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Chiacchiere tra amiche
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E-book250 pagine3 ore

Chiacchiere tra amiche

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Di cosa parlano le donne quando parlano di sesso?

Gracia, Chon e Marta sono amiche fin dagli anni dell’adolescenza. Le tre donne hanno passato i quaranta e, pur avendo idee molto diverse sulla vita, la loro è un’amicizia duratura, una di quelle che sopravvive al matrimonio, al divorzio e ai figli. Sono decenni che raccolgono l’una le confidenze dell’altra, che si raccontano tutto, e si sostengono a vicenda. Ma il loro prossimo appuntamento ha qualcosa di speciale: non sarà una serata come le altre, un puntuale aggiornamento sulle famiglie, i mariti, gli amanti e ovviamente il sesso. Ciascuna di loro si è prefissata uno scopo diverso che le altre ignorano, e nessuna sospetta che stanno per venire a galla dei segreti che renderanno quest’incontro unico. E irripetibile…

Pluripremiato in Spagna, il romanzo più caldo dell'estate

Amicizia, lealtà e sesso: tre donne destinate a diventare nemiche alle prese con i loro più torbidi segreti

«Un gruppo di donne che si prepara a esorcizzare i propri demoni interiori. Una prova di grande maturità narrativa per Del Val.»
Leer

«Con il suo ultimo libro, Del Val ci introduce nel modo di pensare delle donne.»
Delibros
L. Del Val
Nasce a Saragoza nel 1944. È giornalista e ha lavorato nelle emittenti radiofoniche spagnole più importanti. Scrive anche programmi televisivi di successo. Dal 1989 a oggi ha pubblicato sette romanzi vincendo numerosi premi. Per Chiacchiere tra amiche ha ricevuto il Premio Logroño de Novela.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2014
ISBN9788854168534
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    Chiacchiere tra amiche - L. Del Val

    EN760 - chiacchiere tra amiche - l del val.jpg150858.png

    760

    Original title: Reunión de amigas

    Copyright © 2013 Algaida Editores

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    All rights reserved.

    Realizzazione e traduzione dallo spagnolo a cura di Clara Serretta

    Prima edizione ebook: giugno 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6853-4

    www.newtoncompton.com

    L. Del Val

    Chiacchiere tra

    amiche

    Newton Compton editori

    01_OMINO-1.tif

    A Ernesto Sáenz de Buruaga,

    che è nato e cresciuto sulle rive del padre Ebro.

    Parte prima

    Esposizione

    [Frammento del primo file del pendrive di Marta]

    Gli uomini, quando portano a spasso i figli o i cani, hanno spesso un’espressione annoiata. Invece le donne, nella stessa circostanza, assumono un’aria assorta che, a un certo punto, davanti una qualsiasi smorfia del cucciolo, si riempie di luce e di vita.

    Quasi tutti i giorni, di pomeriggio in inverno e al crepuscolo in primavera, vado a passeggiare in una specie di parco che qualche candidato al consiglio municipale ha concepito in periodo elettorale come luogo di svago e che invece adesso serve solo a lasciar sedimentare gli escrementi dei cani. E osservo gli uomini, che di frequente hanno l’aria di vittime sacrificali, come se volessero proiettare sugli altri passanti la fatica che gli costa portare a passeggio il cane o il figlio, mentre le donne sembrano camminare avvolte da un’aura virtuale che le isola da tutto e le difende dalla noia dei loro compagni.

    Naturalmente sto generalizzando. E le generalizzazioni penalizzano i singoli individui…

    […]

    Ho cominciato a scrivere questo diario che nessuno leggerà perché ho bisogno di spiegarmi quello che succede e, soprattutto, quello che mi è successo. E ho voluto, apposta, parlare di uomini e donne, in modo che se qualcuno si trovasse a leggere queste prime righe non potrebbe stabilire con certezza se chi le ha scritte è maschio o femmina.

    Da anni virago e maschilisti, filosofi e psichiatri, provano a stabilire le differenze sostanziali ed estrinseche tra uomini e donne, eppure bastano poche parole sullo schermo di un computer perché nessuno sia in grado di stabilire il genere sessuale dell’autore… o dell’autrice.

    Un paio d’anni fa ho letto un romanzo che mi ha sorpreso. La verità è che ultimamente non leggo molto: ho smesso di interessarmi alla lettura quando mi hanno cacciato dalla scuola in cui insegnavo Letteratura. Nessuno ha mosso un dito. Né i professori neutrali, né i sindacalisti, né quelli che avevano la tessera del partito nel portafoglio, nella speranza di essere nominati un giorno consulenti al ministero dell’Istruzione e redigere l’ennesima riforma della scuola, in modo che tutti sappiano quanto è stronzo e potente un ministro.

    Perché questa società si preoccupa solo dei più stronzi, di quelli che vogliono cacare in testa a tutti: nello sport, nella finanza, nella politica, nella corruzione… Gli scienziati vengono presi in considerazione soltanto se scoprono qualcosa che sia abbastanza facile da comprendere. Se un luminare scopre qualcosa di fondamentale nel campo della fisica quantistica, ma la scoperta non può essere divulgata da esempi didascalici alla portata di un appassionato di sport, comunque non conta niente, non ha cacato in testa a nessuno.

    Rileggo quello che ho scritto e penso che forse non succede spesso che una persona che insegna Letteratura in un prestigioso centro educativo faccia così tanti riferimenti agli stronzi, per quanto metaforici, ma ormai è da tanto tempo che ho abbandonato la pedagogia e che nutro per l’ortodossia lo stesso rispetto che ho per la conferenza stampa di un qualsiasi ministro dell’Istruzione.

    […]

    Dicevo che ho letto un romanzo che mi ha sorpreso. Si trattava di un triangolo sentimentale, il classico triangolo che ha come protagonisti una coppia e l’amico del marito. Ciò che lo rendeva sorprendente era però che solo verso la metà della narrazione, tutta in prima persona, si scopre che marito e moglie sono neri, mentre l’amico di lui è bianco. Soltanto a quel punto i misteriosi dettagli, i dubbi enigmatici e i dialoghi quasi surreali cominciano ad avere un senso in quel puzzle disordinato, e la discriminazione razziale diventa un tema evidente.

    Comunque, questo non è un romanzo, ma un diario che nessuno leggerà, a meno che un giorno non perda il pendrive che mi porto sempre dietro e qualcuno, incuriosendosi, ne esamini il contenuto. Chiaramente, a quel punto, potrei già essere in carcere, essermi suicidata o magari aver cambiato identità.

    Parlo di carcere perché ci sono giorni in cui medito di trasformarmi in un’assassina seriale di mariti; a volte valuto con freddezza le possibilità di successo, altre scoppio a piangere, perché non ho un marito come molte delle mie amiche, qualcuno a cui mendicare un abbraccio, anche uno di quegli abbracci etilici che gli uomini si scambiano durante la cena del venerdì.

    La cena del venerdì! Dovrebbe esserci una parziale attenuante se una donna uccide suo marito dopo una di queste. Non mi azzardo a dire totale, perché significherebbe depenalizzare le colpe del marito, ma bisogna riconoscere che non è la stessa cosa assassinarlo in luna di miele o il giorno della prima comunione di sua figlia, alla luce del sole, o il venerdì a tarda notte, quando la moglie sta di fronte al lavabo della cucina, con il ripiano pieno di bicchieri e piatti sporchi e lui osserva che il filetto di vitello mancava un po’ di sale.

    Lei si è tolta le scarpe col tacco, ma ha ancora le calze e il vestito da cocktail sotto il grembiule e sta cominciando a domandarsi, furiosa, perché ha passato un giorno e mezzo a preparare la cena; è allora, mentre tiene in mano il piatto con gli asparagi – in puro caolino, ha assicurato chi le ha venduto il set – che si convince a tirarlo contro quell’imbecille che ha a sua volta ben poco sale in zucca… Poi però ha un lampo di lucidità, quel pizzico che le è rimasto dopo una noiosissima serata, e per un decimo di secondo suo marito ha salva la vita.

    […]

    Perché le donne si sposano? Qualcuna potrebbe ricordarmi dell’ancestrale richiamo evolutivo della specie, ma ormai basta una discreta indipendenza economica per andare a una banca del seme e ordinare un bambino a proprio gusto. No, non dico questo, mi chiedo perché si siano sposate con i rispettivi mariti. Com’è possibile che quel soggetto che sospira e ansima davanti a una partita di calcio in televisione, un tempo sia apparso a sua moglie come Harrison Ford, anche se nella sua famiglia non ci sono mai state arche perdute e suo padre, cioè suo suocero, non è Sean Connery, ma un funzionario o – che so – un micologo; ci vuole una certa immaginazione a vedere una passeggiata in pineta alla ricerca di funghi come un’avventura appassionante.

    E non si tratta di un caso preciso, particolare e straordinario; più che altro ripenso ai mariti delle mie amiche e non trovo nessuna ragione obiettiva per la quale una donna mediamente intelligente dovrebbe un giorno scoprirsi innamorata di colui che poi diventerà il suo uomo, e ritrovarsi, nervosa, senza sapere cosa mettersi per andare in una discoteca in cui nessuno presterà attenzione a ciò che indossa, ma più che altro a ciò che il vestito lascia scoperto: braccia, gambe, o la soffice parte superiore delle tette. Nessun uomo mi ha mai detto che portavo una bella maglia o dei bei pantaloni, o delle scarpe spiritose. Be’, il termine spiritoso è d’uso esclusivamente femminile e noi donne lo utilizziamo senza distinzioni per indicare un ristorante o una borsa; per i maschi invece ha a che vedere solo con i comici e le loro battute perché, anche se si tratta di uomini di lettere, il significato profondo dell’espressione dotato di spirito se lo sono del tutto dimenticato.

    Un marito non farà mai riferimento ai vestiti che porta la propria moglie, né tantomeno lo faranno i mariti altrui, tutti presi a calcolare le proporzioni di quello che il vestito nasconde; e questo solo se ancora non la conoscono, perché se invece si tratta di una donna che fa parte della solita cerchia di amici, potrebbe anche avere indosso un voluminoso e ingombrante abito da flamenco in un caldo giorno d’agosto e nessuno se ne accorgerebbe.

    Chon, la padrona di casa

    «E

    non posso scendere?», le chiede il figlio.

    «No, non puoi. È una riunione per femmine», gli risponde Carla, prima che lo faccia sua madre.

    «E non può venire nemmeno papà?», insiste lui.

    «Juan è in viaggio», gli spiega l’altra figlia, adolescente, «quindi no, sarebbe impossibile».

    Chon, la madre di tutti e due, non può non notare che suo figlio chiama suo marito papà, mentre sua figlia lo chiama Juan, perché è il patrigno, e cerca di evitare il senso di colpa in agguato, seguendo le indicazioni che le ha dato lo psicologo.

    Se gli psicologi servono a qualcosa, è a mettere a tacere i nostri sensi di colpa, proprio come i sacerdoti servono ad assolverci dai nostri peccati. In realtà, psicologi e sacerdoti lavorano nello stesso settore, con la differenza che i primi sono più permissivi, i secondi più economici.

    Era stato proprio Juan a consigliarle di rivolgersi a uno psicologo quando sua figlia, ormai adolescente, aveva cominciato a prendere brutti voti a scuola. Una volta che collegarono il tutto – il divorzio, l’abbandono della religione, il matrimonio con Juan e i brutti voti –, non fu difficile stabilire un parallelismo anche tra preti e psicologi.

    «E di che dovete parlare?», domanda il piccolo, con quell’insistenza tipica dei bambini che non ottengono una risposta chiara alle loro domande.

    «Di mariti. Le donne quando si vedono tra loro parlano dei mariti», risponde la grande, con l’ingenua sicurezza dei quindici anni.

    «È un appuntamento tra amiche, non tra donne», precisa la madre, cercando comunque di non contraddire sua figlia.

    «Infatti», fa la ragazza. «Tra amiche si parla sempre male dei mariti».

    Chon non vuole mettersi a battibeccare inutilmente, ma non può nemmeno permettere che sua figlia imponga il proprio punto di vista.

    «Noi mogli siamo persone, e le persone parlano di un sacco di cose… Di quello che pensano, del cinema, di ciò che succede in famiglia…».

    «E cioè dei loro mariti», insiste l’adolescente.

    Chon soffoca un sospiro, con un colpo secco del polso gira l’omelette, e una volta che si è dorata da entrambi i lati la mette sul piatto del figlio.

    «Mangio la frittata quasi tutte le sere», borbotta lui.

    «Ma tutte le sere, nessuna esclusa, hai qualcosa da mangiare, a differenza di milioni di altri bambini», lo rimbecca Chon.

    «Dài, mamma, adesso non cominciare con la solita lagna sui bambini dell’Africa», protesta la ragazza.

    «Dell’Africa, del Pakistan, dell’India, e anche di alcune zone del Brasile, del Perù e del Venezuela…», insiste la madre.

    «Tu prendevi bei voti in Cono?», le chiede il piccolo, dopo che lei ha dato prova di conoscere così tanti luoghi del pianeta.

    «Sì, a dire il vero, sì», gli risponde Chon, quando alla fine scioglie l’apocope e capisce che suo figlio si riferisce a quella materia ampollosamente denominata Conoscenza dell’ambiente. «Ai miei tempi si chiamava Geografia», aggiunge con una punta di nostalgia.

    Le tornano alla memoria gli inquieti anni delle superiori e dell’adolescenza, l’apparizione di Gracia, che si era trasferita da Bilbao a Madrid, perché suo padre aveva ricevuto una promozione al lavoro, le interminabili confidenze, le relazioni brevi, la costante insicurezza al momento di vestirsi, l’uniforme del collegio, che da una parte odiava, ma dall’altra le risparmiava di litigare con sua madre e di dover scegliere cosa indossare. Deve sforzarsi di tener presente, come se fosse un dovere terapeutico, che Carla, la figlia che ha avuto dal suo primo marito, ha adesso la stessa età che aveva lei quando ha conosciuto Gracia.

    «Viene zia Gracia?», le chiede la figlia.

    Gracia non è zia di nessuno dei suoi figli, ma è stata al loro fianco da quando sono nati e loro le vogliono più bene e la vedono più spesso dei veri zii, i fratelli e le sorelle della madre e dei rispettivi padri.

    «Sì, viene», la informa la madre, «ma abbiamo molte cose di cui parlare. Un bacio e poi sparisci».

    «Abracadabra… Spariti!». Il piccolo imita un mago che ha visto poco tempo prima in televisione.

    Chon pensa che sarebbe bellissimo, in alcune occasioni, far sparire i propri figli, soprattutto in serate come questa, in cui è riuscita a organizzare da lei una riunione tra amiche molto speciale. È da un mese che non fa che pensarci. Le hanno ripetuto così tante volte che casa sua è il posto più sicuro che per tutta la settimana si è sentita inquieta e nervosa: in fin dei conti organizzare cospirazioni di questo genere non è nelle sue corde. L’unica certezza che ha è che non desidera affatto che all’improvviso appaiano i suoi figli e trovino un gruppo di donne prese e comprese da simili faccende.

    [Frammento del secondo file del pendrive di Marta]

    Un’amica appiccicosa può essere fastidiosa e inopportuna tanto quanto un marito. A un’amica appiccicosa non si può raccontare quasi nulla. Se le dici che non dormi la notte, ti raccomanderà le pillole migliori del mondo; se cedi alla tentazione di informarla del fatto che ti sei beccata dei funghi vaginali, conoscerà il più bravo ginecologo di tutta Europa che, casualmente, vive proprio nel palazzo accanto al suo; e se in un momento di stupida debolezza le confessi che hai intenzione di flirtare con qualcuno, farà un’espressione severa e, anche se nessuno ormai crede più alle pene del secondo cerchio dell’Inferno, ti parlerà dell’ aids come se facesse parte di un gruppo di ricerca dell’Istituto Pasteur.

    […]

    Vedo sullo schermo del computer che ho scritto la parola flirtare, che mi piace molto. Quando avevo dieci o undici anni e rubavo dalla biblioteca dei miei genitori alcuni romanzi di Agatha Christie vi trovavo sempre questo termine, la cui traduzione letterale risultava piuttosto ingenua. Civettare, diceva il dizionario che usavo per le lezioni di inglese. Però, flirtare doveva essere qualcosa di un po’ diverso, visto che in alcune circostanze un uomo o una donna finivano per uccidere qualcuno per vendicarsi di un flirt. E tra le persone che conoscevo non c’era una che avrebbe ucciso per colpa di una civetteria.

    Oggi, se dici di avere un flirt, la gente ti guarda e pensa che ti mantieni bene per essere prossima alla pensione, anche se non hai nemmeno cinquant’anni, perché è opinione diffusa che solo le persone nate nella prima metà del secolo scorso usino questo termine. A me però flirtare piace di più di invischiarsi, che mi ricorda il vischio, quella specie di pastone che i ragazzini del paese usavano per acchiappare gli uccellini: mi dispiaceva vedere i poveri passerotti che cercavano di staccarsi da quella sostanza appiccicosa, sbattendo le ali tanto spaventati quanto impotenti. Se invischiare vuol dire anche catturare un uccellino, o essere catturati, non c’entra nulla con qualcosa che invece dovrebbe rendere più liberi, perché in realtà un flirt altro non è che un modo per dimostrare la propria autonomia e la propria autostima… certo, con tutte queste distinzioni semantiche sembro una linguista che vuol fare la figa, ma tanto non sono altro che la copy di un’agenzia pubblicitaria, o come mi ha definito il direttore nell’organigramma che tanto nessuno legge, una writerwoman.

    […]

    Tra tutte le mie amiche, Gracia è una delle più appiccicose. È anche però una di quelle a cui voglio più bene. Ci ha accomunato da quando siamo piccole il fatto di avere famiglie dalle caratteristiche simili. Lei era figlia di un banchiere e io di un militare. Ogni volta che i nostri genitori ricevevano una promozione, noi dovevamo cambiare città, e quindi anche scuola. Quando alla fine siamo approdate a Madrid avevamo già vissuto in una mezza dozzina di città e frequentato altrettante scuole. Io arrivai a metà anno e a presentarci fu Chon, la madre Teresa di Calcutta di tutte le ragazze che arrivavano ad anno iniziato al collegio dell’Assunzione.

    Il collegio dell’Assunzione si trovava nel quartiere di Salamanca e ancora si notava che aveva sofferto del passaggio da scuola esclusivamente femminile a istituto misto. Più o meno come quando le vecchie osterie cambiano gestione e i nuovi proprietari buttano via tutta la roba vecchia e gli arredi di dubbio gusto e vi sistemano delle sedie minimaliste che fanno a pugni con lo spesso rivestimento di intonaco delle pareti: il risultato è un ibrido e non sai mai se le tortine di crema sapranno di trippa alla madrilena o se ti serviranno le animelle con la marmellata di fragole.

    Tendo a credere che noi che siamo cresciute in famiglie che cambiavano città frequentemente siamo maturate più in fretta, perché ci siamo abituate a lasciare le nostre amiche e a farcene di nuove e siamo riuscite a non affezionarci troppo alle città che poi dovevamo abbandonare e a non nutrire troppe speranze nei confronti del posto in cui i nostri genitori venivano trasferiti. In un certo senso, era un po’ come fasciarsi la testa prima di rompersela, però allo stesso tempo ci evitava precoci delusioni.

    Ho conosciuto Gracia quando si era appena ripresa da una delusione d’amore per un ragazzo di qualche anno più grande, un certo Francisco José, un nome che più spagnolo non si può. Quel tipo mi era sembrato profondamente stupido sin dal primo giorno, ma Gracia invece pensava che avesse tutte le qualità di un attore del cinema e di un cantante di un gruppo pop. Noi ragazze di solito ci innamoriamo perdutamente solo degli stupidi e delle canaglie, non ho mai capito perché. Francisco José però era solo uno stupido e non una canaglia: le canaglie ti agitano e ti sconvolgono e uscire con una di loro per un po’ è come fare un master all’Istituto dell’Amore del Massachusetts, che non esiste, anche se dovrebbe, soprattutto per il bene di ragazze come Gracia.

    Gracia era una molto melodrammatica e, da quando aveva perso colui che considerava allora il grande amore della sua vita, replicava a qualsiasi osservazione con una sfilza di sospiri. Mi ricordo di un

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