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Nel silenzio della notte
Nel silenzio della notte
Nel silenzio della notte
E-book418 pagine6 ore

Nel silenzio della notte

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Info su questo ebook

Il thriller più adrenalinico che leggerete quest’anno

Owen hall si ferma a una stazione di servizio e la ragazza che è in macchina con lui si avvia verso i bagni delle donne. Non farà mai ritorno. Nessuna telecamera l’ha ripresa e Owen è l’unico ad averla vista in quel luogo. La reazione disperata del ragazzo spinge i presenti, allibiti, a chiamare la polizia. Le autorità non aspettavano altro per rimetterlo sotto torchio. Owen infatti è tra gli indiziati di un delitto che ha sconvolto la provincia: l’omicidio di un uomo avvenuto poco tempo prima, il cui cadavere è stato trovato in aperta campagna nella sua auto. Owen è sempre stato considerato da tutti un “diverso”. È grande e grosso, e ha la tendenza a balbettare e parlare da solo. È lui il colpevole? O qualcuno sta cercando di incastrarlo? Nessuna tra le persone vicine alla vittima sfugge ai sospetti. Forse intorno a questo omicidio niente è come sembra.

Un autore da oltre 100.000 copie
Un thriller angosciante pieno di colpi di scena e suspense 

Un uomo è morto 
Una donna è scomparsa
Le due cose sono davvero collegate come sembrano?

«Un romanzo straordinario. Crepita e scintilla come un falò in una notte d’inverno. Incantevole.»
A. J. Finn, autore bestseller del New York Times

«L’autore ci porta all’interno di una trama oscura, avvincente e magistralmente costruita.»
Chichester Observer
G.J. Minett
ha insegnato per diversi anni nel Gloucestershire e nel West Sussex, dopo essersi laureato in Lingue al Churchill College a Cambridge. Nel 2008 ha conseguito un Master in Scrittura Creativa all’Università di Chichester. Sempre nello stesso anno ha vinto il concorso Segora per racconti brevi e, nel 2010, il Chapter One. Arriva per la prima volta in Italia con Nel silenzio della notte. Vive nel West Sussex con moglie e figli.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2018
ISBN9788822727138
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    Anteprima del libro

    Nel silenzio della notte - G.J. Minett

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    Indice

    Prologo. Oggi: mercoledì 1 ottobre

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1. Qualche tempo prima: venerdì 22 agosto

    Capitolo 2. Oggi: giovedì 2 ottobre

    Capitolo 3. Qualche tempo prima: sabato 23 agosto

    Capitolo 4. Oggi: giovedì 2 ottobre

    Capitolo 5. Qualche tempo prima: lunedì 25 agosto

    Capitolo 6. Oggi: giovedì 2 ottobre

    Capitolo 7. Qualche tempo prima: martedì 26 agosto

    SECONDA PARTE

    Capitolo 8. Qualche tempo prima: giovedì 11 settembre

    Capitolo 9. Oggi: lunedì 6 ottobre

    Capitolo 10. Qualche tempo prima: sabato 13 settembre

    Capitolo 11. Oggi: lunedì 6 ottobre

    Capitolo 12. Qualche tempo prima: mercoledì 17 settembre

    Capitolo 13. Oggi: mercoledì 8 ottobre

    Capitolo 14. Qualche tempo prima: domenica 21 settembre

    Capitolo 15. Oggi: mercoledì 8 ottobre

    Capitolo 16. Il giorno del delitto: lunedì 25 agosto

    TERZA PARTE

    Capitolo 17. Venerdì 5 dicembre

    Capitolo 18. Lunedì 8 dicembre

    Capitolo 19. Giovedì 11 dicembre

    Capitolo 20. Sabato 13 dicembre

    Capitolo 21. Domenica 14 dicembre

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

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    2128

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Lie in Wait

    Text copyright © G.J. Minett, 2016

    The right of G.J. Minett to be identified as Author of this

    work has been asserted in accordance with the

    Copyright, Designs and Patents Act, 1988

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Emanuela Alfieri

    Prima edizione ebook: gennaio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2713-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    G.J. Minett

    Nel silenzio della notte

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Ronald John Minett

    3.11.1922 – 16.01.2016

    Con tutto il nostro amore

    Prologo

    Oggi: mercoledì 1 ottobre

    Owen

    «Insomma, quanto manca?», chiede lei.

    Via dalla rotonda, in terza, acceleratore. Il motore urla come un pazzo, finché riesce a inserire la quarta – il cambio è ostinato come un mulo. E a quanto pare ormai ci vogliono le maniere forti. La scatola del cambio è praticamente andata, a sentire Vic dell’officina forse reggerà ancora dieci, massimo quindicimila chilometri. Poi dovrà cercare una soluzione. Un furgone tutto nuovo non sarebbe male, ma dovrà aspettare due anni, se va bene. Anche una scatola del cambio di seconda mano lo lascerebbe al verde, al momento.

    Willie dice che è tutta colpa sua, perché non è ambizioso. Hai un cervello grande quanto un pianeta: perché minchia ti guadagni da vivere cazzeggiando con i tosaerba? Dice un sacco di parolacce, Willie è fatto così. Puoi criticarlo quanto vuoi, non serve a niente. Riattacca subito – fottuto di qua, vaffanculo di là.

    «Venti minuti», biascica. «F-forse meno».

    «A cosa? Worthing o l’hotel?»

    «Non conosco l’hotel». Gliel’ha già detto. Perché non lo ascolta? Crede che non abbia niente di meglio da fare che rispondere a domande stupide?

    Man mano che la lancetta si avvicina agli ottanta, il motore comincia a vibrare. Alla luce dei fanali riesce a leggere la targa della macchina davanti: GR02ZMM. Totale: settantanove. Il calcolo è automatico, l’irritazione immediata. Numero primo, pensa tra sé e sé. Vediamo… superare o restare indietro? O l’una o l’altra. Qualunque cosa pur di non stargli troppo addosso. Rapida verifica per vedere se arriva qualcuno dalla parte opposta: fila interminabile di fari. Allora via di nuovo il piede dall’acceleratore, ed ecco l’auto che si allontana.

    Cretino, pensa. Non si dovrebbe guidare una macchina con i freni difettosi o le gomme praticamente giù fino al cerchione. Perché la gente nutre così tanta fiducia in dei fattori che fanno acqua da tutte le parti – aspetto esteriore, dress code, personalità – e invece ignora la sicurezza dei numeri? La gente mente… sempre. I numeri invece sono fedeli.

    «D’accordo», dice Julie, sollevando l’iPhone. «Fammi un fischio quando siamo vicini a Worthing, così metto Google Maps».

    Ora stanno entrando in aperta campagna, Yapton e Barnham laggiù sulla sinistra. Nello specchietto retrovisore i lampioni schizzano via. Azzarda un rapido sguardo con la coda dell’occhio. Non riesce a vederla bene in faccia, non con chiarezza. Il bagliore del cruscotto e i fanali delle auto nell’altra direzione le mitragliano il viso, facendole scintillare per un attimo le lenti degli occhiali. Per il resto nulla. Buio.

    Non è carina nel vero senso della parola, pensa. Carina non è un termine azzeccato, per niente. Abi sì che è carina, invece. Lo è sempre stata. Deve ammettere che forse non è il massimo usarla come termine di paragone anche ora, ma è così, a volte non puoi farci niente. No, Julie non è carina. Carina fa pensare a qualcosa di piccolo e lei è alta qualche centimetro di troppo. Agile, atletica. Il suo portamento ha un non so che di spavaldo; sembra quasi che si tenga pronta a menare le mani, in caso di necessità. Per lo meno lei c’è. Non è che ultimamente la gente si sia messa in fila per dargli una mano.

    La valutazione che ha dato Willie di lei è: potrei farmela. E già questo ti fa capire tutto di Willie.

    Svolta di Climping superata. Laggiù sulla destra il campo da golf di Littlehampton e, più in là, rannicchiato in basso, il resort. Regolatore d’intensità della luce al minimo, una strana, fitta foschia sospesa intorno ai lampioni, che sono ricomparsi sul ciglio della strada.

    «Ci siamo quasi?», chiede di nuovo lei. Ecco, un’altra domanda stupida.

    «Più o meno un quarto d’ora».

    Lei sospira, si contorce sul sedile. «Senti, mi dispiace davvero, ma credi che potremmo fermarci da qualche parte un paio di minuti? Non ce la faccio più. Devo fare pipì».

    Il Tesco è già sfrecciato via sul lato opposto della strada a doppia carreggiata. Percorre mentalmente i tre chilometri successivi. Scorge la rotonda del Body Shop. Punta la stazione di servizio Shell sul lato opposto.

    «Ancora due o tre minuti», le dice.

    «Ottimo. Scusami», ridacchia. «Ho la vescica piccola». Owen arrossisce, spera che Julie non riesca a vedergli il volto meglio di quanto lui veda il suo.

    Nuovo semaforo davanti a loro. Giallo. Frena e ficca a forza il cambio in folle. Altra occhiata allo specchietto retrovisore, mentre si fermano del tutto: i fanali dell’auto alle loro spalle, sembra che ci metta un’eternità a colmare la distanza che li divide. Semaforo verde e colpo di clacson da una delle macchine incolonnate dietro, auto che riparte sobbalzando, come se il conducente fosse stato bruscamente svegliato da un sogno a occhi aperti.

    HK12RCA. Totale: cinquantatré. Numero primo. Stretta allo stomaco mentre armeggia con il cambio e riparte. Stessa auto. Rovista nei ricordi del viaggio che li ha portati fin lì, individua le posizioni esatte. Il semaforo vicino alla rotonda di Martlets. Poi, appena dopo essersi lasciati alle spalle il lungomare di Bognor, subito dopo l’ingresso della spiaggia di Butlins. E adesso lì.

    Ecco che ricomincia a dondolarsi – oscilla avanti e indietro, avanti e indietro sul sedile, mormorando tra sé e sé il numero di targa, ancora e ancora.

    Ehi, ma quante volte bisogna dirtelo? Piantala.

    Owen, tesoro…

    Lo sistemi tu o devo pensarci io?

    Owen, basta, ecco, bravo.

    Sembra di vivere con un maledetto deficiente.

    Con la coda dell’occhio vede Julie che lo guarda attentamente, più perplessa che allarmata. «Tutto bene?», chiede, allungando un braccio e mettendogli una mano sul ginocchio. Lui si tira indietro di scatto, neanche lo avesse fulminato con un taser, si obbliga a calmarsi, a concentrarsi. Si riappoggia allo schienale, spalle rigide, muscoli del collo tesi contro il poggiatesta. Deve uscirne.

    «Che succede?», chiede di nuovo lei.

    «L’auto dietro – no, non voltarti», le risponde, afferrandole il braccio mentre lei si gira sul sedile.

    «Che vuoi dire?»

    «Ci sta seguendo, credo».

    Lei non risponde subito, si prende il tempo di digerire la cosa. «Perché?»

    «Ci sta dietro da quando siamo partiti. Si lascia superare, in modo che ci siano sempre delle macchine tra noi. Quando non ha scelta, ci raggiunge».

    Lei scuote la testa. «No, voglio dire: perché mai ci starebbe seguendo?».

    Zero risposte. Non ha detto a nessuno di Worthing o del Burlington. Impossibile che qualcuno sappia, a meno che lei non si sia fatta sfuggire qualcosa.

    «Non so», dice.

    Lei ride, gli dice che ha visto troppi film.

    «Se ti dà fastidio, lascialo passare».

    Di nuovo la mano sul ginocchio. Voltaggio leggermente inferiore questa volta, ma preferirebbe che lei non lo facesse. Non la conosce abbastanza bene per quel grado di intimità. Non dice niente. Fa tre respiri profondi. Uno… due… tre. L’impulso sfrenato a dondolarsi avanti e indietro è sempre lì, ma pian piano sta calando. Riesce a rilassare un po’ le spalle. Fa scorrere il dito sulla fronte madida. Comincia già a fare più freddo la sera, ma sente un rivolo di sudore colare giù per il collo e penetrargli sotto la maglietta. Ancora un paio di respiri profondi. Forse ha ragione lei. Magari se lo sta solo immaginando. In ogni caso non ci pensa nemmeno a staccare gli occhi dallo specchietto retrovisore e continua a sorvegliare ogni manovra della macchina alle loro spalle.

    Nuova zona residenziale che sbuca sulla sinistra, nascosta all’ombra del tentacolare complesso del Body Shop. Ancora una rotonda e ne avrà la sicurezza. Lei ha visto la stazione di servizio più avanti e gliela indica.

    «Che ne dici di quella?», gli chiede. «Ce l’avranno un bagno, no?». Lui annuisce, e in quello stesso istante si rende conto che preferirebbe andare da un’altra parte. Ha ancora davanti agli occhi Callum che fa benzina, mentre la sua amichetta scompare all’interno per pagare. Tuttavia non vede perché dovrebbe dirle di no, tanto più che si sta letteralmente contorcendo sul sedile.

    «Devi fare benzina?», chiede Julie. Lui scuote la testa. «Mentre aspetti, potresti fare un salto dentro a comprarmi delle mentine o qualcosa del genere? Avrei voglia di rinfrescarmi un po’ la bocca».

    Lui annuisce, ma in realtà pensa ad altro. Tiene gli occhi fissi sullo specchietto, lo buca con lo sguardo. Quando mette la freccia per svoltare a destra e si sposta sulla corsia esterna, tra i due veicoli ci sono trenta metri. Due secondi dopo vede l’altro automobilista fare lo stesso e sussulta. Camion enorme della Norbert Dentressangle proveniente da destra. Giusto il tempo di portarsi avanti e accelerare dentro la rotonda; a quel punto: non l’ingresso del Body Shop, non l’A259, via con la terza uscita. Il copione è costretto a lasciar passare il camion e un paio d’auto e, quando Owen svolta quasi subito a sinistra per prendere la strada d’accesso alla stazione Shell, i fanali sono scomparsi dallo specchietto. Rallenta per un secondo o due, girandosi a metà sul sedile per guardare meglio. Con una certa soddisfazione vede una grossa station wagon che tira dritto alla piccola rotonda, allontanandosi in direzione di Rustington. Non riesce a vedere la targa da lì, ma è piuttosto sicuro: è la stessa auto che li seguiva. Si rilassa, il battito del cuore un po’ meno insistente.

    «Mi fai scendere qui?», chiede lei. Mentre accosta sul retro dell’edificio, gli indica qualcosa fuori dal finestrino: «Quel coso per misurare la pressione delle gomme… Ecco, magari parcheggia là. Io vado a cercare il bagno. Ci metto solo un secondo, promesso». Gli lancia un sorriso mesto. «Mi dispiace davvero».

    Le fa segno che non ha intenzione di accettare i suoi soldi e lei supera di corsa i bidoni rossi con la scritta Biffa, per poi sparire nell’oscurità dietro lo stabile. Si gira sul sedile, più interessato a capire se l’automobilista si renderà mai conto che hanno svoltato e sono tornati indietro. La cosa non lo stupirebbe affatto. Non ci si sbarazza tanto facilmente dei numeri primi. Il cinquantatré è uno di quelli che gli hanno sempre dato problemi. L’anno di nascita di suo padre? Il 1953. Il cellulare di Callum? 07977642452. Totale: cinquantatré. Quei segnali… ci deve essere un motivo. Non si può fare a meno di notarli.

    Aspetta qualche secondo, poi fa il giro dell’edificio portandosi sul davanti e, come ha suggerito lei, parcheggia accanto al manometro per la pressione degli pneumatici. Mentine, pensa. Controlla di avere il portafogli, poi scende dal furgone, senza chiuderlo a chiave, nel caso in cui lei dovesse tornare prima. Tanto dentro non c’è nulla che vale la pena di prendere. La furbata sarebbe lasciare le chiavi nel quadro nella speranza che qualcuno se lo porti via.

    Dentro, un mare di gente. Alla cassa un tipo con il chewing gum in bocca serve la folla in coda: una ragazza in camicia bianca e jeans neri che blocca la fila incaponendosi con una carta di credito che si rifiuta di funzionare; una donna che tiene per mano un bambino, cocciutamente decisa a mettersi tra lui e l’espositore di caramelle e cioccolatini; un uomo di mezza età con una tuta da lavoro macchiata d’olio che batte i piedi sul pavimento e si chiede borbottando se ce la farà a uscire da lì prima di Natale. Si mette in coda e nell’attesa controlla l’assortimento di mentine. Non ha idea di quali preferisca lei. Decide di prenderne diversi pacchetti. Così non può sbagliare.

    Alla fine la ragazza se ne va e tutti scalano in avanti di una posizione. Il bambino ora l’ha notato e lo fissa. A quanto pare i più piccoli non riescono proprio a farne a meno. Jack e la pianta di fagioli. Hagrid. Shrek. Lo fissa a sua volta, il bambino regge per un paio di secondi il suo sguardo, poi si aggrappa alla gamba della madre. Lei lo spinge via con il ginocchio, troppo presa a picchiettare il PIN per dargli retta. Il piccolo non è più così interessato a caramelle e cioccolatini.

    Finalmente tocca a lui. Mette i cinque pacchetti sulla cassa e rovista nella tasca in cerca dei soldi. Il tipo fa schioccare il chewing gum, guarda le mentine e allarga la bocca in un sorriso.

    «Preoccupato per l’alito?».

    Lui aggrotta la fronte, scuote la testa: no. Domanda stravagante. Conta le monete… con attenzione. Il tipo fa spallucce e chiede se gli serve benzina. Scuote di nuovo la testa, spinge la somma esatta sulla cassa. Poi prende le mentine, si gira e torna al pick-up. Una Toyota gli passa accanto e il bambino si volta a fissarlo da dietro il finestrino, più spavaldo ora che sa di essere al sicuro.

    Quando arriva al pick-up, lei non c’è. Pensava di trovarla già lì. È rimasto parecchio nel negozio. Lancia le mentine sul sedile del passeggero e decide di aspettarla fuori, appoggiato al cofano. Passano cinque minuti, interminabili. Sei. Un po’ strano, pensa. Non si spiega come ci si possa mettere tanto a fare un salto in bagno. Scende dal furgone e raggiunge il retro della stazione di servizio. Gli occhi si adattano all’oscurità mentre cerca di individuare i bagni. Niente. Fa un giro completo attorno allo stabile. Ancora nulla. Nessuna toilette all’esterno. Dentro, allora. Sì, deve essere entrata mentre lui parcheggiava il furgone.

    All’interno persone diverse. Il tipo alla cassa non alza gli occhi. Troppo preso a ridere e scherzare con due donne che i quaranta li hanno già passati da un pezzo ma sono vestite come se non lo sapessero.

    Altro cliente: uomo elegante in giacca e pantaloni, cravatta allentata, intento a controllare la data di scadenza dei panini avanzati dalla mattina, bottiglia di Irn-Bru che gli penzola dalla mano.

    La toilette deve essere in una nicchia nell’angolo più lontano. Finge di essere interessato alla corsia delle patatine, poi, quando è sicuro che nessuno lo stia guardando, va a bussare alla porta. La chiama per nome a bassa voce. Bussa di nuovo, in modo un po’ più deciso. Ancora nessuna risposta. Prova con la maniglia: chiusa a chiave. La chiama per la terza volta e colpisce la porta con la mano aperta. Ormai l’hanno sentito tutti.

    «Ehi. Scusi». L’addetto è riuscito a distogliere l’attenzione dalle donne alla cassa. Si sente costretto a intervenire in qualche modo. Owen dà un altro colpo, questa volta grida, chiama Julie a pieni polmoni.

    «C’è qualche problema?», chiede il tipo, in modo un po’ più educato, dopo essere emerso dall’altro lato della cassa. Allo scoperto è meno sicuro di sé. Forse, dopo aver squadrato Owen, ha concluso che mostrarsi aggressivo non è la scelta più furba.

    «Lei n-non esce».

    «Può smetterla, per favore?», chiede il tipo, quando Owen picchia di nuovo la mano contro la porta. «Lì dentro non c’è nessuno, d’accordo? È chiuso».

    «JULIE».

    «È chiuso, ha capito? Le chiavi sono dietro la cassa».

    L’uomo elegante li ha già raggiunti e anche le due donne si sono avvicinate tacchettando sui loro trampoli da suicidio. Quel pubblico non gli piace.

    «Lei è e-entrata per usare la toilette», dice, consapevole che le tempie stanno ricominciando a martellargli. Tra non molto inizierà a dondolarsi avanti e indietro.

    Ormai si sono avvicinati tutti, nel tentativo di aiutare l’addetto a fargli capire per bene il messaggio. Lei non può essere lì dentro. La porta è chiusa dall’esterno. Viene aperta solo se qualcuno chiede di usare la toilette. E prima bisogna prendere le chiavi alla cassa. Nelle ultime due ore nessuno l’ha fatto. Lo capisce? Parlano molto lentamente. Non sopporta quando le persone fanno così.

    Si gira verso la parete e preme la fronte contro il muro. Cerca di concentrarsi, spreme fuori ogni motivo di distrazione: il pubblico che aumenta, le domande stupide, lo starnazzare preoccupato. Una delle donne gli afferra il braccio e cerca di ricondurlo verso la soglia, ma lui si libera. Ha solo bisogno di stare qualche minuto da solo, per riflettere. Se lei non è lì e non ci è mai entrata, allora dov’è andata? E perché? E cosa dovrebbe fare lui adesso? Andarsene e abbandonarla? Se solo lo lasciassero in pace per qualche minuto…

    Riesce a sentirli sussurrare tra loro, li spintona via per uscire, rovesciando nella fretta un espositore di barrette di cioccolato. Corre al pick-up: lei non c’è. Le mentine sono ancora sul sedile anteriore. E accanto a loro… una busta marrone A4. Si è materializzata dal nulla. Gira in tondo, sperando di scorgere chiunque l’abbia lasciata lì. Entra e afferra la busta. La apre strappandola e guarda il contenuto riversarsi sul sedile.

    Foto. Quattro. Accende la luce interna e le esamina, una per una. Quando l’addetto lo chiama per chiedergli se va tutto bene, quasi non lo sente. Un attimo dopo è seduto al volante e armeggia con la chiave per cercare di spingerla nel quadro. Il motore fatica ad avviarsi, ci vogliono tre tentativi, poi alla fine si accende. Si precipita a tavoletta fuori dal piazzale, snocciolando i numeri primi, urlandoli con tutto il fiato che ha in gola per coprire la loro insistente esultanza e privarli di qualunque potere pensino di avere su di lui.

    È arrivato a trecentodiciassette, sessantaseiesimo numero della sequenza, quando si rende conto che non si è neanche messo la cintura né ha acceso i fari.

    Prima parte

    1

    Qualche tempo prima: venerdì 22 agosto

    Abi

    «Oddio, Abi!».

    Mary fece un passo indietro per vedere meglio, mettendosi una mano sulla bocca.

    «Ti piace?»

    «Se mi piace? Scherzi? È…». Si interruppe. Era rimasta senza parole, cosa che per una scrittrice era così strana da rappresentare un grande complimento. Abi armeggiava con la scatola vuota, la testa china. Dopo aver riposizionato il coperchio, la spostò sul piano del lavello, appoggiandola accanto alle chiavi dell’auto.

    Quel suo comportamento seguiva una ricetta complessa basata su una molteplicità di ingredienti diversi: una parte di praticità (in quel modo non avrebbe dimenticato la scatola), una parte di strategia (lascia sempre che sia il cliente a fornire l’accompagnamento sonoro) e forse giusto un pizzico di imbarazzo. Non si trattava certo della sua prima torta e, tuttavia, rieccola lì alla disperata ricerca di approvazione. Non che Mary avesse bisogno di incoraggiamenti: pur tenendo conto della sua naturale inclinazione a esagerare, bastava guardare il modo in cui le brillavano gli occhi per capire quanto fosse colpita.

    «Sul serio, Abi. Sei veramente brava. Io non sarei assolutamente in grado di fare una cosa del genere. Non saprei nemmeno da dove iniziare. Dovresti proprio farlo di mestiere».

    «Non avrai dimenticato che devi pagarla, vero?», scherzò.

    «Dico davvero. Intendo come lavoro a tempo pieno. Sei sprecata in una libreria quando potresti guadagnarti da vivere così! Oddio, ma guardala!». Indicò il piano superiore, sagomato a forma di enorme libro aperto con le pagine traboccanti di caratteri. «Un momento… ma sono tratte dal mio nuovo romanzo». Fece scorrere il dito sul titolo: Maniere forti, di Mary Kowalski. «Come diavolo sei riuscita a riprodurle?»

    «Fotocopiate», rispose Abi, felice di avere la possibilità di spiegare i suoi metodi. «Oggi con la stampante adatta si possono fare riproduzioni su carta commestibile. Le potenzialità sono incredibili. Resteresti sbalordita».

    «Ed è tutto commestibile?», chiese Mary. «Non so neanche perché te lo chiedo. Non riesco neppure a immaginare di tagliarla. Sarebbe come… Non so, squarciare un Vermeer o qualcosa del genere».

    «Comunque, se vuoi, puoi conservare i modelli», spiegò Abi, controllando qua e là i supporti per assicurarsi che fossero ancora ben saldi. «Sono fatti interamente di pasta di zucchero. Tutto il resto, se fossi in te, lo taglierei a pezzi. La torta dovrebbe resistere una settimana, a meno che tu non decida di surgelarla. Però non metterla in frigorifero, intesi? La pasta di zucchero diventerebbe tutta lucida e bagnata».

    Mary si soffermò di nuovo a guardare la torta, poi si voltò ad abbracciarla.

    «Non ti pago abbastanza», disse. «Devi averci messo delle ore. Ho intenzione di sfoggiarla in giardino. Vedrai, sarai sommersa dai complimenti. Verrai stasera, giusto? Cioè, verrete?».

    Abi comprese il significato di quel ripensamento: le ultime due parole le aveva pronunciate in tono riluttante, restio. «Certo. Callum magari tarderà un po’, ma, se vuoi, io posso venire prima per aiutarti a preparare tutto».

    «Solo se non ti crea problemi», disse Mary. Sollevò un dito, evidentemente le era venuta un’idea. «Non vai di fretta, vero? Hai tempo di venire a dare un’occhiata?».

    Abi controllò l’orologio. «Ho ancora cinque minuti».

    Mary la prese sotto braccio e la condusse verso il retro. «Non ci crederai mai», disse, aprendo la porta e uscendo nella veranda. «Avevi visto com’era qui quando ci siamo trasferiti, giusto? Ti ricordi il caos, e che Max mi aveva promesso che avrebbe sistemato tutto entro la fine dell’estate? Bene… ora dimmi cosa ne pensi».

    Attraversarono la veranda, percorsero un vialetto, schivando gli attrezzi da giardino e i sacchi di compost mezzi vuoti che lo ingombravano, e svoltarono a sinistra in quella che solo quattro mesi prima era poco più che una giungla incolta, tormentata dalle erbacce e infestata dai rovi. La trasformazione era totale. Innanzitutto l’intera area era stata ripulita e spianata – e già questo era un risultato tutt’altro che trascurabile. I cespugli erano stati sradicati, gli alberi potati e l’incuria di anni e anni – colpa della coppia di anziani che aveva abitato lì in precedenza – era stata cancellata nel giro di qualche mese. Inoltre erano state bordate e piantumate delle aiuole su entrambi i lati del viale che conduceva alla casetta da giardino nuova di zecca, dotata, in virtù della posizione defilata, di un’ottima esposizione al sole del primo pomeriggio. Il giardino aveva completamente cambiato faccia.

    «Non mi prendo neanche la briga di chiederti se è stata opera di Max», disse Abi, scuotendo la testa per lo stupore.

    Mary rise. «Magari. Ma no, è merito di quel tipo in cui mi sono imbattuta un po’ di tempo fa. Che tu ci creda o no, ho trovato il suo biglietto da visita nella vetrina dell’ufficio postale».

    Abi guardò ancora la casetta e pensò a quanto fosse insulso il loro giardino, al confronto. Scialbo. Insignificante. Aveva bisogno di un ripensamento radicale, magari anche di portata minore, ma… Se solo qualcuno che sapeva il fatto suo avesse preso in mano la situazione e dedicato un po’ di tempo e immaginazione al progetto, di sicuro si poteva realizzare qualcosa di bello.

    «Si chiama Owen», disse Mary. «Owen Hall. Posso darti il suo numero. Ha anche un sito, se preferisci. Basta cercare su Google Hall Gardening Services». Si interruppe, notando che Abi sorrideva in silenzio. «Che c’è?»

    «No, niente», rispose Abi. «Solo che conoscevo un Owen Hall, anni fa. Veniva a scuola con me».

    «Un vecchio fidanzatino?»

    «Owen?», ridacchiò Abi. «Oddio, no».

    «Insomma questo tipo è alto due metri e ha un fisico decisamente scolpito. Non dirlo a Max, ma ho passato ore seduta alla scrivania nella speranza, a dirla tutta piuttosto remota, che si sfilasse la camicia, quindi, se è lo stesso ragazzo con cui andavi a scuola, non posso fare a meno di chiederti come mai non te lo sei accalappiato ai tempi. Potrebbe essere lui?».

    Abi sorrise di nuovo, poi scosse la testa. «No, proprio no».

    Danny

    Vide la ragazza per la prima volta più o meno a cento metri di distanza. Si era fermata in mezzo alla pista ciclabile e scrutava angosciata la ruota anteriore della bici. Lo spazio per superarla ci sarebbe anche stato, se avesse voluto, ma, quando si avvicinò, lei gli lanciò un’occhiata implorante e allargò le braccia per fargli capire che aveva bisogno d’aiuto. Lui frenò con decisione e, con la ruota posteriore che derapava in una bella sgommata, si fermò qualche metro più in là.

    «Tutto bene?», chiese, appoggiando la bicicletta a terra e andandole incontro. «Serve aiuto?».

    La ragazza lo ringraziò per essersi fermato e gli spiegò che aveva la sensazione che la ruota si stesse allentando. «Ho paura che mi farà finire gambe all’aria o qualcosa del genere».

    «D’accordo», disse lui, accovacciandosi al suo fianco e controllando attentamente che la ruota non facesse troppo gioco. «Diamo un’occhiata».

    In quel momento una Mercedes nera uscì dal traffico e si fermò sul ciglio erboso. La portiera posteriore si aprì e ne scese un giovane con la testa rasata, forse di un paio d’anni più giovane di Danny, con una canottiera e un paio di pantaloni della tuta. Danny lo guardò, grato per l’implicita offerta di aiuto, e si stupì quando il presunto samaritano li superò entrambi e sollevò la sua bicicletta. Il tipo montò in sella e rimbalzò con il fondoschiena sul sellino due o tre volte, come per testarne la comodità.

    Danny si rialzò lentamente e gli andò incontro.

    «Ti dispiace?», chiese, in modo piuttosto cordiale date le circostanze. «È la mia bici».

    «Che merda», mugugnò il giovane senza neanche avere il buon gusto di guardarlo in faccia. «Potevi almeno metterci delle ruote decenti».

    «Ok, grazie», disse Danny. «Adesso che ne dici di scendere?».

    Il giovane afferrò i freni e spinse con forza, facendo sollevare in aria la ruota posteriore. «Sali in macchina», disse.

    «Cosa?». Danny si voltò a guardare la Mercedes. La portiera posteriore era ancora spalancata, ma non riusciva a vedere abbastanza bene per capire chi altro potesse esserci all’interno. Si chiese cosa stesse pensando di tutto ciò la ragazza e si stupì quando vide che era rimontata in sella alla bici e se ne stava lì china sul manubrio a guardare la scena, incuriosita. Scusa, gli mimò con le labbra e abbozzò un rapido sorriso, sincero come quello di un conduttore di quiz televisivi. Ma che diavolo stava succedendo?

    «Danny, ti ho detto: Sali in macchina».

    «Dici sul serio? Io non vado da nessuna parte». All’improvviso si interruppe: ci era arrivato solo in quel momento. «E poi come fai a sapere il mio nome?».

    Il giovane smise di giocare con i freni e per la prima volta lo guardò negli occhi. Nessuna traccia di sorriso. Nessuna traccia di alcunché. Scese dalla bici e la appoggiò per terra con una delicatezza esagerata.

    «Te lo sto chiedendo gentilmente. Devo dirti anche per favore?»

    «No», rispose Danny, facendo un passo avanti e cercando di scansarlo. «Non voglio che tu dica per favore. Voglio che tu mi restituisca la bici, altrimenti io…».

    Fu la velocità dell’aggressione a stenderlo, anche se il movimento aveva una sua cattiveria insita che faceva pensare che persino senza il fattore sorpresa il risultato non sarebbe stato diverso. Un istante prima erano in piedi uno accanto all’altro, quello dopo lui era crollato a terra e giaceva disteso sulla ruota posteriore della bici, cercando disperatamente di risucchiare aria nei polmoni. Il pugno l’aveva colpito ai reni, proprio sotto la cassa toracica, con una potenza stupefacente. Non l’aveva visto arrivare né aveva fatto nulla per proteggersi, quindi il contraccolpo era stato immediato e lancinante. Non sapeva proprio come sarebbe riuscito a fare il respiro successivo.

    «Eccoti servito», disse il giovane, chinandosi su Danny, che cercava di trovare una posizione qualunque che gli concedesse un minimo di sollievo. «Per favore… Sali su quella cazzo di macchina».

    «Grazie, T.J. Credo che da qui in avanti ce ne occuperemo noi». La voce, colta, pacata, del tutto fuori luogo date le circostanze, proveniva dalle viscere della Mercedes. «Sarebbe magnifico se tu potessi aiutare il signor Locke a salire in macchina».

    Danny boccheggiava ancora e non era nelle condizioni di opporre resistenza. Il giovane lo afferrò sotto le ascelle e, con una forza che contrastava con la corporatura longilinea, lo rimise in piedi. Lui crollò nuovamente in avanti, afferrandosi le costole, e un secondo uomo uscì dalla Mercedes per dare una mano. Tenendolo uno da una parte e uno dall’altra, raggiunsero l’auto, a tratti sostenendolo e a tratti trascinandolo. Lo scaraventarono sul sedile posteriore, dove atterrò accanto a un uomo di mezza età ben vestito di cui tutto si poteva certo dire tranne che non facesse uso del dopobarba. Armani Code. Il secondo uomo salì accanto a Danny; il giovane in tuta rimase in piedi vicino alla portiera.

    «Quanto tempo ci metterete tu e Sonia?», gli chiese il signor Armani Code.

    «Per il centro sportivo Arun? Venti minuti, direi».

    «Chiederò a Trevor di fare una piccola deviazione e ci troveremo lì. Signor Locke, che ne dice di togliersi il caschetto?», aggiunse, rivolgendosi direttamente a Danny per la prima volta. «Credo che nel prossimo quarto d’ora o giù di lì T.J. ne avrà molto più bisogno di lei».

    «Mi ha spezzato le costole», riuscì a dire con voce soffocata.

    «Oh, non credo proprio», fu la risposta. «Nonostante la giovane età, T.J. ha una considerevole esperienza in questo genere di cose e, se avesse voluto spezzarle le costole, credo che ce ne saremmo accorti tutti. Tuttavia domattina potrebbe benissimo comparirle un livido. Se fossi in lei, stasera a casa applicherei un po’ di ghiaccio. E forse ora sarebbe il caso di sedersi un po’ più dritto e di fare qualche bel respiro profondo. Far prendere un po’ di vento alle vele, per così dire». Schioccò le dita. «Caschetto, prego!».

    Danny soppesò rapidamente le alternative e decise che non ne aveva nessuna. Sganciò il caschetto e se lo sfilò lentamente dalla testa. Raddrizzare la schiena, invece… Più facile a dirsi che a farsi. Era rimasto abbastanza lucido da chiedersi come mai non fosse intervenuto nessuno in suo soccorso. Quella zona era così trafficata, di sicuro qualcuno doveva aver notato ciò che stava succedendo.

    Osservò il giovane prendere il caschetto e avviarsi pedalando lungo la pista accanto alla ragazza. Ridevano.

    «Dove va con la mia bici?», riuscì a chiedere, centellinando le parole come se fossero banconote segnate.

    «Non si preoccupi: è in buone mani, glielo garantisco. Quando la lasceremo al centro sportivo, la troverà lì ad aspettarla. Nel frattempo il nostro Trevor ci porterà a fare un giretto in macchina sul

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