuota le cose si sarebbero potute trovare più facilmente contenesse una trappola. «Sono fuochista», disse l'uomo. «Lei è fuochista!», esclamò Karl tutto contento, come se questo superasse ogni sua aspettativa e, appoggiato sul gomito, osservò l'uomo più attentamente. «Proprio di fronte alla cabina dove dormivo con lo slovacco c'era una finestrella da dove si vedeva la sala macchine.»

    «Sì, io lavoravo là», disse il fuochista. «Io mi sono sempre un po' interessato di tecnica», disse Karl che seguiva un suo corso di pensieri, «e sarei sicuramente diventato ingegnere se non fossi dovuto partire per l'America.»

    «Perché è dovuto partire?»

    «Lasciamo perdere», disse Karl, e con un gesto della mano liquidò tutta la storia. Intanto guardava il fuochista sorridendo, come a chiedergli indulgenza per quel che non confessava. «Ci sarà bene un motivo», disse il fuochista, e non si capiva se con queste parole volesse sollecitare o rifiutare la spiegazione di questo motivo. «Adesso potrei diventare fuochista anch'io», disse Karl, «ai miei genitori ormai non importa più niente di quel che diventerò.»

    «Il mio posto si libera», disse il fuochista, e nella piena coscienza di ciò si ficcò le mani nelle tasche dei calzoni e allungò sul letto le gambe infilate in pantaloni spiegazzati, color grigio ferro, di una stoffa che sembrava cuoio. Karl dovette farsi più vicino alla parete. «Lei lascia la nave?»

    «Sissignore, oggi ci mettiamo in marcia.»

    «Ma perché? Non le piace?»

    «Mah, sono le circostanze, che una cosa piaccia o no a volte ha poca importanza. Del resto lei ha ragione, non mi piace. Lei probabilmente non pensa sul serio di diventare fuochista, ma è proprio in questo caso che è più facile diventarlo. Io glielo sconsiglio decisamente. Se voleva fare l'università in Europa, perché non qui? Le università americane sono infinitamente migliori di quelle europee.»

    «Può darsi», disse Karl, «però praticamente non ho soldi per studiare. È vero che ho letto di uno che di giorno lavorava in un negozio e di notte studiava, e alla fine diventò dottore e credo sindaco, ma per far questo occorre una grande costanza, no? Temo che a me manchi. Inoltre come scolaro non ero particolarmente bravo, l'addio alla scuola non mi è stato davvero difficile. E qui forse le scuole sono anche più severe. Non conosco quasi per niente l'inglese. E poi, in genere qui si è un po' prevenuti contro gli stranieri, credo.»

    «Lo ha già saputo anche lei? Beh, allora tutto è a posto. Allora lei è la persona che fa per me. Vede, ci troviamo su una nave tedesca, della linea Amburgo-America, perché allora qui non siamo tutti tedeschi? Perché il capo macchinista è un rumeno? Si chiama Schubal. È una cosa da non credersi. E questo farabutto maltratta noi tedeschi, su una nave tedesca! Non creda» — gli mancò il fiato, e agitò la mano come per prender tempo — «che io mi lamenti tanto per lamentarmi. So che lei non ha influenza e che non è che un povero ragazzo. Ma è troppo dura!» E batté più volte il pugno sul tavolo senza staccar gli occhi dalla mano. «Ho prestato servizio su tante navi» — e snocciolò d'un fiato una ventina di nomi come se fossero una parola sola, Karl era completamente stordito — «e mi son fatto onore, ho avuto degli elogi, ero un lavoratore bene accetto ai miei capitani, sono rimasto persino vari anni sullo stesso veliero mercantile» — si alzò, come se quello fosse stato il punto culminante della sua vita — «e qui, su questa carretta, dove tutto fila liscio come l'olio, dove non occorre essere dei geni, qui sono un buono a nulla, qui sono sempre d'intralcio a Schubal, sono un fannullone, merito di essere buttato fuori e ricevo il salario per misericordia. Lei questa cosa la capisce? Io no.»

    «Questo lei non deve tollerarlo», disse Karl indignato. Aveva quasi perso il senso di trovarsi sul suolo incerto di una nave, sulla costa di un continente sconosciuto, tanto si sentiva a suo agio lì sul letto del fuochista. «È già stato dal capitano? Ha già difeso le sue ragioni davanti a lui?»

    «Ah, se ne vada, meglio che vada via. Io non la voglio qui. Lei non ascolta quel che dico e viene a darmi dei consigli. Come faccio ad andare dal capitano!» E stancamente il fuochista si rimise a sedere e si nascose il viso tra le mani.

    «Miglior consiglio non posso dargli», si disse Karl. E trovò che avrebbe fatto meglio ad andare a prendere la sua valigia, invece di star lì a dare consigli che venivano soltanto considerati sciocchi. Quando suo padre gli aveva affidato per sempre quella valigia, aveva chiesto scherzosamente: «Per quanto tempo la terrai?» e adesso forse quella cara valigia era davvero perduta. L'unica consolazione era che il padre non avrebbe potuto conoscere la sua situazione attuale anche se avesse fatto delle ricerche. La compagnia di navigazione avrebbe potuto dire soltanto che lui era arrivato a New York. Ma a Karl dispiaceva di non aver quasi adoperato le cose che erano nella valigia, sebbene per esempio da un bel pezzo avesse avuto bisogno di cambiarsi la camicia. Aveva fatto male a risparmiare; proprio adesso che, all'inizio della sua carriera, avrebbe avuto necessità di presentarsi vestito pulitamente, si sarebbe dovuto far vedere con una camicia sporca. Per il resto la perdita della valigia non era un danno così grave, perché il vestito che aveva addosso era persino meglio di quello rimasto nella valigia, che in realtà era un vestito rimediato, che la madre aveva dovuto rammendare subito prima della partenza. Adesso ricordò anche che nella valigia c'era anche un pezzo di salame di Verona, che la madre aveva aggiunto come dono speciale, ma di cui lui aveva potuto mangiare solo una piccolissima parte perché durante il viaggio non aveva avuto per niente appetito, e gli era stata più che sufficiente la zuppa che distribuivano sull'interponte. Invece adesso avrebbe voluto avere sotto mano quel salame, per farne omaggio al fuochista. Infatti le persone di quel genere si conquistano facilmente mettendo loro in mano qualche piccolezza, Karl lo aveva imparato da suo padre, che distribuendo sigari si ingraziava tutti gli impiegati di rango inferiore con cui aveva a che fare per la sua professione. Adesso, da regalare Karl aveva solo il suo denaro, e quello, dal momento che forse aveva già perso la valigia, per ora non lo voleva toccare. Di nuovo i suoi pensieri tornarono alla valigia, e adesso non capiva proprio perché durante il viaggio aveva sorvegliato la valigia con tanta attenzione che quella guardia gli era quasi costata il sonno, mentre ora se l'era fatta portar via così facilmente. Si ricordò delle cinque notti in cui aveva sospettato di continuo un piccolo slovacco, che dormiva due posti più in là alla sua sinistra, di aver delle mire sulla sua valigia. Questo slovacco aspettava soltanto che Karl, vinto dalla debolezza, finisse per assopirsi un istante, per tirarsi vicina la valigia con un lungo bastone col quale durante il giorno giocava o si esercitava. Di giorno questo slovacco aveva un'aria innocente, ma non appena calava la notte ogni tanto si alzava dal suo giaciglio e guardava tristemente la valigia di Karl. Karl se ne accorgeva benissimo perché c'era sempre qualcuno che, con l'irrequietezza dell'emigrante, accendeva un lumino, nonostante il regolamento della nave lo proibisse, e cercava di decifrare gli incomprensibili prospetti delle agenzie di emigrazione. Se quella luce era lì vicino Karl poteva assopirsi un poco, ma se era lontana oppure c'era buio era costretto a tener gli occhi aperti. Quella fatica lo aveva davvero stremato, e invece forse era stata completamente inutile. Quel Butterbaum, ah, se una volta o l'altra gli fosse capitato di incontrarlo! In quell'istante, nel silenzio totale che aveva regnato sino allora, risuonarono in lontananza piccoli brevi colpi, come di piedi infantili, il rumore aumentava via via che si avvicinavano, e poi divenne una tranquilla marcia di uomini. Evidentemente camminavano in fila, com'era naturale in quello stretto corridoio, e si udiva come un tintinnare di armi. Karl, che stava per abbandonarsi sul letto a un sonno libero da ogni pensiero per la valigia e lo slovacco, sobbalzò e scrollò il fuochista per richiamare la sua attenzione, perché la testa della processione sembrava giunta all'altezza della porta della cabina. «È l'orchestra della nave», disse il fuochista, «hanno suonato di sopra e ora vanno a far le valigie. Adesso è tutto finito e noi possiamo andare. Venga!» Prese per mano Karl, all'ultimo momento staccò dalla parete sopra il letto un quadruccio con l'immagine della Madonna, lo infilò nella tasca interna della giacca, afferrò la valigia e uscì frettolosamente con Karl dalla cabina.

    «Adesso vado nell'ufficio e dico la mia a quei signori. Non ci sono più passeggeri, non c'è più da aver riguardi.» Il fuochista ripeteva queste parole in tutti i toni, e mentre camminava tentò di schiacciare colpendolo lateralmente col piede un topo che gli traversava la strada, ma riuscì soltanto a far sì che si infilasse più rapidamente nel buco che aveva fatto in tempo a raggiungere. Era lento di movimenti, perché aveva sì le gambe lunghe, ma troppo pesanti.

    Traversarono un reparto della cucina dove alcune ragazze che indossavano dei grembiuli sudici — li macchiavano apposta — lavavano delle stoviglie in grandi mastelli. Il fuochista chiamò una certa Line, le mise un braccio attorno ai fianchi e se la trascinò dietro per un pezzetto, mentre lei si stringeva civettuola al suo braccio. «È ora di paga, vuoi venire?», le chiese. «Perché dovrei fare questa fatica? portami piuttosto il denaro qua», rispose lei, sgusciandogli di sotto al braccio e correndo via. «Dove hai pescato quel bel ragazzo?», gridò ancora, ma non attese la risposta. Si udirono le risate di tutte le ragazze, che avevano interrotto il lavoro.

    Ma loro proseguirono, e giunsero a una porta sormontata da un piccolo frontone sorretto da cariatidi dorate. Per un arredamento di nave sembrava davvero un lusso eccessivo. Karl si accorse di non essere mai stato in quella parte della nave, che probabilmente durante la traversata era riservata ai passeggeri di prima e seconda classe, mentre adesso, in vista della pulizia generale, le porte di separazione erano state tolte. In effetti avevano già incontrato degli uomini che portavano una scopa sulla spalla e che avevano salutato il fuochista. Karl era stupito di quel gran movimento, sul suo interponte ne aveva visto ben poco. Lungo i corridoi correvano anche fili di linee elettriche, e si udiva continuamente suonare una piccola campana.

    Il fuochista bussò rispettosamente alla porta, e quando fu gridato «Avanti!», con un gesto della mano invitò Karl a entrare senza timore. Questi entrò, ma rimase accanto alla porta. Davanti alle tre finestre della stanza vide le onde del mare, e a contemplare il loro allegro movimento il cuore gli batteva, come se per cinque lunghi giorni non avesse visto mare in continuazione. Grandi bastimenti si incrociavano e cedevano al moto delle onde soltanto per quel che consentiva la loro pesantezza. Se si socchiudevano gli occhi, pareva che quelle navi oscillassero solo a causa del loro enorme peso. Sugli alberi avevano bandiere sottili ma lunghe che, pur se il movimento della nave le faceva tendere, ancora palpitavano irrequiete. Risuonarono dei colpi di salve, probabilmente da qualche nave da guerra, i cannoni di una di queste che passava non troppo distante, lucenti nel loro manto d'acciaio, erano come carezzati dall'andatura sicura, piana e tuttavia non orizzontale del bastimento. I piccoli battelli e le barche, almeno dalla porta li si poteva osservare solo di lontano, infilarsi numerosi nei varchi che si aprivano tra le grandi navi. Ma dietro tutto questo stava New York e guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli. Sì, in quella stanza si capiva bene dove si era.

    A un tavolo rotondo sedevano tre signori, un ufficiale di bordo nella sua uniforme blu e due funzionari della capitaneria di porto, che indossavano nere uniformi americane. Sul tavolo erano posate alte pile di documenti, che l'ufficiale scorreva per primo con la penna in mano per poi passarli agli altri due, che ora li leggevano, ora ne prendevano degli appunti, ora li riponevano nelle loro cartelle, quando uno di loro, che faceva quasi ininterrottamente un lieve rumore coi denti, non dettava al suo collega qualcosa in un verbale.

    Davanti alla finestra sedeva a una scrivania, con le spalle rivolte alla porta, un signore piuttosto piccolo, che armeggiava con grossi libroni allineati davanti a lui all'altezza del capo su un massiccio scaffale. Lì vicino c'era una cassaforte aperta e vuota, almeno a una prima occhiata.

    La seconda finestra era vuota e offriva la vista migliore. Invece accanto alla terza c'erano due signori che parlavano a bassa voce. Uno stava appoggiato vicino alla finestra, indossava anche lui l'uniforme di bordo e giocherellava con l'elsa della spada. Il suo interlocutore era rivolto verso la finestra e ogni tanto muovendosi lasciava intravvedere una parte delle decorazioni che ornavano il petto dell'altro. Era in abiti civili e aveva un sottile bastoncino di bambù che, poiché il signore teneva le mani poggiate sui fianchi, sporgeva anch'esso come una spada.

    Karl non ebbe molto tempo per guardar tutto, perché subito si avvicinò loro un servitore che, guardando il fuochista come se questi lì non avesse niente a che fare, gli chiese cosa voleva. Il fuochista rispose con voce sommessa, così com'era stata pronunciata la domanda, di voler parlare col signor cassiere capo. Il servitore da parte sua respinse questa preghiera con un gesto della mano, tuttavia andò in punta di piedi, evitando con un largo giro il tavolo rotondo, dal signore dei libroni. Questo signore — lo si vide chiaramente — alle parole del servitore si raggelò addirittura, ma alla fine si volse verso colui che voleva parlargli e agitò le mani, con aria di severo rifiuto, all'indirizzo del fuochista e per sicurezza anche del servitore. Allora il servitore tornò dal fuochista e disse, con tono sommesso come se gli stesse facendo una confidenza: «Se ne vada subito da questa stanza!».

    A questa risposta il fuochista guardò Karl, come se questi fosse il suo cuore al quale poter confidare in silenzio la propria pena. D'impulso Karl si staccò da lui, traversò la stanza di corsa tanto che urtò leggermente la sedia dell'ufficiale, il servitore gli corse dietro, curvo, con le braccia pronte a ghermire, come se desse la caccia a un insetto pericoloso, ma Karl arrivò per primo al tavolo del cassiere capo e vi si aggrappò, nel caso che il servitore cercasse di trascinarlo via.

    Naturalmente la stanza subito si animò. L'ufficiale al tavolo era balzato in piedi, i signori della capitaneria osservavano calmi ma attenti, i due signori accanto alla finestra si erano messi fianco a fianco e il servitore, ritenendo di esser fuori di luogo là dove i nobili signori manifestavano il proprio interesse, si fece indietro. Sulla porta il fuochista aspettava, teso, il momento in cui ci sarebbe stato bisogno del suo aiuto. Finalmente il cassiere capo fece un ampio giro a destra con la sua poltrona.

    Dalla tasca segreta che non si preoccupava di esporre agli sguardi di quella gente Karl pescò fuori il passaporto, che depose aperto sulla scrivania in luogo di ogni altra presentazione. Il cassiere capo parve trovare irrilevante quel passaporto, perché lo fece schizzar via con due dita, e Karl lo ripose in tasca, come se quella formalità fosse stata soddisfacentemente

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