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Malox for breakfast
Malox for breakfast
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E-book242 pagine3 ore

Malox for breakfast

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Info su questo ebook

Stephan Corradi non è un supereroe e non sta per salvare il mondo. E nemmeno lo vorrebbe.
Stephan Corradi dovrebbe telefonare più spesso a sua madre o, almeno, rispondere alle sue chiamate.
Stephan Corradi non si chiama Stefano e, soprattutto, non è Paolo Masi.
Eppure qualcuno è convinto che lui lo sia e lo sta cercando.
Ma chi è, poi, Paolo Masi?
"La città è un lupo stanco e sempre affamato. Un manto spelato su una carcassa scheletrica di strade disastrate. I grattacieli denti affilati incastonati in gengive nere e senza più presa. Il vecchio lupo ha percorso zoppicante la sua strada. Annusando. Aspettando. Ci ha scovati e seguiti. Noi ghiotte prede da divorare in un solo boccone. Noi inutili stalker dietro un monitor senza più spina dorsale. Noi fotocopie l'uno dell'altro, appassiti nella convinzione di essere l'uno migliore dell'altro".
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2018
ISBN9788861555969
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    Anteprima del libro

    Malox for breakfast - Piero Mariella

    Piero Mariella

    Malox

    for breakfast

    Collana CrimeGiraldi n. 6

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-596-9

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2018

    La fotografia di Piero Mariella in copertina è di Roberta Trani

    Businessman in copertina © Shutterstock

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    1

    Quando il telefono squilla sono appena le 7.45.

    «…mmm sì…» rispondo con voce impastata e roca.

    «Avanti pelandrone, giù dal letto!» mi esorta una voce femminile dal marcato accento dell’est.

    «Grazie, Gilda» sbuffo meglio che posso.

    Da quasi due anni pago la signorina Emma Vidmar, in arte Gilda, perché ogni santa mattina, festivi esclusi, mi butti giù dal letto con la sua voce suadente un po’ da mamma e un po’ da squillo d’alto bordo. Gilda è in Italia da molti anni e alle spalle si è lasciata una vita in Slovenia fatta di botte e angoli di strada, qualche sprazzo d’infanzia felice tra compleanni e gite al lago con i suoi fratelli, e due o tre ricordi di quando ancora suo padre non aveva mollato la famiglia per inseguire a Milano le sottane di una modella ungherese di ventisette anni. Gilda aveva provato a cercarlo, ma, una volta arrivata a Milano, le erano state proposte le stesse cose che aveva cercato di non mettere in quel vecchio zaino Invicta prima di salire sul primo treno notturno in partenza da Kranj: botte e angoli di strada. E le erano state proposte proprio dallo stesso uomo che l’aveva portata via da Kranj dicendo di amarla. Il guaio, quando hai vent’anni, una quarta di reggiseno e un dannato bisogno di andar via dal posto in cui sei nata e cresciuta, è che se qualcuno dice di amarti tu vuoi disperatamente credergli.

    Così, dopo i primi mesi come badante per un vecchio bavoso i cui principali interessi erano il cruciverba di Bartezzaghi sulla settimana enigmistica e il palparle il culo tra il tre orizzontale e il quattro verticale, era finita a lavorare in una chat line erotica in Corso Sempione. Al proprietario non importava molto che le uniche parole d’italiano conosciute da Gilda fossero ciao e pizza; gli bastava solo che lei ansimasse alla cornetta fingendo orgasmi multipli mentre chi chiamava si masturbava per la comoda cifra di un euro e novantanove centesimi al minuto.

    Tutto questo accadeva mentre le Torri Gemelle cascavano e il professor Torrisi vanificava tutti i miei sforzi bocciandomi all’orale di Informatica I. Come, invece, io abbia conosciuto Emma, in arte Gilda, è irrilevante e non starò troppo a dilungarmi sulla solitudine di alcune mie notti.

    Adesso Gilda, che non è più Gilda da molto tempo ma solo Emma, lavora come receptionist in uno studio dentistico. È rimasta Gilda solo per me e per pochi altri, e, quando non è troppo impegnata a fissare appuntamenti per otturazioni ed estrazioni, arrotonda come ragazza immagine in una discoteca dalle parti di Corso Como. Nel frattempo ha imparato a coniugare i congiuntivi e a preparare un’ottima torta margherita. E questo è già molto più di quello che sia stato in grado di fare io nello stesso lasso di tempo.

    La domanda più sensata sarebbe perché non regolo la radiosveglia come ogni comune mortale anziché pagare qualcuno per essere svegliato. Potrei farlo, certo. Potrei addirittura impostare una sveglia sul mio iPhone. Potrei decidere di farmi svegliare da Lou Reed che mi canta Sunday Morning o aprire gli occhi sulle note di un qualsiasi pezzo di Elton John, ma Gilda resterebbe sempre Gilda, e l’essere svegliati da una voce di donna ha sempre i suoi ottimi perché. E no, Janis Joplin non basterebbe.

    Non ho mai incontrato Gilda. Nemmeno una volta. Da mesi, forse da anni, le prometto una cena nei pochi momenti di lucidità precaffeina che sprizzano nella mia mente come neuroni impazziti di primo mattino e, se l’aspetto di Gilda mantenesse le promesse di quella sua voce sexy, quello di invitarla a uscire dovrebbe essere il mio primo pensiero al mattino sentendo la sua voce. Nonostante io non l’abbia mai vista dal vivo e la ricerca di sue foto su internet in qualche social network non abbia mai dato i risultati sperati, la immagino proprio come la Gilda di Rita Hayworth, con le movenze sinuose di Jessica Rabbit distribuite su un metro e ottanta di profumata femminilità. A metà tra la mistress con tanto di scudiscio e borchie e la mamma affettuosa. L’autorità di una dominatrice mista alla dolcezza di Madre Teresa. Il giusto connubio tra una frustata sul culo e una carezza.

    Ci sono uomini che arriverebbero addirittura a pagare per trattamenti come questo. Sembra facciano scaricare le tensioni del quotidiano e gli stress lavorativi. Le frustate sul culo, non le carezze. Questo almeno è quanto lo scribacchino di turno scriveva l’altro ieri su due colonne di quotidiano. Io non ho mai provato per sapere con esattezza quanto tutto questo possa corrispondere a verità o per constatare se nel costo complessivo dell’operazione siano comprese anche le carezze. I giornali sono pieni di annunci per uomini soli e dalle particolari esigenze.

    Forse in tutti quegli annunci c’è anche una sorta di pacchetto completo in offerta per cui ogni dieci frustate sul culo si ha diritto a una carezza affettuosa e magari a un bacino sulla fronte, accompagnato da tutta una serie di raccomandazioni e di belle parole sul futuro.

    Personalmente ci metterei la firma.

    Occorrerebbe accordarsi sul prezzo. Non mi sentirei a mio agio nel pagare uno sproposito per una carezza e un andrà tutto bene, non preoccuparti se devo prendermi anche dieci scudisciate in pieno cocomero. Non credo ce la farei a reggerle. Dieci sferzate sul culo sono sempre dieci sferzate sul culo, d’altronde, mica pizzicotti alla buona. Prendiamo poi una che ci mette davvero impegno sul lavoro. Una che lo fa con passione e che usa frustini di cuoio vero, presentandosi agli appuntamenti solo se ha dormito per lo meno otto ore di sonno buono. Ecco, incontrate una così e siete rovinati. Ve lo riduce un colabrodo il vostro cocomero, altro che scaricare stress e tensioni del quotidiano.

    In tutto questo, una certezza rimane: non ho mai incontrato Gilda. Nemmeno una volta.

    Allungo le braccia sopra la mia testa, facendo scrocchiare quante più ossa possibili.

    Il display della radiosveglia sul comodino lampeggia le 8.00 in punto quando il telefono riprende a squillare. Mi allungo ancora sino a prendere il telefono e sbadiglio uno svogliatissimo pronto che non rispecchia assolutamente la realtà.

    Sento dei respiri profondi all’altro capo. Continuando a sbadigliare sonoramente, mastico qualcosa come: «Gilda, tesoro, mi hai già chiamato. Vegetavo tra le lenzuola qualche altro minutino. Me li vorrai concedere altri due minuti, no?»

    «Signor Masi» risponde finalmente una voce maschile che sono sicuro non appartiene a Gilda.

    «Chi…»

    «Credeva ci fossimo dimenticati di lei, signor Masi?»

    «Chi è?»

    «Ha ancora tre giorni».

    Non ho tempo per chiedere spiegazioni. Dopo l’ultimatum telefonico riagganciano e io resto immobile a pensare a quanto la voce baritonale appena sentita mi ricordi un qualsiasi pezzo di Ruggeri.

    Un sacco di cose nella mia vita sono iniziate con una telefonata inattesa o con la voce di Ruggeri. In entrambi i casi non sono mai state cose gradevoli. Una delle ultime telefonate inattese mi informava che la mia macchina era stata rubata e usata per una rapina a Bologna quando io ero in vacanza a Lisbona e l’urologo che tentava di calmarmi, dicendomi che non avrei sentito nulla mentre armeggiava con un guanto in lattice e del lubrificante, aveva la stessa voce di Ruggeri poco prima di attaccare la prima strofa di Contessa.

    Chiunque fosse all’altro capo del telefono aveva nella voce un qualcosa che non ispirava fiducia e che, con buona probabilità, nulla ha a che fare con Primavera a Sarajevo. Per lunghi attimi penso a uno scherzo di cattivo gusto. Provo a pensare a qualche mia possibile mancanza nei confronti di Lucy, la ragazza con cui mi frequento da sei mesi, che possa averla portata a ingaggiare qualche suo amico per farmi spaventare, ma anche per la mia mente, instancabile produttrice di fobie e manie di persecuzione sempre nuove, la cosa sembra un tantino un’esagerazione. L’ultima volta le avevo detto che l’avrei portata in discoteca, certo, ma erano ancora le sette del mattino e non si può fare affidamento sulle mie risposte prima di un caffè nero bollente. Quell’altalena di su e giù con la testa rappresenta solo un loop del mio corpo a cui non bisogna dare troppa importanza. Di conseguenza rispondere di sì a domande come Andiamo a ballare stasera? con un cenno del capo per me equivale ad ammettere che le mie orecchie hanno recepito un suono e il martelletto ha battuto sulla staffa, sull’incudine o su qualcos’altro, ma non significa necessariamente che io possa avere espresso la volontà di ballare o di scatenarmi in pista; cosa che tra l’altro farei solo se sottoposto a furiose torture da parte di una rappresentanza del pianeta Sodòmia in visita sulla Terra per convertire tutta la popolazione terrestre al loro culto. Ma andategliela a spiegare una cosa del genere a una che si fa chiamare Lucy quando all’anagrafe fa Lucia Maurelli.

    Mi sfrego gli occhi con la mano destra e comincio a pensare che un caffè ora non sarebbe affatto una cattiva idea. Frugo ancora nei meandri più oscuri della mia testa alla ricerca di qualche data o ricorrenza dimenticata mentre cerco di associare quella voce al telefono a qualche faccia. Il collega Renato che mi ha presentato due settimane fa? O forse quel suo amico tanto simpatico che lavora come commesso da Celio in centro, quello con i capelli a spazzola che son sicuro sarà innamorato di lei da almeno dieci anni.

    Alla fine, seduto a bordo letto con le gambe penzoloni, mi dichiaro innocente senza troppe smancerie e cerco con i piedi le pantofole sul pavimento.

    Più che della mia innocenza, mi rendo finalmente conto che c’è un particolare, un piccolo dettaglio, inizialmente non considerato, che mi fa pensare che non possa essere stata Lucy a ordire questo scherzo, sempre che di scherzo si tratti, e che, devo ammettere, mi imbarazza sempre in una telefonata fatta solo di domande.

    Io non sono affatto il signor Masi.

    2

    Mi chiamo Corradi.

    Stephan Corradi per l’esattezza.

    Quando all’età di sette anni chiesi a mio padre il perché non mi fosse stato dato lo stesso nome del mio compagno di banco Stefano Robbiati mi venne raccontata una di quelle storie che rendono qualsiasi commedia romantica la peggiore scelta cinematografica da fare in un sabato pomeriggio.

    I miei si erano conosciuti al concerto di un certo Stephan Micus in Baviera, qualcosa come un milione di anni fa. Mia madre, insegnante di musica e grande appassionata di tutto quanto possa essere strano e lontano da qualsiasi comune pentagramma, era riuscita ad avere un pass per il concerto di questo tale, un musicista dedito a strumenti tradizionali di epoche dimenticate, dai nomi improponibili e, alle volte, con un numero non ben definito di corde; così, insieme ad alcune colleghe di conservatorio, pare si fosse precipitata in Germania per assistere a questo po’ po’ d’evento. Mio padre non so perché fosse lì. La cosa non è mai stata chiarita in un’aula di tribunale e lui per primo, messo alle strette, glissa o cambia discorso. La pubblica accusa, nelle vesti di mia sorella Sara e di una bottiglia di limoncello ghiacciato fatto bere a tradimento in una bella sera d’agosto, avrebbe rivelato solo molti anni dopo che il vero motivo della presenza del Corradi senior in terra bavarese fosse da associare all’Oktoberfest di Monaco. Tuttavia, la confessione sarebbe durata pochi secondi prima del crollo fisico dell’accusato, in preda a una imprevista quanto molesta sbronza epocale. Da quella sera mio padre si sarebbe mostrato sempre più reticente sia al limoncello ghiacciato che alle teorie dell’accusa e, di conseguenza, non essendoci documenti audio o video di quella sua semi confessione, non si sarebbero mai potute avere conferme sulla cosa.

    Tutto resta quindi una semplice congettura, dove l’impianto accusatorio darebbe per certo solo l’incontro dei due nel pieno centro della città. Il resto si basa solo sulla fantasia.

    Nella mia mente immagino mia madre in abiti tradizionali bavaresi mentre, giovane e scollata in maniera impertinente, ride alle battute di mio padre che continua a fissarle le tette alzando il boccale a ogni Ein Prosit. E posso quasi vederli quando, travolti da un’incontrollabile passione lei e dai fumi dell’alcool lui, si scambiano effusioni come due sciocchi diciottenni in gita di quinto liceo oltre a promesse d’amore eterno.

    Eppure, se da una parte non mi è difficile immaginare mia madre in abiti bavaresi che ride alle battute di mio padre, brillo e molto più loquace di quanto in realtà non sia, dall’altra non posso che rimpiangere la sana e vecchia abitudine di dare ai figli il nome dei nonni. Paterni o materni, mi sarebbe andata comunque bene. Da parte di madre in lizza c’erano due comodi Tommaso e Daniela. Da parte di padre, non potendo certo considerare il nome della compianta nonna Anna, un appetibilissimo Michelangelo. Ci pensate? Scultore e tartaruga ninja insieme. Imbattibile.

    Detto questo, si può affermare che i miei avessero l’imbarazzo della scelta tra tre nomi austeri e, volendo, anche evocativi con cui chiamare il loro primogenito. Invece no. Come ci piace Micus. Ma che strumenti fantastici ’sto Micus. Un tocco davvero delicato Micus! Proprio un artista a tutto tondo questo Micus! Che bello l’amore scandito dalle note di Micus. A proposito, il primo figlio come lo chiamiamo? Perché no, chiamiamolo pure come quello stronzo di Micus.

    Col tempo sono arrivato a credere che mio padre fosse troppo gonfio di birra persino per rendersi conto se il concerto fosse al chiuso o all’aperto. Questo, va da sé, porta alla sin troppo ovvia conclusione che il merito di questo capolavoro di nome vada attribuito solo al castigo divino di tutta la mia adolescenza, quei cinquantaquattro chili di cotonata femminilità che nei primi anni della mia infanzia avrei imparato a chiamare semplicemente mamma.

    Alternando giorni sempre uguali e collezionando gli svariati deliri emozionali da perfetto signor qualunque, sono arrivato a quasi trentaquattro anni. Li compirò tra poco più di trentasei ore, nel giorno di San Valentino. C’è qualcosa di più patetico?

    Quindici anni fa mi vedevo con l’avvenire di un chitarrista di fama, di un fotografo di successo o di uno scrittore acclamato dalle masse. E in tutti e tre i casi, non dovrebbe essere necessario nemmeno specificarlo, sarei stato attorniato da bellissime donne e ricco in modo vergognoso. Una soluzione a caso tra le tre, quindi, mi sarebbe andata bene.

    Inutile dire che non è andata così.

    Di giorno sono un mediocre assicuratore con una tolleranza schifosamente alta al diazepam con ricetta. La cosa non implica che io sia un supereroe di notte, che abbia una calzamaglia aderente dai colori sgargianti e che usi ragnatele ancorandomi ai palazzi di Viale Padova per inseguire supercriminali e scippatori. La realtà è che odio il mio lavoro, ma la mia innata pigrizia non mi permette di andare a cercare in quel cassetto uno dei pochi sogni di gloria e di felicità ancora realizzabili, confinandomi tutti i giorni in un ufficio tre metri per tre a far finta di interessarmi ai problemi degli altri.

    Signore e signori, vi presentiamo Stephan Corradi.

    3

    In un periodo non meglio precisato tra il 2000 e il 2001 si erano messi tutti a fare cover di Mad World dei Tears For Fears. E con tutti intendo dire tutti. La cantava quel tipo con la voce uguale a Michael Stipe dei R.E.M., la cantava qualsiasi disadattato deluso dal mondo nei vagoni della metropolitana, la cantava persino José, il peruviano che si occupava delle pulizie nel palazzo dove abitavo all’epoca. Insomma, la cantavano proprio tutti. Il che non era proprio un bene. Se nelle orecchie senti a ripetizione parole che ti dipingono un mondo triste e sconsolato e, nella frase più armonica di tutto il pezzo, il cantante ti racconta che i migliori sogni che potrà mai avere sono quelli in cui sta morendo, presto o tardi finisce che le vene ci pensi sul serio a tagliartele.

    Credevamo non potesse andare peggio. Poi sono arrivati l’undici settembre, la corrente hipster con risvoltini ai pantaloni e barbe fantasiose e tutta una folta schiera di imbecilli che trovano carino taggarti su Facebook in una foto di un cesto di pere o in un composit di papere.

    Allora, l’unico Masi di mia conoscenza si era presentato come Paolo durante una lezione del primo anno di università. Con la sua simpatia e i suoi modi da esperto bevitore, Paolo era il classico ragazzo che ci sapeva fare. Ci sapeva fare con i professori quando si presentava ancora sbronzo a un esame, ci sapeva fare con gli amici e ci sapeva fare con le donne. Paolo rappresentava per le ragazze un po’ quello che per me in adolescenza erano le canne. Una cosa su cui i genitori non transigono. Un qualcosa da non fare assolutamente, un qualcosa da cui stare alla larga, ma che alla fine non puoi astenerti dal provare almeno una volta nella vita.

    Ci eravamo presi subito e lui aveva fatto presto a diventare uno dei miei migliori amici. Eravamo sin troppo diversi, ma avevamo gli stessi gusti in tema di musica e fumetti, così tra concerti e feste universitarie dove importunare le matricole gli anni

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