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Punto di non ritorno
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Punto di non ritorno
E-book418 pagine5 ore

Punto di non ritorno

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Info su questo ebook

«Peter Ash è la vera rivelazione.»
Lee Child

Un grande thriller

Peter Ash è tornato a casa, dopo aver combattuto in Iraq e in Afghanistan. Ma si è portato un souvenir dalla guerra: quello che lui chiama “la stasi bianca”, un terribile senso di claustrofobia dovuto a stress post-traumatico che lo ha costretto a passare un intero anno a vagare nella natura incontaminata, dormendo sotto le stelle. Quando un suo amico dei Marine si suicida, Ash decide di tornare alla civiltà per aiutare la vedova, cercando di fare del suo meglio per rendersi utile. Quello che trova sotto il portico fatiscente della donna, però, non ha nulla a che vedere con ciò che si era immaginato: ad attenderlo, infatti, c’è il cane più grosso, brutto e cattivo che abbia mai visto… E una valigia piena di soldi in contanti ed esplosivo. Non appena Ash comincia a chiedersi il perché di quelle stranezze, scopre di essere al centro di un intrigo che potrebbe portarlo a immergersi nuovamente in un mondo che sperava di essersi lasciato finalmente alle spalle. Per il suo bene.

Bestseller negli Stati Uniti

«Il personaggio di Peter Ash di Nick Petrie è la vera rivelazione.»
Lee Child

«Un thriller intelligente e coinvolgente.»
Booklist

«Un thriller avvincente e ben scritto.»
Huffington Post

«Un romanzo potente, empatico. Una storia eccellente.»
Kirkus Reviews
Nick Petrie
Ha studiato scrittura creativa all’università di Washington e ha debuttato con Punto di non ritorno, ricevendo moltissimi riconoscimenti oltre a un buon successo di pubblico. Tra gli altri, è stato indicato da Apple come «uno dei dieci scrittori da leggere nel 2017». Peter Ash, il suo protagonista, è già diventato un’icona per i lettori americani.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2018
ISBN9788822719348
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    Anteprima del libro

    Punto di non ritorno - Nick Petrie

    1904

    Titolo originale: The Drifter

    Copyright © 2015 by Nicholas Petrie

    All rights reserved

    Published in agreement with the author, c/o BAROR INTERNATIONAL,

    INC., Armonk, New York, U.S.A.

    Traduzione dall’inglese di Mara Gini

    Prima edizione ebook: agosto 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l, Roma

    ISBN 978-88-227-1934-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Nick Petrie

    Punto di non ritorno

    Indice

    Prologo

    Parte prima

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Parte seconda

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Parte terza

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Parte quarta

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Veterans Day

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Epilogo

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

    Caminante no hay camino,

    se hace camino al andar.

    ANTONIO MACHADO

    Viandante non esiste cammino,

    il cammino si fa camminando.

    Prologo

    L’uomo con il giaccone nero di tela

    Entrò all’Harder’s Grange facendo squillare il campanello cromato montato sullo stipite della porta. Il giaccone nero sbiadito lo faceva sembrare massiccio, ma era tutta scena. Indossava un cappellino con il logo John Deer calcato sulla testa, anche se non c’erano telecamere; era un negozio di attrezzi agricoli disperso in mezzo al nulla, come lo erano tutti.

    Notò un bancone di formica scheggiata, una caraffa di caffè bruciacchiato e qualche sedia per i clienti in attesa e le vecchie glorie in cerca di compagnia. Sapeva che la maggior parte di quei posti fungeva, per così dire, da centro di aggregazione per gli agricoltori locali, le cui esistenze erano abbastanza solitarie. Lui stesso era cresciuto in una fattoria, anche se non in quello Stato.

    Dietro il bancone c’era un tizio sulla sessantina avanzata, indurito dagli anni, con indosso una camicia a scacchi rossa. Alzò lo sguardo sul suo unico cliente e poi infilò la brochure dell’

    USDA

    che usava come segnalibro nel suo tascabile sui vampiri.

    L’uomo con il giaccone si dipinse in viso un’espressione amichevole. «Buongiorno», disse.

    «Lo è di certo», disse il commesso con un ampio sorriso allegro che gli stirava le rughe, disegnando una nuova topografia sul suo viso. «Niente male davvero. Cosa posso fare per lei?»

    «Mia madre ha appena acquistato una proprietà da questo lato di Monroe», disse l’uomo con il giaccone. «Vicino alla Highway Eleven. Le serve un po’ di fertilizzante per il giardino».

    «Figliolo, è venuto nel posto giusto. Ne abbiamo di tutti i tipi, quale le serve?»

    «Sto cercando di abituarla a usare il letame, ma dice di non sopportarne l’odore. Vorrebbe coltivare mezzo ettaro».

    Il commesso fece un fischio. «Mezzo ettaro? Alla faccia del giardino».

    «Be’, lei e papà avevano seicento ettari di campi di soia e mais nella contea di Bureau, in Illinois, perciò mezzo ettaro non è poi così tanto». Si strinse nelle spalle. «Le piace tenersi impegnata da quando papà è morto».

    Il commesso annuì per solidarietà.

    «Comunque, alla fattoria usava il Prairie King, 64-0-0. Suppongo che due sacchi bastino per mezzo ettaro, no?».

    Il commesso lo osservò. Andava per i settanta, ma i suoi occhi erano ancora vispi e attenti.

    Ci siamo, pensò l’uomo con il giaccone.

    Aveva raccontato una bella storia, aveva l’aspetto giusto e ciò che diceva suonava corretto, ma agricoltura e servizi collegati erano un business locale e il commesso non lo conosceva nemmeno di vista, e la cosa contava parecchio.

    Soprattutto dopo il 1995; e di nuovo dopo il 2001.

    Finalmente il commesso parlò. «Figliolo, si tratta di nitrato d’ammonio», disse. «Non posso venderlo a chiunque, persino se si tratta solo di una cinquantina di chili. Ci sono regole per questo genere di cose. Ce l’hai il tesserino giallo?»

    «Oh sì», disse l’uomo con il giaccone, assumendo un’espressione imbarazzata. «Un momento solo, ce l’ho proprio qui». Tirò fuori il portafogli, un articolo logoro in nylon balistico con un motivo mimetico. Anche il portafogli era stato attentamente studiato per fare un certo effetto.

    Ne estrasse una patente di guida e un documento di riconoscimento giallo plastificato che attestava il permesso statale per acquistare determinati fertilizzanti e pesticidi. Il modulo era lungo una pagina soltanto e la tassa di deposito ammontava a quarantaquattro dollari. La patente di guida contraffatta gli era costata molto di più.

    Il commesso studiò con attenzione entrambi i documenti, uno alla volta, per tornare poi al primo.

    «Sembra tutto a posto», disse. «Niente di personale. E poi si tratta solo di cinquanta chili, lo so, ma lo Stato non ammette sgarri al riguardo». Restituì i tesserini all’uomo con il giaccone e poi gli rivolse un sorriso. «Non vogliamo che uno di quegli stramaledetti socialisti ci metta sopra le mani».

    L’uomo con il giaccone sorrise.

    «No, signore», disse. «Certo che no».

    Il commesso inserì l’ordine in un vecchio computer e accettò il pagamento in contanti. Indirizzò il cliente alla zona di scarico per permettergli di prendere il suo fertilizzante.

    Dieci minuti più tardi, l’uomo con il giaccone nero di tela accese il vecchio furgoncino Ford blu e imboccò l’autostrada della contea, diretto a nord-est.

    Era la seconda tappa del giorno; ne restavano ancora tre prima del calare della notte.

    Era in perfetto orario.

    Parte prima

    1

    C’era un pitbull sotto la veranda e non ne voleva sapere di uscire.

    Il giovane Charlie Johnson disse: «Quel dannato cane è lì da settimane, signore. Si è già mangiato tutti i gatti e i cani del circondario. Ormai non posso nemmeno più lasciare uscire di casa il mio fratellino».

    La casa secolare si trovava su uno stretto appezzamento di terra al margine di un quartiere fatiscente di Milwaukee che, come la casa stessa, aveva conosciuto giorni migliori. Erano i primi di novembre e non faceva caldo, nemmeno per gli standard del Wisconsin.

    Le foglie erano già cadute dagli alberi scheletrici che torreggiavano sopra le loro teste.

    Se non altro, però, c’era il sole e il cielo mattutino era color celeste pallido. Non era certo una mattina per restarsene con le mani in mano, niente affatto.

    Peter Ash disse: «Quant’è grande il cane, di preciso?».

    Charlie scrollò la testa. «Non l’ho mai visto da vicino, signore, e mai alla luce del sole. Ma è maledettamente grosso, glielo posso assicurare».

    «Non avete chiamato la protezione animali?»

    «Oh, l’ha chiamata la mamma», disse Charlie. «Sono venuti due tizi, hanno dato un’occhiata là sotto, sono risaliti sul furgoncino e se ne sono andati».

    Charlie indossava un’uniforme scolastica: camicia azzurra no stiro, pantaloni blu scuro e due enormi scarpe nere lucide ai piedi esageratamente lunghi. Era un dodicenne alquanto smilzo e con le orecchie grandi, capace di mangiare sei volte al giorno e avere ancora fame.

    I suoi occhi, però, erano attenti per la sua età, non si lasciavano scappare nulla.

    E ora stava osservando Peter Ash.

    Peter sedette sul coperchio chiuso di una cassetta degli attrezzi in legno, con le grosse mani nodose appoggiate ai jeans da lavoro sgualciti al ginocchio, sbirciando attraverso lo stretto accesso ritagliato tra le assi di legno di pino marce che chiudeva lo spazio al di sotto della veranda. Dovette ammettere che, da come ringhiava, sembrava parecchio massiccio. Sentiva il suo brontolio rabbioso provenire da qualche parte nel buio; ricordava il motore di un carro armato al minimo, ma di intensità maggiore.

    Aveva una calibro .45 sotto al sedile del camion, ma non voleva usarla. Non era colpa del cane, dopo tutto. Era affamato e spaventato e solo e non aveva altro che i propri denti.

    D’altro canto, Peter aveva promesso alla madre di Charlie, Dinah, che avrebbe risolto il problema dei supporti marcescenti sotto alla sua vecchia veranda. Lei però non aveva accennato al cane.

    Peter non poteva biasimarla.

    Suo marito si era ammazzato.

    Ed era stata colpa di Peter.

    Peter era snello e slanciato, tutto ossa e muscoli, niente grasso in eccesso. Aveva un viso allungato e ossuto, le orecchie leggermente a punta, i capelli scuri e ribelli tagliati a spazzola e lo sguardo cupo di un lupo mannaro la settimana prima della trasformazione.

    Si muoveva in continuazione – persino in quel momento, mentre se ne stava seduto su quella cassetta degli attrezzi a sbirciare sotto alla veranda, il suo ginocchio ballava al ritmo di un qualche metronomo interiore che non si fermava mai.

    In otto anni aveva combattuto due guerre, con più missioni di quante volesse ricordare. In prima linea. E avrebbe compiuto trentun anni a gennaio.

    Mentre si chinava a guardare attraverso lo stretto accesso sotto alla veranda, avvertì il famigliare crepitio dell’interferenza bianca alla base del cranio. Era così che chiamava la sensazione di pizzicore con cui ormai conviveva: interferenza bianca. Un vago crepitio agitato, un ronzio dissonante a malapena udibile. Non era del tutto spiacevole, non ancora. L’interferenza gli ricordava soltanto che non gradiva gli spazi chiusi.

    Peter sapeva che sarebbe peggiorata prima che avesse finito, perciò tanto valeva mettersi all’opera.

    Lo spazio al di sotto della veranda era alto poco meno di un metro, probabilmente ampio e profondo tre, e con un fondo sporco: più o meno delle dimensioni di quattro tombe scavate di fianco e disposte lateralmente. L’odore era rancido, peggiore di quello dei piedi di un sergente dopo due mesi passati in un avamposto di combattimento, ma non così tremendo come quello di un cadavere in decomposizione da due settimane.

    La luce filtrava dalle assi della veranda, ma l’angolo più lontano era ammantato dalle ombre; laggiù c’era una qualche sottospecie di randagio – con quel ringhio che riusciva a sentire attraverso la suola degli stivali.

    Sarebbe stato bello riuscire a risolvere la faccenda senza farsi mordere troppo.

    Andò al camion e prese una lampada a mano senza fili, una fune e un pezzo di vecchio corrimano in quercia bianca, spesso circa quattro centimetri e mezzo e lungo una cinquantina, solido e piacevole al tatto; l’ideale quando ci si accingeva a qualcosa di incredibilmente stupido.

    Con il concerto dei ringhi provenienti da sotto la veranda in sottofondo, si accomodò sulla cassetta degli attrezzi e tirò fuori il suo coltello, mentre il giovane Charlie Johnson lo stava a guardare.

    Non che a Peter andasse di avere un pubblico. Le cose potevano mettersi decisamente male.

    «Non devi andare da qualche parte, Charlie? A scuola o che so io».

    Charlie controllò l’orologio digitale che portava al polso ossuto. «No, signore», disse. «Non ancora».

    Peter scrollò la testa. La cosa non gli piaceva, ma capiva. Immaginò di non essere poi tanto diverso da un dodicenne lui stesso.

    Tagliò tre pezzetti di fune e lasciò il resto lungo all’incirca tre metri. Legò due dei pezzetti più corti alle estremità del corrimano di quercia e agganciò l’ultimo e il pezzo lungo alla sua cintura, girandoselo intorno alla vita una volta soltanto, così da avere più spazio di manovra.

    Poi guardò di nuovo Charlie. «Farai meglio ad allontanarti, ragazzino. Se le cose dovessero mettersi male, non vorrai trovarti nei paraggi».

    Charlie disse: «Non sono un cavolo di ragazzino, signore. Sono l’uomo di casa». Infilò una mano dietro la porta e tirò fuori una mazza da baseball di alluminio, mostrando il suo swing. «È la mia dannata veranda, il mio fratellino. Non andrò da nessuna parte».

    Il padre di Charlie aveva sempre lo stesso identico sguardo dietro la mitragliatrice .50, sulla torretta dell’Humvee: occhi spalancati e pronto ai guai. Sfidava qualsiasi figlio di buona donna a spuntare con un

    RPG

    o un kalashnikov o chissà che altro. Ma quando sua moglie, Dinah, gli mandava i biscotti, Big Jimmy Johnson – inevitabilmente rinominato dai simpaticoni del plotone Big Johnson, o semplicemente Big – era sempre l’ultimo a mangiarne uno.

    A Peter mancava.

    Gli mancavano tutti, i vivi e i morti.

    Disse: «Ok, Charlie. Lo rispetto». Puntò gli occhi sul ragazzino e rimase a fissarlo. «Ma se il cane scappa, fiondati in casa, sono stato chiaro? E se colpisci me con quella mazza, mi incazzerò sul serio».

    «Sissignore», annuì Charlie. «Non posso prometterle niente, signore, ma farò del mio meglio».

    Peter sorrise sotto i baffi; se non altro il ragazzino era onesto.

    Dopo quello scambio di battute non rimase molto altro da fare se non staccare le assi della veranda una a una, per lasciar entrare più luce. Lo spazio era ancora minuscolo. Il ronzio del carro armato nell’ombra crebbe d’intensità, ma ancora nessun segno del cane. Forse era accucciato in mezzo al mucchio di sporcizia nell’angolo più lontano.

    Non che importasse, non si sarebbe sottratto a quella sfida. Stava soltanto cercando di capire come vincerla.

    Un sapore familiare gli riempì la bocca, un sapore metallico, come quello del sangue. Sentì l’adrenalina sollevarlo e trasportarlo in avanti. Era una sensazione simile a quella dell’interferenza bianca, crescente: il corpo che si preparava a combattere o fuggire. Era utile.

    Sbirciò sotto alla veranda e l’interferenza aumentò ulteriormente. Non le importava del cane ringhiante; era lo spazio claustrofobico a interessarle. Gli solleticò i nervi, accelerandogli il cuore e stringendogli il petto e, in generale, reclamando la sua attenzione. Voleva che restasse all’aperto, alla luce del sole.

    Respirando a fondo, Peter afferrò il pezzo di quercia e lo abbatté sulla cornice lignea della veranda. Risuonò come uno strumento musicale preistorico.

    Nonostante tutto, stava sorridendo.

    «Ehi, cane», chiamò nell’oscurità. «Parati il culo, perché sto arrivando!».

    Ed entrò, testa in avanti, strisciando su ginocchia e gomiti, il bastone in una mano e la lampada nell’altra.

    Che pretendi, di vivere per sempre?

    Era buio e umido sotto alla veranda; l’odore era quello di malerba e cose dimenticate, condito da fetore animale. Non era l’odore di un cane, ma di qualcosa di più selvatico, di una belva spietata; l’odore dei mostri nelle vecchie fiabe per bambini, quelle in cui qualche volta i mostri vincevano.

    Strette lamine di luce del sole di tardo autunno filtravano attraverso le fessure, rendendo difficile farsi un’idea dello spazio. La pozza di flebile luce giallastra che usciva dalla lampada a mano non era di grande aiuto. La catasta di immondizia nell’angolo più lontano aveva assunto una dimensione più consistente da vicino. C’era ogni genere di rifiuto lì in mezzo: pezzi di tappeto, scatoloni, vecchio legname; ossa scheggiate di postini scomparsi.

    Il ringhio poteva provenire da qualsiasi punto, sembrava riverberare direttamente dal suolo. Il pezzetto di corrimano e qualche cordicella non parevano poi gran cosa: sarebbe stato saggio battere in una ritirata strategica, darsela a gambe e tornare con un fucile. O un lanciagranate.

    Ma non lo fece.

    Continuò ad avanzare sui gomiti e sulle ginocchia, con le scintille di interferenza bianca che aumentavano di intensità. Il bastone in una mano, la torcia nell’altra. Vivo, vivo. Sono vivo.

    «Qui, cagnone. Chi è un bravo cagnone?».

    L’animale attese finché Peter non fu entrato quasi completamente.

    Poi uscì dal nascondiglio latrando con foga, snudando i denti bianchi nell’oscurità. Era grosso.

    Cazzo, era enorme e puntava dritto alla testa di Peter.

    Quando spalancò la grossa mandibola per staccargli la faccia a morsi, Peter scattò in avanti rapidamente e gli infilò il pezzo di quercia dritto tra le fauci, trascinando le funi, impedendogli di chiudere o di aprire di più la bocca.

    Il cane, confuso, tentò di sputare il bastone; era sul punto di usare le zampe da un momento all’altro. Peter si scansò velocemente come un granchio, rilasciando il bastone con una mano così da riuscire a circondare il massiccio collo dell’animale con un braccio. Afferrata di nuovo l’altra estremità del bastone, la incastrò ancora nella bocca del cane; poi con il bastone a fare da leva e il braccio a fare da fulcro, rovesciò il cane su un fianco e gli atterrò di peso sul petto, trattenendolo a terra.

    È davvero un grosso cagnaccio maledetto, Charlie.

    Almeno 65/70 chili.

    Il cane si zittì. Conservò le energie per scappare, per liberarsi di quel peso, con gli occhi rovesciati all’indietro, dimenandosi e combattendo con tutti i suoi poderosi muscoli e tutta la sua volontà.

    Ma Peter pesava almeno 90 chili di suo ed era più furbo del cane. Almeno sperava.

    Il suo piano iniziale, se così lo si voleva chiamare, era stato di legare le funi intorno al collo del cane per riuscire a bloccargli la bocca con il bastone, mentre tratteneva l’animale a terra con il proprio peso.

    Non era un gran piano, dovette ammetterlo. Anche al cane non sembrava importare un granché, visto che continuava a dimenare la sua grossa testa a forma di proiettile, con le labbra arricciate in un ringhio silente e la saliva che volava ovunque.

    E puzzava come l’inferno. Sapeva di rabbia e furore e merda e morte, tutte riunite insieme in un fetore tremendo che gli fece venire le lacrime agli occhi e gli decongestionò le cavità nasali.

    Quello che gli serviva era una mano.

    Ma Charlie aveva solo dodici anni e indossava la divisa scolastica. Ed era il figlio maggiore di Jimmy. La famiglia aveva già subìto abbastanza danni.

    Perciò Peter era da solo sotto a quella veranda.

    Alzò piano una gamba, con attenzione, finché il ginocchio non trovò la spalla del cane e poi il suo collo. Spinse in giù. Non voleva fare male all’animale, ma certamente non voleva neanche lasciare liberi quei denti tritaossa. Le zampe posteriori dell’animale scavarono nel terriccio, nel tentativo di trarsi d’impaccio, ma Peter pesava troppo.

    «Ehi, cane», disse Peter con voce calma. «Come ti chiami?».

    Il cane artigliò con le unghie lunghe il terreno, ma la sua grossa testa a forma di proiettile era ormai intrappolata tra la pressione del bastone e il peso del ginocchio dell’uomo.

    «Magari qualcuno ti ha chiamato Fang o Spike o qualcosa di simile, non è così?», gli chiese Peter con dolcezza, ricordandosi come il padre si rivolgeva ai cavalli: un tono colloquiale, piacevole e tranquillo. Il modo in cui Jimmy aveva conversato con gli abitanti del posto che non parlavano inglese. «Ma non sei un cane cattivo, vero? No, sei un bravo cucciolone. Un bravo cagnolone. Dovresti chiamarti Daisy. O Cupcake».

    Gli occhi del cane erano bianchi nella semioscurità di quello spazio ristretto e ansimava pesantemente, con il grosso petto che si alzava e abbassava come un mantice. Le zampe rallentarono il ritmo forsennato, mentre la voce profonda dell’uomo si faceva strada in mezzo al panico e alla furia. Finalmente smise di lottare e la sua lunga lingua penzolò fuori dai denti assassini. Uomo e bestia giacquero insieme per terra e ripresero fiato.

    «Ehm, signore, tutto ok là sotto?». La voce di Charlie galleggiò sotto alla veranda.

    «Mai stato meglio», rispose Peter, mantenendo un tono di voce basso e omogeneo. Il cane ansimava, ma i suoi occhi fissavano il viso di Peter.

    «Quindi…», disse Charlie.

    «Ragazzo, dammi un minuto, ok?».

    Peter aveva ancora in mano l’estremità delle funi. Concentrato nonostante l’interferenza. Aveva pochi minuti, non di più. Con le mani fece scivolare i nodi delle funi verso la mandibola del cane, che ricominciò a ringhiare.

    Peter poteva sentire la vibrazione nel suo stesso petto, quel motore da carro armato che riprendeva lentamente vita. Era come stare sdraiati su un letto vibrante di un motel infimo, però con i denti.

    Gli occhi lo fissavano, in attesa.

    In attesa che commettesse un errore.

    Peter incrociò le funi con attenzione sopra le zanne tritaossa, poi sotto, prima sopra e poi sotto, ancora e ancora; strette, ma non tanto da fargli male, intrappolando il bastone lì in mezzo come una sorta di progetto artistico di un mandriano. Poi legò con cautela le estremità in una serie di ganci, che terminò in un nodo piano. Super-mega-strasicuro.

    Le corde corte e lunghe che avanzavano erano ancora allacciate alla sua cintura. Legò la corda lunga intorno al collo del cane, a mo’ di collare e guinzaglio, poi spostò il proprio peso e si dedicò alla parte posteriore, legando insieme le zampe dell’animale con la corda corta.

    Senza darsi il tempo di rifletterci, rotolò giù dall’animale e afferrò la corda che gli legava le zampe posteriori, poi uscì all’indietro dallo spazio angusto, tirandosi dietro l’animale che si dimenava.

    «Gesù santissimo», disse Charlie, saltellando all’indietro con le sue scarpe lucide, mentre Peter e il cane legato che ringhiava emergevano dallo spazio sotto alla veranda e uscivano alla luce. «Questo cane è maledettamente grosso, per la miseria».

    Peter accolse l’aria aperta e il cielo azzurro come un balsamo.

    Ci volle qualche minuto per convincere Charlie a posare la mazza da baseball, ma si calmò quando Peter legò il guinzaglio a un albero, ricontrollando i nodi per ben tre volte. A quel punto slegò la corda che teneva insieme le zampe posteriori dell’animale e si allontanò quando quello scattò in piedi, tremando, e fece una corsa di tre metri in avanti, quanto glielo consentiva il guinzaglio, ringhiando e latrando contro gli esseri umani.

    «È proprio brutto», disse Charlie. «E puzza terribilmente».

    Peter era d’accordo.

    Non era un pitbull, in effetti. Quei cani incrociati per i combattimenti erano belli, a modo loro. Come potevano essere belli i missili da crociera o i coltelli da combattimento, se non ci si fermava a considerare a cosa servissero.

    Quel cane, invece, era un incrocio di così tante razze che bisognava risalire all’età della pietra per capirci qualcosa.

    Il risultato era un animale di una bruttezza inaudita.

    Aveva la testa a forma di proiettile di un pitbull, ma i muscoli snelli e scattanti e le zampe lunghe di un animale fatto per inseguire la sua preda su lunghe distanze. Orecchie alte e dritte, un muso allungato da lupo.

    La pelliccia arruffata era di un color arancione sporco, con macchie marroni.

    Ed era enorme.

    Come un lupo grigio incrociato a un pitbull, un alano e una felpa arancione pelosa.

    Visto così all’aperto, persino con i suoi settanta chili o più, con tanto di denti assassini, era difficile prenderlo sul serio.

    Come si poteva chiamare un cane del genere?

    Forse Daisy o Cupcake.

    Il pensiero lo fece sorridere.

    Tirò fuori la bottiglietta d’acqua e si incamminò verso l’animale. Prendendo in mano il bastone, rovesciò un po’ di acqua in quella bocca letale. Il cane lo fulminò con i suoi occhi azzurri e intelligenti, ma dopo un momento iniziò ad accettare l’acqua che gli veniva offerta. Peter gli svuotò in gola tutta la bottiglia.

    «Signore, che diavolo sta facendo?», gli chiese Charlie.

    Peter si strinse nelle spalle. «Il cane ha sete».

    Charlie lo fissò. Era un bello sguardo: diceva che fino a quel momento il ragazzino aveva creduto di aver visto tutto ciò che c’era di folle al mondo, ma si era sbagliato di grosso.

    Disse soltanto: «Devo andare, signore. Altrimenti mi perdo la prima ora e padre Lehane dice che venerdì starò in panchina». Poi corse via.

    E con il cane che gli ringhiava appresso, Peter andò al camion per scaricare gli attrezzi e mettersi al lavoro.

    2

    La veranda stava affondando nel terreno. Le basi dei sostegni originari in legno di pino si stavano sgretolando e non c’era cemento al di sotto, solo qualche mattone impilato in mezzo al terriccio. Tipico di quei tempi. Ora però l’unica cosa a tenere insieme la struttura era l’inerzia. La veranda era abituata a trovarsi lì, perciò non era ancora collassata.

    Non era il genere di lavoro che Peter si era immaginato, studiando economia alla Northwestern. O quando aveva rifiutato un lavoro alla Goldman Sachs per il centro di addestramento dei marine. Allora gli era sembrata una vocazione superiore, e lo pensava ancora. Tutto il resto era decisamente troppo teorico.

    Eppure gli piaceva riparare le vecchie case. L’aveva fatto con suo padre nel nord del Wisconsin, sin da quando aveva otto anni. Il lavoro di oggi era semplice, una battaglia che avrebbe potuto vincere usando unicamente la testa, i muscoli e pochi attrezzi di base. C’erano basse probabilità che qualcuno sarebbe morto; poteva lasciarsi assorbire dalla sfida e dimenticare gli anni di guerra. E a fine giornata avrebbe contemplato ciò che aveva portato a termine, in legno e calcestruzzo, proprio davanti a lui.

    Rinforzò la trave principale con dei paletti di legno che si era portato dietro, rimosse i pali marci e si preparò a scavare delle buche per le nuove fondamenta; dovevano essere profonde almeno un metro per stare al di sotto della linea di congelamento, così non si sarebbero spostate con l’inverno. Nel duro terreno argilloso di Milwaukee, un metro sembrava molto più profondo di quanto avrebbe dovuto essere, ma Peter non badava alla fatica. Gli piaceva combattere, il modo in cui la vanga dal manico in legno diventava un’estensione delle sue mani. E l’interferenza bianca si attenuò fino a diventare un leggero fruscio.

    Dopo aver tagliato il tondino e averlo posizionato in fondo alla buca, Peter mischiò il calcestruzzo in una carriola e lo rovesciò dentro lo stampo. Il cane se ne stava seduto a guardarlo, con le orecchie alzate in allerta e l’aria ridicola con quel bastone conficcato in bocca. Quando Peter gli passò accanto, strattonò il guinzaglio e gli ringhiò contro, con quel rumore da motore di carro armato più forte che mai. Quando Peter si rimise al lavoro, il cane si risedette a fissarlo.

    Era come un caposquadra cui non piacevano le chiacchiere, ma più brutto di qualsiasi caposquadra Peter avesse mai incontrato.

    Non così brutto come alcuni sergenti, però. I sergenti vincevano nella gara di bruttezza con quel cane.

    Il pranzo consistette nella zuppa di manzo della sera prima, riscaldata su un piccolo fornelletto portatile e accompagnata da pane bianco con la crosta croccante e caffè freddo avanzato dalla colazione. Peter sedette sul marciapiede sulla sua sedia da campeggio, agitando inconsciamente il ginocchio a tempo con l’incessante metronomo interiore, domandandosi come dare da mangiare al cane senza offrirgli anche un pezzo di se stesso. Di certo non gli avrebbe tolto il bastone di bocca.

    L’animale, però, doveva essere affamato. Peter lasciò a raffreddare in padella un po’ della zuppa; l’avrebbe versata in quella bocca assassina di lì a un’ora.

    Dopo pranzo, con il calcestruzzo che si era indurito ma non era ancora asciutto, iniziò a tagliare vie le sezioni marce del pavimento. I travetti di sostegno stavano cedendo, la metà era marcia o spaccata, e tanto per cominciare erano tutti sottodimensionati. Sarebbe stato più facile rimpiazzarli completamente. L’unico che valeva la pena salvare era la trave principale e il tettuccio della veranda sopra la sua testa. Volendo avrebbe comunque potuto sostituire la trave con qualcosa a prova di marcescenza.

    Non c’era mai niente di facile, ma del resto non era più divertente così?

    Quando arrivò il momento di fare un giretto al deposito di legname, Peter rimise gli attrezzi sul camion. La roba di valore aveva la capacità di sparire quando non eri nei dintorni, che fosse in un quartiere operaio così come da qualsiasi altra parte.

    Studiò per un momento il cane e decise di lasciarlo dove si trovava.

    Chi mai avrebbe voluto portarsi via un cane così brutto?

    Forse avrebbe avuto fortuna e sarebbe scappato mentre era via.

    Ma quando, un’ora più tardi, Peter riparcheggiò il camion, il cane era ancora lì, brutto come non mai e altrettanto puzzolente. Attirò il cane fino alla fine del guinzaglio per controllare i nodi e scoprì che la fune si era leggermente sfilacciata da un lato. Trovò il punto dell’albero in cui fili azzurri mostravano i segni dei morsi e sorrise.

    «Buona fortuna, cane», gli disse. «È corda da scalatori, con un’anima in kevlar».

    Quando allungò la mano per dare una pacca sulla testa del cane, l’animale si ritrasse. Peter si strinse nelle spalle e si rimise al lavoro.

    Sostenne il peso della tettoia con due lunghi paletti che puntellò nel terreno, poi tagliò il resto della cornice del pavimento con una motosega e trascinò i pezzi per strada. Il cane intanto aveva iniziato a strofinare il muso avvolto nella fune contro il vialetto; ottima strategia, in effetti. Continuò a tenere d’occhio Peter per tutto il tempo. Peter riusciva quasi a percepire il peso fisico di quello sguardo, settanta chili di cane che progettavano di dilaniargli la

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