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Confusa e innamorata
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E-book413 pagine6 ore

Confusa e innamorata

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Info su questo ebook

«Una sorpresa. I fan di Jojo Moyes lo ameranno.»
Booklist

Può davvero mancarti qualcosa che non hai mai avuto?

Jubilee Jenkins non è una bibliotecaria qualsiasi. Ha una rarissima allergia al contatto umano: sfiorare la pelle di qualcun altro potrebbe letteralmente ucciderla. Ma dopo essersi ritirata in completa solitudine per quasi dieci anni, Jubilee decide di affrontare di nuovo il mondo, nonostante i rischi. Armata di guanti, maniche lunghe e della sua fedele bicicletta, finalmente si avventura oltre la porta, verso il proprio futuro. Anche Eric Keegan ha parecchi grattacapi. Ha una figlia che ha smesso di parlargli dopo che il suo matrimonio è naufragato e un figlio adottivo brillante ma problematico, che si esercita nel tentativo di riuscire a usare la telecinesi. Eric si sta sforzando di rimettere in sesto la propria vita e diventare il padre – e l’uomo – che vorrebbe disperatamente essere. Quando incontra casualmente al bancone della biblioteca Jubilee, molto bella ma eccentrica, non desidera altro che poterle stare accanto. Ben presto Jubilee ed Eric si troveranno a vivere qualcosa che sognano, ma che è totalmente fuori dalla loro portata. O forse no?

Emozionante come Io prima di te
Commovente come La risposta è nelle stelle

«Una storia d’amore che diverte e fa battere il cuore.»
Publishers Weekly

«Una delle storie d’amore più intense e profonde dell’anno.»
RealSimple

«Colleen Oakley si rivela una maestra nell’intrecciare i fili di questa storia dai personaggi così affascinanti. Soprattutto Jubilee. I lettori faranno il tifo per lei e saranno felici dei suoi trionfi.»
Kirkus Reviews
Colleen Oakley
Vive ad Atlanta e si dedica a tempo pieno alla scrittura. I suoi articoli, saggi e interviste sono stati pubblicati su «New York Times», «Ladies’ Home Journal», «Marie Claire», «Women’s Health », «Redbook», «Parade» e «Martha Stewart Weddings». Prima di pubblicare romanzi, è stata capoeditor di «Women’s Health» e senior editor di «Marie Claire». Confusa e innamorata è il suo primo libro pubblicato con la Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2018
ISBN9788822718747
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    Anteprima del libro

    Confusa e innamorata - Colleen Oakley

    1818

    Titolo originale: Close Enough to Touch

    Copyright © 2017 by Colleen Tull

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Marta Silvetti e Daniela Desperati

    Prima edizione ebook: marzo 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1874-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    Colleen Oakley

    Confusa e innamorata

    Newton Compton editori

    A mia sorella maggiore, Megan, per tutto.

    Non voglio l’istruzione, o la dignità, o la rispettabilità.

    Voglio questa musica, e quest’alba,

    e il calore della tua guancia contro la mia.

    Rumi

    Indice

    PARTE PRIMA

    Capitolo uno. Jubilee

    Capitolo due. Eric

    Capitolo tre. Jubilee

    Capitolo quattro. Eric

    Capitolo cinque. Jubilee

    Capitolo sei. Eric

    Capitolo sette. Jubilee

    Capitolo otto. Eric

    PARTE SECONDA

    Capitolo nove. Eric

    Capitolo dieci. Jubilee

    Capitolo undici. Eric

    Capitolo dodici. Jubilee

    Capitolo tredici. Eric

    Capitolo quattordici. Jubilee

    Capitolo quindici. Eric

    Capitolo sedici. Jubilee

    Capitolo diciassette. Eric

    Capitolo diciotto. Jubilee

    Capitolo diciannove. Eric

    Capitolo venti. Jubilee

    Capitolo ventuno. Eric

    Capitolo ventidue. Jubilee

    PARTE TERZA

    Capitolo ventitré. Jubilee

    Capitolo ventiquattro. Eric

    Capitolo venticinque. Jubilee

    Capitolo ventisei. Eric

    Capitolo ventisette. Jubilee

    Epilogo

    Jubilee

    Nota dell'autrice

    Ringraziamenti

    PARTE PRIMA

    Puoi rimanere tranquillo quanto vuoi, ma un giorno o l’altro qualcuno ti troverà.

    Haruki Murakami, 1Q84

    (Vent’anni fa)

    the new york times

    La ragazza che non può essere toccata

    di William Colton

    A un primo sguardo Jubilee Jenkins è una bambina qualunque di terza elementare. Saprebbe dirti a memoria i nomi di tutte e tre le Superchicche disegnate sulla sua magliettina (e lo fa, se glielo chiedi), e indossa di proposito calzini spaiati, cosa che a quanto pare è di rigore alla Griffin Elementary. Elastici colorati impediscono ai suoi vaporosi capelli color ruggine di finirle sul viso.

    E la Jenkins ha in comune con tante altre bambine americane il fatto di soffrire di allergia. Secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale dell’Allergia, le allergie e l’asma nei bambini sono in aumento dalla metà degli anni Ottanta, incluse le allergie al cibo, che causano sempre maggiore preoccupazione tra gli esperti.

    Ma la Jenkins non è allergica al burro di noccioline. O alla puntura delle api. O alla pelle morta degli animali. O a qualsiasi altro dei più comuni allergeni. Jubilee Jenkins è allergica alle persone.

    Nata nel 1989 da Victoria Jenkins, madre single, Jubilee era una neonata come tante. «Era in perfetta salute. A sette settimane dormiva tutta la notte, a dieci mesi camminava», dice la madre. «Solo dai tre anni in poi abbiamo iniziato ad avere dei problemi».

    È stato allora che la signora Jenkins, appena promossa al ruolo di direttrice di negozio a Fountain City, Tennessee, ha iniziato a notare degli sfoghi sulla pelle di Jubilee. Ma non si trattava solo di qualche bolla.

    «Erano orribili, quegli enormi pomfi in rilievo, un’orticaria che la faceva impazzire di prurito, lunghi frammenti di pelle squamosa le ricoprivano le braccia e il viso», afferma la signora Jenkins. «Urlava come una pazza per il dolore». Nell’arco di sei mesi, la signora Jenkins si recò più di venti volte dal suo medico di famiglia, così come al pronto soccorso, invano. Jubilee dovette essere rianimata tre volte con l’adrenalina in seguito a uno shock anafilattico. I dottori erano perplessi.

    E lo furono per i tre anni successivi, durante i quali Jubilee fu sottoposta a ogni tipo di test disponibile nel ventesimo secolo.

    «Le sue braccine sembravano puntaspilli», dichiara la signora Jenkins. «E abbiamo provato di tutto a casa: abbiamo cambiato detersivo, tenuto diari alimentari, eliminato tutti i tappeti, ridipinto le pareti. Ho anche smesso di fumare!».

    È stato solo quando hanno conosciuto il dottor Gregory Benefield, un allergologo dell’Università Emory di Atlanta, che hanno cominciato finalmente a ottenere delle risposte. (continua a pagina 19B)

    Capitolo uno

    Jubilee

    Una volta, un ragazzo mi ha baciata e sono quasi morta.

    Mi rendo conto che questa frase può essere facilmente liquidata come l’affermazione melodrammatica tipica di un’adolescente, detta con voce stridula e puntellata da gridolini. Ma io non sono un’adolescente. E intendo letteralmente. La sequenza bruta di eventi si è svolta così:

    Un ragazzo mi ha baciata.

    Le labbra hanno iniziato a formicolarmi.

    La lingua si è gonfiata fino a riempirmi la bocca.

    La gola mi si è serrata. Non riuscivo a respirare.

    È diventato tutto nero.

    Perdere i sensi dopo il primo bacio è abbastanza umiliante, ma lo è di più scoprire che quel ragazzo mi aveva baciato per sfida. Per scommessa. Che le mie labbra sono per loro natura così impossibili da baciare, che ci erano voluti cinquanta dollari per convincerlo a poggiare le labbra sulle mie.

    E, colpo di scena: sapevo che il bacio avrebbe potuto uccidermi.

    Almeno in teoria.

    Quando avevo sei anni mi fu diagnosticata una dermatite da contatto di tipo iv causata da cellule cutanee estranee. Terminologia medica per dire che: sono allergica alle altre persone. Sì, signori. E sì, è raro, tanto raro che sono una delle pochissime persone ad averla in tutta la storia dell’umanità. Sostanzialmente, mi ricopro di pomfi e orticaria quando la pelle di qualcuno entra in contatto con la mia.

    Il medico che finalmente fece la diagnosi teorizzò anche che le gravi reazioni che avevo avuto, gli episodi di shock anafilattico, erano dovute sia al fatto che il mio corpo non sopporta il contatto prolungato con la pelle altrui, sia al contatto orale, ad esempio se bevo dal bicchiere di qualcun altro e la sua saliva finisce nella mia bocca. «Basta scambiarsi il cibo e le bevande. Niente abbracci. Niente contatti. Niente baci. Rischi di morire», disse. Ma io ero una ragazzina di diciassette anni impacciata e impaurita, vicinissima alle labbra di Donovan Kingsley, e le conseguenze, per quanto fatali, non erano il mio primo pensiero. In quel momento, nel preciso secondo mozzafiato in cui le sue labbra si poggiarono sulle mie, oserei dire che mi sembrò quasi che ne valesse la pena.

    Fino a quando non sono venuta a sapere della scommessa.

    Quando sono tornata a casa dall’ospedale, sono andata dritta nella mia stanza. E non ne sono più uscita, nonostante mancassero ancora due settimane alla fine dell’ultimo anno delle superiori. Il diploma mi fu inviato in seguito, nel corso dell’estate.

    Tre mesi dopo, mia madre sposò Lenny, il proprietario di una catena di distributori di benzina di Long Island. Fece un’unica valigia e se ne andò.

    Questo è successo nove anni fa. E da allora non sono mai più uscita di casa.

    Non è che mi sia svegliata una mattina e abbia pensato: vivrò da reclusa. Neanche mi piace la parola reclusa. Mi fa pensare al ragno velenoso che se ne sta lì in agguato, pronto a iniettare il suo veleno nella prima creatura che gli si presenti a tiro.

    È solo che dopo il mio primo bacio quasi letale, comprensibilmente, credo, non sono più voluta uscire di casa, per paura di imbattermi in uno dei miei compagni di scuola. E così non l’ho fatto. Ho trascorso l’estate nella mia stanza, ad ascoltare i Coldplay a ripetizione e a leggere. Ho letto tantissimo.

    Mamma mi prendeva in giro per questo. «Hai sempre il naso in qualche libro», diceva, alzando gli occhi al cielo. Ma non erano solo libri. Leggevo anche riviste, quotidiani, pamphlet, qualsiasi cosa trovassi in giro. E immagazzinavo gran parte delle informazioni, senza alcuno sforzo.

    A mamma piaceva quell’aspetto. Mi faceva recitare a memoria, agli amici (non molti) e ai fidanzati (troppi), le bizzarre nozioni che avevo accumulato nel corso del tempo. Come il fatto che lo scricciolo azzurro superbo è la specie di uccello meno leale al mondo, o che la pronuncia originaria del nome di Dr. Seuss fa rima con Joyce, o che Leonardo Da Vinci ha inventato la mitragliatrice (cosa che non dovrebbe sorprendere nessuno, visto che ha inventato migliaia di cose).

    Poi, raggiante, alzava le spalle, sorrideva e diceva: «Non so proprio da dove sia uscita fuori». E mi sono sempre chiesta se non ci fosse un fondo di verità nella sua affermazione, perché ogni volta che prendevo coraggio e chiedevo di mio padre, come si chiamasse, ad esempio, lei sbottava e diceva cose come «Che importanza ha? Tanto non è qui, no?».

    Sostanzialmente, ero un fenomeno da baraccone. E non solo perché non sapevo chi fosse mio padre o perché sapevo a memoria un mucchio di cose. Sono abbastanza certa che queste non siano caratteristiche uniche. Era a causa della mia patologia, come veniva definita dalla gente: patologia. E proprio per colpa della mia patologia il mio banco alle elementari doveva stare almeno a due metri di distanza dagli altri; dovevo starmene seduta su una panchina da sola a ricreazione a guardare gli altri che facevano il trenino sullo scivolo, giocavano a rubabandiera e oscillavano agevolmente aggrappati alle barre sospese; il mio corpo era ricoperto di magliette a maniche lunghe, pantaloni e muffole, il tessuto ricopriva ogni centimetro di pelle nella remota possibilità che i ragazzini dai quali mi tenevo a debita distanza superassero accidentalmente i confini della mia personale bolla di vetro; me ne stavo a guardare a bocca aperta le madri che abbracciavano i figli all’uscita di scuola stritolando i loro corpi minuscoli, cercando di ricordare cosa si provava.

    A ogni modo, mescola tutti gli ingredienti: la mia patologia, l’incidente del ragazzo che mi baciò quasi uccidendomi, la partenza di mia madre, et voilà! La ricetta perfetta per finire reclusa.

    O forse non è stato niente di tutto ciò. Forse mi piace semplicemente starmene da sola.

    In ogni caso, questo è quanto.

    E ora, ho paura di essere diventata il Boo Radley della situazione. Non sono pallida né ho una brutta cera, ma temo che i ragazzini del quartiere abbiano iniziato a farsi domande sul mio conto. Forse passo troppo tempo a fissarli dalla finestra mentre sfrecciano sui loro monopattini. Ho comprato delle tende a pannello blu e le ho appese a ogni finestra qualche mese fa, e ora cerco di nascondermici dietro e spiare fuori, ma potrei sembrare ancora più stramba, se qualcuno se ne accorgesse. Non ci posso fare nulla. Mi piace guardarli giocare e mi rendo conto che suoni inquietante, messa così. Ma mi fa piacere vederli divertirsi, essere testimone di un’infanzia normale.

    Una volta, un ragazzino mi ha guardato dritto negli occhi e poi si è voltato verso un suo amico per dirgli qualcosa. Si sono messi a ridere. Non sono riuscita a sentire, così ho fatto finta che abbia detto qualcosa come: «Guarda, Jimmy, ecco di nuovo quella signora così carina e gentile». Ma temo che fosse più simile a: «Guarda, Jimmy, è quella signora pazza che mangia i gatti». Per la cronaca, non lo faccio. Non mangio gatti. Ma Boo Radley era un brav’uomo ed è tutto quello che si diceva di lui.

    Squilla il telefono. Alzo lo sguardo dal libro e fingo di prendere in considerazione l’idea di non rispondere. Ma so che lo farò. Anche se questo significa lasciare la logora seduta della mia poltrona di velluto e fare i diciassette passi (sì, li ho contati) fino alla cucina per alzare la cornetta giallo senape del telefono, dal momento che non possiedo un cellulare. Anche se probabilmente è uno dei call center che chiamano in continuazione o mia madre, che chiama solo tre o quattro volte l’anno. Anche se sono arrivata al punto del libro in cui il detective e l’assassino sono finalmente nella stessa chiesa dopo aver giocato al gatto e al topo per le ultime 274 pagine. Risponderò per lo stesso motivo per cui rispondo sempre al telefono: mi piace sentire la voce di qualcuno. O forse mi piace sentire la mia.

    Driiiiiiiiiinnnnn!

    Mi alzo.

    Giù il libro.

    Diciassette passi.

    «Pronto?»

    «Jubilee?».

    È la voce di un uomo che non riconosco e mi chiedo cosa voglia vendermi. Una multiproprietà? Una connessione internet otto volte più veloce? O forse vuole fare un sondaggio. Una volta ho parlato con uno per quarantacinque minuti dei miei gusti preferiti di gelato.

    «Sì?»

    «Sono Lenny».

    Lenny. Il marito di mia madre. L’ho incontrato solo una volta, anni fa, durante i cinque mesi in cui lui e mia madre sono usciti insieme prima che lei si trasferisse a Long Island. La cosa che mi ricordo meglio di lui: aveva i baffi e se li accarezzava continuamente, come fossero un cane leale attaccato alla sua faccia. Era anche tanto formale da risultare fastidioso. Mi ricordo che ho pure pensato di inchinarmi di fronte a lui, anche se era basso. Come se facesse parte della famiglia reale o chissà che.

    «Ok».

    Si schiarisce la gola. «Come stai?».

    La mia mente è partita. Sono abbastanza sicura che non sia una telefonata di cortesia, dal momento che Lenny non mi ha mai chiamato prima.

    «Tutto bene».

    Si schiarisce di nuovo la gola. «Ecco, lo dico e basta. Victoria, Vicki…». Gli si spezza la voce e cerca di mascherarlo con un colpetto di tosse, che si trasforma in un attacco convulso. Io tengo il ricevitore con entrambe le mani attaccato all’orecchio mentre lo ascolto tossire. Mi chiedo se porta ancora i baffi.

    La tosse si placa. Lenny inspira in silenzio. E poi: «Tua madre è morta».

    Lascio che la frase si insinui nel mio orecchio e si fermi lì, come un proiettile che un mago ha bloccato con i denti. Non voglio che vada oltre.

    Ancora con il ricevitore in mano, appoggio la schiena alla carta da parati coperta di allegre ciliegie rosse e scivolo verso il basso, fino a sedermi sul linoleum lacero e scheggiato, pensando all’ultima volta che ho visto mia madre.

    Indossava un maglioncino, un cardigan color malva di due taglie più piccole e le perle. È stato tre mesi dopo che quel ragazzo mi ha baciata e per poco non sono morta e, come ho già detto, avevo trascorso l’estate perlopiù nella mia stanza. Ma avevo passato anche gran parte del tempo a lanciare occhiatacce a mia madre ogni volta che la incontravo nel corridoio, considerando che tutta quella faccenda non avrebbe mai avuto luogo se non avesse voluto trasferirsi da Fountain City, Tennessee, a Lincoln, New Jersey, tre anni prima.

    Ma onestamente, quella era l’ultima delle sue colpe di madre. Era semplicemente la più recente e la più tangibile per cui essere arrabbiata con lei.

    «Ecco la nuova me», disse, facendo una piroetta in fondo alle scale. Il movimento sprigionò nell’aria l’odore stucchevole del suo profumo alla vaniglia.

    Io ero seduta sulla poltrona di velluto a leggere L’abbazia di Northanger e a mangiare biscotti alla menta direttamente dalla confezione.

    «Non sembro la moglie di un miliardario?».

    Non lo sembrava. Sembrava la versione sciatta di June Cleaver. Tornai al mio libro.

    Sentii il fruscio familiare del cellophane mentre affondava la mano nella tasca posteriore in cerca del pacchetto di sigarette, e il click dell’accendino.

    «Tra qualche ora me ne vado, sai?». Sospirò e si sedette sul cuscino del divano davanti a me.

    Io alzai lo sguardo e lei buttò un occhio alla porta e all’unica valigia che aveva preparato («Solo questa ti porti?», le avevo chiesto quella mattina. «Di cos’altro potrei aver bisogno?», aveva risposto lei. «Da Lenny c’è tutto». E poi aveva ridacchiato, cosa ancora più strana del fatto che indossasse le perle, un set maglioncino e cardigan e che facesse piroette).

    «Lo so», dissi. I nostri sguardi si incrociarono e pensai a quella notte, mentre ero a letto e avevo sentito la porta della mia stanza aprirsi con un cigolio. Sapevo che era lei, ma ero rimasta immobile, fingendo di dormire. Lei era rimasta lì per un bel po’, così a lungo che mi ero riaddormentata prima che se ne andasse. E non so se fu la mia immaginazione o se davvero l’avevo sentita tirare su con il naso. Piangere. Ora mi chiedo se stesse cercando di trovare il coraggio di dirmi qualcosa, qualcosa di profondo, da madre a figlia. O almeno di riconoscere i suoi difetti come madre, e a quel punto ne avremmo riso e avremmo detto qualcosa di banale tipo: «Be’, se non altro siamo sopravvissute, giusto?».

    Ma, seduta sul divano, si limitò a fare un altro tiro dalla sigaretta e disse: «E comunque, per dire, non c’è motivo di fare così la stronza».

    Oh.

    Non seppi bene come rispondere a una frase del genere, allora presi un altro biscotto dalla confezione e me lo infilai in bocca, cercando di non pensare a quanto odiassi mia madre. E a quanto l’odio nei suoi confronti mi facesse sentire in colpa, ovvero così tanto da odiare me stessa.

    Sospirò, espirando fumo. «Sicura che non vuoi venire con me?», chiese, anche se sapeva già la risposta. A dire il vero, me lo aveva domandato svariate volte nelle settimane precedenti, in vari modi. «Da Lenny c’è un sacco di spazio. Avresti un intero appartamento tutto per te. Non ti sentirai sola qui?». A quest’ultima domanda risi, forse era fisiologico per un’adolescente, ma non vedevo l’ora di starmene lontano da mia madre.

    «Ne sono sicura», dissi, voltando pagina.

    Trascorremmo la nostra ultima ora insieme in silenzio, lei fumando una sigaretta dietro l’altra, io fingendo di essere immersa nella lettura. E poi, quando suonò il campanello, annunciando l’arrivo del suo autista, lei saltò in piedi, si sistemò i capelli e mi guardò per l’ultima volta. «Allora vado», disse.

    Annuii. Volevo dirle che era carina, ma non trovai le parole.

    Lei prese la valigia e se ne andò, la porta si richiuse alle sue spalle.

    Rimasi seduta lì, un libro in grembo e una confezione di biscotti vuota accanto a me. Mezza sigaretta era ancora accesa nel posacenere del tavolino da caffè, ed ebbi il forte impulso di prenderla e metterla tra le labbra, sebbene sapessi che avrebbe potuto uccidermi, per inspirare mia madre per l’ultima volta.

    Ma non lo feci. La guardai solo bruciare.

    E ora, nove anni dopo, mia madre è morta.

    La notizia non giunge inaspettata, nel senso che circa dieci mesi prima la lesione sulla sua testa che rifiutava di rimarginarsi si era rivelata un melanoma. Aveva tossito ridendo e mi aveva detto: «Ho sempre pensato che sarebbero stati i polmoni a fregarmi».

    Ma mamma ha sempre avuto la tendenza al melodramma, come quella volta che venne punta da una zanzara, si convinse di aver contratto il virus del Nilo Occidentale e rimase supina per tre giorni sul divano, e io non riuscivo a capire se il fatto che dichiarasse, nei mesi successivi, che stava morendo fosse la reale diagnosi di un medico o uno dei suoi elaborati metodi per attirare l’attenzione.

    A quanto pare era il primo.

    «Giovedì ci saranno i funerali», dice Lenny. «Vuoi che ti faccio venire a prendere?».

    Il funerale. A Long Island. Ho la sensazione che una mano gigante mi abbia afferrato il petto e abbia cominciato a stringere. Sempre di più, fino a quando non c’è più aria. È così che comincia l’elaborazione del lutto? Sono già in lutto per lei? O è l’idea di uscire di casa che comprime i miei organi vitali? Non lo so.

    Quel che so per certo è che non ci voglio andare, che sono nove anni che non voglio andare da nessuna parte, ma dirlo ad alta voce farebbe di me una persona orribile. Chi non va al funerale della propria madre?

    So anche che probabilmente la Pontiac di mamma, che è rimasta parcheggiata nel vialetto per nove anni, non riuscirebbe a reggere il viaggio.

    Inspiro, sperando che Lenny non si accorga dello sforzo che devo fare per respirare.

    Finalmente, rispondo: «Non serve che mandi qualcuno», dico. «Troverò un modo».

    Un istante di silenzio.

    «È alle dieci. Ti mando l’indirizzo per e-mail», dice Lenny. E avverto un cambiamento nell’atmosfera tra di noi, un irrigidimento della sua voce, come se stesse intervenendo a una riunione e non parlando della morte di sua moglie con la figliastra che non aveva mai chiesto di avere. «So che può sembrare inopportuno discutere di questo ora, ma volevo sapessi che tua madre ti ha lasciato la casa, senza ipoteca; ho pagato il resto del mutuo e ti intesterò l’atto di proprietà, così come l’auto, se ancora ce l’hai. Ma, be’, gli assegni che ti mandava… Ho pensato che avrei dovuto informarti il prima possibile che non porterò avanti questa cosa, quindi dovrai trovare un’altra, ehm… soluzione».

    Arrossisco quando accenna al fatto che vivo a scrocco, e sento l’impulso di riattaccare il telefono. Mi sento una sfigata. Come quei trentenni che vivono nel sottoscala della casa dei genitori, con la madre che ancora lava loro le mutande e prepara toast al formaggio togliendo pure la crosta. E credo che, in un certo senso, io lo sia.

    Il primo assegno arrivò una settimana dopo la sua partenza.

    Lo posai sul tavolo della cucina, fissandolo ogni volta che ci passavo davanti. Avevo tutta l’intenzione di gettarlo via. Forse mamma voleva vivere con i soldi di Lenny per il resto della sua vita, ma io non ero interessata.

    E poi arrivò la bolletta dell’elettricità. E poi quella dell’acqua. E poi la rata del mutuo.

    Incassai l’assegno.

    Avevo diciotto anni, ero disoccupata e stavo cercando di capire cosa avrei fatto della mia vita. Avevo di sicuro in programma di trovarmi un qualche tipo di lavoro e di andare all’università. Così giurai a me stessa che quella sarebbe stata la prima e ultima volta. Che non avrei più accettato il denaro.

    Quando arrivò il secondo assegno, tre settimane dopo, non avevo ancora un lavoro, ma non me la sentivo di uscire per incassarlo, così pensai che sarebbe finita lì. Ma durante una pausa da un’intensa partita a Bejeweled, feci una rapida ricerca online e scoprii che avrei potuto semplicemente spedire l’assegno in banca e il denaro sarebbe apparso come per magia sul mio conto.

    E poi, mentre cliccavo nuovamente sulle gemme colorate e le vedevo sparire con gran soddisfazione, mi chiesi cos’altro avrei potuto fare senza uscire di casa.

    A quanto pareva, un sacco di cose.

    Divenne una specie di gioco, una sfida capire cosa avrei potuto ottenere mentre rimanevo comodamente in pigiama.

    La spesa? Consegna a domicilio.

    L’università? Ho preso una laurea in inglese in diciotto mesi con un corso online. Non so se abbia valore legale ma il pezzo di carta che mi hanno mandato è sufficientemente valido. Avrei voluto proseguire, fare un master, un dottorato di ricerca, ma pagando quattrocento dollari per il credito accademico avrei prosciugato il mio già striminzito budget, così ho iniziato a seguire alcune delle lezioni che Harvard mette a disposizione gratuitamente online ogni semestre. Gratuitamente. Viene da chiedersi perché tutti quei geni paghino centinaia di migliaia di dollari per la loro istruzione di prim’ordine.

    Il dentista? Basta utilizzare sempre il filo interdentale e lavarsi i denti dopo ogni pasto. Non sono mai andata oltre il mal di denti, e lo devo alla mia buona igiene orale. E ho iniziato a pensare che forse quella dei dentisti è una mafia.

    Quando uno dei vicini mi ha messo un biglietto sulla porta per avvertirmi che il mio prato era cresciuto a dismisura, domandandomi se non mi dispiaceva intervenire per mantenere il decoro del quartiere, ho chiamato un giardiniere che poi è venuto una volta al mese e a cui lasciavo un assegno sotto allo zerbino.

    L’immondizia si rivelò una sfida più ardua. Non riuscivo a trovare una soluzione per portarla fuori senza uscire di persona. Non che non potessi farlo, ovvio, ma ormai mi ero intestardita. Volevo risolvere l’ultimo pezzo del rompicapo. Non ne vado fiera, ma ho chiamato l’azienda dei rifiuti e ho detto loro che ero disabile. Mi risposero che se fossi riuscita a portare la spazzatura nel cassonetto accanto alla porta sul retro, loro sarebbero passati a ritirarla tutti i giovedì mattina. E provai una punta d’orgoglio per la mia malvagia sagacia.

    Passarono sei mesi. Poi un anno. E a volte mi fermavo a chiedermi se ormai era andata così. Se avrei vissuto la mia vita in questo modo, senza mai più vedere di persona anima viva. Ma perlopiù, semplicemente mi svegliavo ogni giorno e vivevo la mia vita come fanno tutti, senza pensare ai massimi sistemi: studiavo per le lezioni, preparavo la cena, guardavo il telegiornale, poi mi alzavo e ricominciavo tutto daccapo.

    Sotto questo aspetto, non credo fossi tanto diversa dalle altre persone.

    Nonostante mia madre mi abbia chiamato sporadicamente nel corso degli anni per lamentarsi del tempo, di un cameriere scortese, di un brutto finale di una serie tv, per vantarsi di uno dei tanti viaggi che lei e Lenny stavano per fare o per invitarmi in occasione di qualche festa, pur sapendo che non ci sarei andata, non abbiamo mai parlato del denaro che mi inviava. Mi vergognavo ad accettarlo, ma mi ero anche convinta che in qualche modo lo meritassi. Che me lo doveva per essere stata una madre così egoista e schifosa.

    Ma non era mia intenzione farlo durare così a lungo.

    «So della tua patologia», dice Lenny, «ma è un argomento su cui non l’abbiamo mai vista allo stess…».

    «Capisco», dico, sentendomi bruciare sempre di più d’umiliazione. Ma provo anche un impeto di rabbia, rabbia per il fatto che mia madre non mi abbia lasciato del denaro oltre alla casa e all’auto (anche se mi rendo conto di quanto sia ingrata), sebbene immagino che tecnicamente i soldi siano di Lenny.

    O forse sono arrabbiata con me stessa per essere diventata così dipendente da quegli assegni mensili. O forse non ha niente a che vedere con il denaro. Forse sono infuriata per non aver mai accettato il suo invito di andarla a trovare. Curioso che quando uno muore, ci si dimentica momentaneamente di tutte le sue colpe, come se anche solo parlare con lei al telefono non fosse talmente estenuante che non ho mai voluto vederla di persona. Ma adesso… adesso è troppo tardi.

    «Bene, allora», dice Lenny.

    Non abbiamo altro da dirci, così aspetto il suo arrivederci. Ma poi lui rimane in silenzio così a lungo che mi chiedo se abbia già riattaccato e non me ne sia accorta.

    «Lenny?», dico, e in quel momento esatto lui parla.

    «Jubilee, tua madre…», dice. La sua voce vacilla di nuovo. «Be’, lo sai».

    Non lo so. Mia madre cosa? Amava le camicette attillate? Fumava decisamente troppo? Era impossibile conviverci? Continuo a rimanere al telefono per parecchio tempo dopo che lui ha attaccato, nella speranza di sentire ciò che stava per dirmi. Come se le sue parole fossero rimaste intrappolate nell’etere tra me e lui e si potessero materializzare da un momento all’altro. Quando accetto il fatto che non succederà, lascio cadere il ricevitore sul pavimento accanto a me.

    Passano i minuti. O forse sono ore. Ma non mi muovo, neanche quando un trillo intermittente risuona dal ricevitore, il telefono che insiste a essere riagganciato.

    Mia madre è morta.

    Mi guardo intorno in cucina, in cerca di qualche differenza, confrontando il prima e il dopo. Se riuscissi a trovarla, sarebbe la prova che sono finita in un universo parallelo. Che forse mamma è viva nell’altro, quello vero. O forse ho letto troppe volte 1Q84.

    Faccio un respiro profondo, e le lacrime mi salgono agli occhi. Non sono propensa a far trasparire le emozioni, ma oggi me ne resto seduta e piango.

    Vivere da reclusa ha i suoi lati positivi. Ad esempio, ci metto solo sei minuti per lavare il piatto, la tazza e la forchetta che utilizzo tutti i giorni (sì, l’ho cronometrato). E non devo mai parlare del più e del meno. Non devo mai annuire e sorridere quando qualcuno dice: «Pare che oggi pioverà», o mormorare cose insulse in risposta come: «Farà bene al prato, eh?». In realtà, non devo proprio preoccuparmi del tempo, punto. Piove? Chi se ne importa. Non devo uscire e bagnarmi.

    Ma ci sono anche lati negativi. Ad esempio, quando a notte fonda me ne sto sdraiata sul letto ad ascoltare il silenzio di tomba della strada e a chiedermi se forse, e dico forse, sono l’unica persona rimasta sulla Terra. O se c’è stata una guerra civile o un’epidemia, o un’apocalisse zombie e nessuno si è ricordato di avvisarmi, perché nessuno si ricorda che sono qui. Durante queste notti, penso a mia mamma. Lei mi avrebbe chiamato. Mi avrebbe avvertito. Si sarebbe ricordata. E un’ondata di conforto mi investe.

    Ma adesso non c’è più. E io sono sdraiata sul letto, ascolto il vento della notte e mi chiedo: chi si ricorderà di me adesso?

    Il giovedì inizia come un giorno qualunque: scendo al piano di sotto, preparo due uova al tegamino con pane tostato (tagliato a pezzetti piccoli, dopo che quattro anni fa ho rischiato di strozzarmi) e mangio mentre leggo il giornale online. Ma poi, invece di cliccare sulla lezione successiva del corso di Harvard (questa settimana: Shakespeare: le opere della maturità), devo affrontare il fatto che questo non è un giorno come gli altri.

    Dovrò uscire di casa.

    Il mio cuore va su di giri al pensiero, così cerco di distrarmi con un problema più urgente: non ho niente da mettermi per il funerale di mia madre. Gli unici indumenti neri che possiedo sono dei pantaloni della tuta con la felpa coordinata. Non proprio la mise adatta per un funerale.

    Al piano di sopra, percorro il corridoio fino alla stanza di mia mamma e rimango sulla porta. Per nove anni, ho lasciato la stanza esattamente com’era quando lei se n’è andata. Non in maniera inquietante, alla Miss Havisham. Non c’è nessuna torta nuziale intatta sul tavolo, niente del genere. Mi sono detta che il motivo è che non sapevo cosa farmene della sua roba, ma a una parte di me piaceva il fatto che la sua roba fosse rimasta dov’era. Come dire che forse un giorno sarebbe tornata a riprenderla.

    Ma adesso no, suppongo che non succederà.

    Rimango davanti all’armadio di mia madre a fissare la sua collezione di tailleur risalenti agli anni Novanta, a quando lavorava come commessa in un grande magazzino. Mi ricordo che da piccola mi provavo i suoi vestiti mentre lei era al lavoro, gli indumenti mi svolazzavano addosso leggiadri, e respiravo il suo profumo dolciastro. Era contro le regole. Mi infilavo anche nel suo letto, e mi avvolgevo nelle coperte, facendo finta che fosse il suo abbraccio. Era contro le regole, i medici mi avevano messo in guardia: anche se sembrava che la reazione avvenisse solo attraverso il contatto pelle-pelle, dovevo comunque stare attenta a tutto ciò che era stato a contatto prolungato con altre persone, come lenzuola e asciugamani. «Le allergie sono infide», dicevano. Ma io rischiavo e per fortuna non ho mai avuto reazioni. Era il mio piccolo atto di ribellione, ma era anche qualcos’altro: l’unico modo per sentirmi vicina a lei. Prendo la giacca nera di un tailleur dalla sua gruccia di ferro e la infilo sopra alla canottiera bianca con cui ho dormito.

    Mi volto, mi

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