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M'ama o non m'ama
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M'ama o non m'ama
E-book398 pagine5 ore

M'ama o non m'ama

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller Un'adorabile impertinente

Ricevere l’apprezzamento di Ryan De Luna, una delle più famose pop star al mondo, per Maisy Harrison è semplicemente incredibile. Non avrebbe mai potuto immaginare che, caricando la cover di una delle sue canzoni su YouTube, potesse ricevere un invito in grado di cambiarle la vita: aprire il concerto di Ryan insieme alla sua band. La musica, per Maisy, è tutto. Ha solo una regola da rispettare: mai innamorarsi di un musicista. E con un donnaiolo come Ryan nei dintorni, è più determinata che mai. Peccato che lui sia in grado di farla letteralmente sciogliere. E le ha persino chiesto aiuto per riabilitare la sua immagine di playboy sconsiderato. Riuscirà Maisy a recitare la parte della sua ragazza durante il tour senza lasciarsi coinvolgere troppo? Ryan non ha mai conosciuto nessuna come Maisy. È l’unica che sembra vederlo per quello che è veramente al di là del suo status di celebrità. Più tempo passano insieme e più si accorge di provare qualcosa per lei. Deve solo convincerla che può fidarsi di uno con una pessima reputazione come lui…

Ha più di un milione di follower 
Ma solo una è quella che conta davvero

«Questa autrice ha un dono: i suoi libri sono meglio dei pasticcini!»

«Una lettura divertente e dolcissima, perfetta per una fuga spensierata dalla realtà.»

«Non penso che con Sariah Wilson sia possibile rimanere delusi. Non sbaglia un libro!»

Sariah Wilson
Non si è mai lanciata da un aeroplano in volo, non ha mai scalato l’Everest e non è un’agente della CIA sotto copertura. Nonostante questo, la sua vita è piuttosto avventurosa: ha trovato la sua anima gemella, di cui è innamorata perdutamente, ed è una sostenitrice fervente del lieto fine, ecco perché ha cominciato a scrivere romanzi d’amore. Oltre a M'ama o non m'ama, la Newton Compton ha pubblicato anche Un’adorabile impertinente.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2019
ISBN9788822732422
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    Anteprima del libro

    M'ama o non m'ama - Sariah Wilson

    Capitolo uno

    Se due ore prima qualcuno mi avesse chiesto cosa pensavo della pop star Ryan De Luna, avrei detto che la sua musica era troppo artefatta, troppo prodotta, e che lui era senza talento, insipido e ormai andato.

    Ma mentre ero lì in mezzo alla folla di fan (quasi solo donne) urlanti, raggianti ed esaltate, avrei potuto ammettere che un pochino mi ero sbagliata.

    Soprattutto considerato che dall’ultima volta che l’avevo visto in concerto erano passati sette anni – io ne avevo quattordici, e lui diciassette, indossava una maglietta da pallacanestro troppo larga, aveva il ciuffo disordinato, e aveva cantato tutto il tempo in playback.

    Il ragazzino per cui quella sera ero andata in estasi non poteva certo essere paragonato all’uomo tirato a lucido che stavo guardando in quel momento. Ora cantava dal vivo. Non mimava più le parole con la bocca, non usava più l’Auto-Tune. Indossava un completo di sartoria e vestiti stilosi che gli permettevano di muoversi molto bene. Ballava meno di una volta, soprattutto perché scalmanarsi come un ossesso e cantare allo stesso tempo era praticamente impossibile.

    E io avrei dovuto saperlo bene, essendo la cantante della mia band. Io non ballo quando canto.

    Anche se ero andata ad almeno un milione di concerti live, per via del mio amore per la musica, posso dire con tutta onestà che non avevo mai visto nessuno così magnetico e carismatico sul palco. Ryan De Luna riusciva a ipnotizzare tutto il pubblico. Aveva la platea intera in pugno. Avrebbe potuto ordinare al suo esercito personale di invadere un piccolo Paese, ed ero abbastanza certa che quelle donne singhiozzanti, urlanti e sull’orlo dello svenimento avrebbero obbedito senza esitazioni.

    Che cavolo, a quel punto probabilmente mi sarei unita anch’io.

    Non esagero quando dico che stavano per svenire. E la situazione sembrava peggiorare più ci si avvicinava al palco. Un sorriso, un movimento d’anca, un acuto di Ryan De Luna e cadevano come mosche. Tredici ragazze erano già state portate alle ambulanze per farsi dare una controllata.

    E di certo non aiutava il fatto che fosse assurdamente bello. Sapevo che sua madre era ispanica, e avevo letto da qualche parte che il padre aveva origini irlandesi. Ryan mescolava i due retaggi in modo perfetto: aveva la pelle leggermente olivastra, i capelli castano scuro e luminosi occhi nocciola.

    Occhi nocciola che per un istante mi fecero l’occhiolino, o così mi parve. Anche se a rigor di logica sapevo che non era possibile, il mio cuore traditore palpitò comunque iniziando a battere sempre più forte.

    Provai a ripensare a lui diciassettenne per eliminare l’immagine che stavo guardando in quel momento, ma il mio cervello si rifiutò di farlo. Dovevo anche ammettere che i miei gusti musicali, passando dal pop al rock, avevano contaminato e modificato i miei ricordi di Ryan e dei suoi pezzi.

    Perché c’era ancora una canzone che adoravo davvero tanto. Quella che avevo ascoltato a ripetizione, senza sosta: One More Night. Mi piaceva così tanto che negli ultimi tempi ne avevo fatto una cover acustica e l’avevo messa sul canale YouTube della mia band.

    Non avrei certo mai ammesso che adoravo ancora quella canzone. Uno dei miei fratelli maggiori, Parker, probabilmente sarebbe morto dalle risate se gliel’avessi detto. Oppure si sarebbe incavolato, dicendo che ormai nella Top 40 c’era una generale mancanza di musica vera, con l’anima.

    Le ballerine iniziarono a scatenarsi dietro Ryan mentre la sua band e il DJ si coordinavano per fare un remix live di una sua canzone. Ogni ragazza del pubblico esplose in un attacco di totale isteria non appena la prima nota riecheggiò nell’auditorium. Le luci stroboscopiche lampeggiavano intorno a lui e alle ballerine che si muovevano in sincrono. Conoscevo un sacco di ragazzi che avevano il senso del ritmo di un lumacone. Ma Ryan De Luna sapeva ballare sul serio, ed era ipnoticamente sexy.

    Ho già detto che era anche molto avvenente?

    Dagli angoli del palco si alzarono delle fiamme a comando, mentre sul gigantesco schermo alle sue spalle appariva il video originale della canzone. Non riuscivo a immaginare la mia band – composta da me e i miei fratelli Fitz, Parker e Cole – impegnata in uno spettacolo del genere. A malapena riuscivamo a farci chiamare per qualche concerto nei locali della zona. Ryan De Luna era uno dei pochi artisti al mondo che riuscivano a fare il tutto esaurito negli stadi.

    «Maisy! Maisy! Andiamo nel backstage!». La mia migliore amica, Angie, me lo dovette urlare nell’orecchio, e anche così a malapena riuscii a capire cosa mi stava dicendo.

    Per quanto fosse un po’ imbarazzante, una parte di me voleva restare a guardarlo mentre cantava quella canzone. Un’altra parte invece voleva dire di no a Angie, e suggerire di andare piuttosto verso la sua macchina e uscire da lì prima che il parcheggio e le strade straripassero di gente in modo irreparabile. Eppure sapevo bene che non potevo farlo. Per Angie era troppo importante incontrare Ryan De Luna, e avevo un debito con lei.

    Ero probabilmente l’unica donna in tutto lo stadio a non dare troppo peso al Pass VIP che mi aveva dato Angie. Anzi, ero quasi certa che avrei potuto organizzare una mia versione degli Hunger Games se avessi lanciato il Pass in mezzo alla folla davanti al palco.

    Ma dato che non volevo essere responsabile di aver provocato una rissa, evitai.

    E così feci cenno di sì e passammo in mezzo a quella massa sudata di ormoni che urlavano tutto ciò che avrebbero voluto fare a Ryan. Cioè varie proposte di matrimonio e diverse azioni indicibili.

    Non appena superammo la folla Angie urlò: «Da questa parte!», e indicò anche con la mano, nel caso non l’avessi sentita.

    Lanciai un’ultima occhiata a Ryan, con il suo sorrisetto, così disgustosamente bello. Così maledettamente bello. Mi permisi di pensarlo solo perché quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto di persona, a prescindere dalle speranze di Angie.

    Un massiccio addetto alla sicurezza con l’auricolare ci fissò mentre ci avvicinavamo, ma fu sufficiente mostrare al volo i Pass ed eravamo dentro. Le ragazze sprovviste del magico lasciapassare avrebbero dovuto mostrare qualcos’altro per entrare, probabilmente.

    «In fondo al corridoio, la prima a sinistra», ci disse.

    Ero stata nel backstage dopo vari concerti. Una volta addirittura a un concerto dei Rolling Stones, grazie a una tipa che lavorava per un agente e che in quel periodo usciva con mio fratello Fitz. Avevo provato a preparare Angie alla realtà di ciò che stava per succedere: Ryan De Luna non aveva organizzato alcun meet and greet, per il quale i fan come Angie pagavano una piccola fortuna, aspettavano in fila per ore per poi potersi fare una foto, subito pressati per lasciare il posto al fan successivo. Per quanto fosse patetico, almeno con un meet and greet Angie avrebbe avuto la possibilità di dirgli ciao.

    Sapevo, per esperienza, che invece molto probabilmente alla fine ci avrebbero buttato in una stanza con del cibo scadente, in compagnia di vincitori di concorsi radiofonici e vari professionisti dell’industria musicale: manager di qualche etichetta con le loro figlie preadolescenti, blogger e giornalisti. Magari si sarebbe presentato l’artista che aveva aperto il concerto o qualcuno dell’ufficio stampa, ma non c’era assolutamente alcuna chance che Ryan De Luna passasse a salutare.

    Ma per quanto avessi cercato di avvertirla, non mi aveva voluto dare ascolto. Continuava a dirmi di fidarmi di lei.

    Prima del concerto mi ero chiesta, a voce alta, se il suo obiettivo fosse sedurre Ryan o qualcosa del genere. Avevo colto un lampo di tristezza nei suoi occhi, che mi aveva fatto sentire in colpa per averci scherzato su. Mi aveva detto: «Sono abbastanza vecchia da pensare che Ryan De Luna non voglia venire a letto con me, con questo corpo da mamma che mi ritrovo. E anche se volesse, magari perché è ubriaco o non sta prendendo i suoi psicofarmaci, io direi comunque di no».

    Quella era una cosa che avevamo in comune. Se qualche musicista ci avesse provato con me, anche la mia risposta sarebbe stata un deciso no, ma per un motivo completamente diverso. E poi la definizione di corpo da mamma di Angie era probabilmente sbagliata, dato che era bellissima e aveva solo ventisei anni.

    «Tu, invece», aveva detto, «sei libera di dire, "Ooh, sì, tesoro, one… more… night!"».

    Le avevo gettato un’occhiata di sbieco per farle capire cosa pensavo, mentre lei rideva alla sua stessa battuta. Sul serio non si ricordava le mie regole?

    Mentre percorrevamo un lungo corridoio con muri di cemento illuminati da lampadine fluorescenti che ronzavano, sentii la temperatura scendere di colpo. Eravamo sotto le tribune dello stadio, ma nonostante tutte le potenziali interferenze (inclusa la mia parziale e temporanea sordità per via del rumore spaccatimpani), riuscivo ancora a sentire Ryan che concludeva il suo spettacolo. Ringraziò la band, i ballerini e tutta la squadra, e poi disse alle donne di Los Angeles che le amava alla follia.

    Considerato che era uscito con almeno la metà di loro, era una frase verosimile.

    Sciupafemmine, il tuo nome è Ryan De Luna.

    Il pubblico iniziò a invocare all’unisono il nome di Ryan, cercando di convincerlo a fare un’altra canzone mentre noi giravamo a sinistra nel corridoio. Proprio come avevo previsto, c’era un’area circondata da un nastro di velluto con scritto VIP. Scorgemmo un tavolo con un piccolo buffet, e un gruppetto di persone che camminavano avanti e indietro, inclusa un’adolescente che piangeva in modo isterico tanto da farsi diventare la faccia viola. Come se avesse urlato e pianto così tanto che le erano esplosi i capillari.

    «Te l’avevo detto!». Che perdita di tempo.

    «E io ti ho detto che non è lì che stiamo andando».

    E proprio in quell’istante sentii degli strilli, mi voltai e varie guardie del corpo con la stessa polo nera del buttafuori all’ingresso dissero a tutti di farsi da parte. Io e Angie ci appiattimmo contro il muro. Dietro alle guardie c’erano dei ragazzi con in mano delle chitarre e poi… Ryan De Luna.

    Un Ryan De Luna molto sudato. Cosa che mi avrebbe dovuto schifare e invece ebbi un qualche strano pensiero impuro.

    Se avevo pensato che sul palco fosse davvero attraente, da vicino era mille volte meglio.

    Era un po’ come la differenza che passa tra toccare la fiamma di una candela con il dito rispetto a salire su un razzo, essere lanciati nello spazio e finire sulla superficie del sole.

    Ci credevo che i giornali lo chiamavano El Caliente.

    Stava usando un asciugamano bianco per togliersi il sudore (ancora non schifoso) dalla fronte, e poi si tirò indietro i capelli. E lo giuro, accadde davvero tutto al rallentatore.

    Una goccia del suo sudore mi finì sulla mano.

    Per qualche istante sentii il desiderio di non lavarmi mai più la mano destra, mai più.

    Alzai lo sguardo e successe una cosa impossibile. Ryan mi guardò dritto negli occhi. E mi sorrise. «Ciao».

    Come avrei dovuto rispondere a un sorriso e a un Ciao? Almeno esisteva, una possibile risposta? Immagino che qualcosa dovesse pur esserci. Magari anche una frase semplice.

    Ma non riuscii a farmela venire in mente, perché Ryan era già sparito, trascinato dal fiume degli addetti alla sicurezza che lo spingevano in avanti.

    Cosa mi era appena successo? Io non ero la fan di nessuno.

    Al contrario di quell’adolescente con la faccia viola nella zona VIP che in quel momento veniva risvegliata da un adulto dall’aria preoccupata.

    Disgustata da me stessa, mi tolsi dalla mano quello che era rimasto del suo sudore.

    «Allora, adesso ripetimi che Ryan De Luna non ha alcun effetto su di te, su», mi disse Angie con voce cantilenante.

    «L’unico effetto che ha su di me è quello di farmi venire la nausea».

    I suoi occhi mi fecero capire che non mi credeva per niente.

    Non potevo certo fargliene una colpa. Nemmeno io credevo a me stessa.

    Mi prese per il polso. «Ecco dov’è che dobbiamo andare». Mi ci volle qualche secondo per capire che stavamo seguendo Ryan. Si agganciò al gruppo con grande determinazione. Una parte del mio cervello si chiese come sarebbe andata a finire. A quale dei miei fratelli avrei potuto telefonare per chiedergli di venirmi a prendere in prigione? Quale si sarebbe arrabbiato di meno? Perché ovviamente saremmo finite in prigione per violazione di proprietà privata e aggressione, dopo che Angie, nonostante le mie proteste, avrebbe messo Ryan all’angolo per lanciarglisi addosso. Non sapevo quale fosse il suo piano. Avremmo dovuto fare una qualche sorta di favore per poterci avvicinare a lui? In quel caso Angie avrebbe dovuto fare tutto da sola. Io non ero così.

    In realtà nemmeno Angie lo era, ma era stata un pochino stregata dalla Luna di recente. Dato che per cinque minuti, prima che mi passasse la fissa, ero stata una sua ammiratrice, sapevo che le sue fan su internet usavano l’espressione stregate dalla Luna per parlare del loro amore ossessivo per lui. Si facevano chiamare le Ragazze Luna. Un gruppetto particolarmente fanatico si era dato il soprannome di Luna-tiche, ma probabilmente non ne coglievano nemmeno l’ironia. E adesso ero preoccupata che la mia amica fosse diventata anche lei una Luna-tica.

    Mentre Angie mi tirava per il braccio, cercavo di fermarla per poter guardare quello che c’era nel corridoio – dei bellissimi e carissimi amplificatori Mesa Boogie appoggiati a terra – ma lei si rifiutava di rallentare.

    Girammo l’angolo e vidi un altro addetto alla sicurezza con la polo nera. Era davanti a una porta con sopra scritto «Spogliatoio». Questo addetto alla sicurezza aveva i capelli rasati di lato, un taglio militare, e brutte cicatrici da bruciatura sul lato destro del volto, accanto a dove una volta doveva esserci il lobo dell’orecchio. Aveva i bicipiti così pompati che a malapena riusciva a tenere le braccia incrociate.

    Non era proprio il tipo da cui avresti voluto farti trattenere fisicamente in attesa dell’arrivo della polizia.

    Immaginate la mia sorpresa quando fece un sorrisone che lo addolcì completamente. «Ehi, Angie».

    E rimasi persino più stupita quando Angie gli si lanciò addosso, e lui la avvolse in un abbraccio. Con la testa gli arrivava appena alla spalla. «Sono così contenta di rivederti, Fox!».

    L’uomo lasciò la presa e lei fece un passo indietro. «Grazie mille per tutto, per i Pass e per i biglietti. Non so dirti quanto sia importante per me».

    «Qualsiasi cosa, per te. Sai bene che basta farmi una chiamata e arrivo».

    «Magari in aereo, dato che sei in tournée con una delle più grandi pop star del pianeta».

    Me lo stavo solo immaginando o c’era un tono ammiccante nella voce di Angie? Non l’avevo mai sentito prima, ed eravamo uscite insieme una marea di volte. Be’, eravamo uscite ogni volta che lei trovava una babysitter per la sua bambina di due anni. Ma anche in quelle serate aveva passato tutto il tempo a rifiutare i ragazzi che le si avvicinavano. Non li incoraggiava di certo.

    Quello che di sicuro non mi ero immaginata era l’interesse negli occhi di Fox. Non c’era dubbio: era attratto da Angie, cosa ovvia, dato che lei era veramente stupenda.

    Ma pareva proprio che la mia amica non si fosse resa conto di nulla.

    Mmmh.

    «Divertitevi», disse lui mentre ci apriva la porta e ci faceva segno di entrare. «E non fate niente che mi obblighi a trascinarvi via di peso».

    Ci stava prendendo in giro, ma ero comunque preoccupata di cosa avrebbe potuto combinare Angie.

    Dato che nello stadio non c’erano dei veri camerini, avevano sistemato delle tende grigio-blu per creare delle aree separate. Una tenda era spalancata e riuscii a vedere al volo dei divani di pelle marrone e una televisione gigantesca. Angie andò di filato dentro, e nonostante fosse alta la metà di me, facevo fatica a starle dietro.

    «Come sei riuscita a…?», le chiesi. Sapevo che Angie era piena di risorse, ma quello che aveva ottenuto era davvero impressionante.

    «Fox era con Hector…». Le si incrinò la voce, ma sapevo per esperienza che non voleva che la consolassi. Suo marito, Hector, era morto in guerra poco più di un anno prima. Una bomba. Angie non riusciva ancora a pronunciare il suo nome senza emozionarsi. Ma prima o poi voleva farcela. «Era nello stesso reparto di Hector».

    Questo spiegava le bruciature sulla faccia di Fox, e perché stesse facendo tutto questo per Angie. Dopo la morte di Hector gli altri soldati del suo reparto e le loro mogli praticamente l’avevano adottata. Era diventata parte delle loro famiglie, e avrebbero fatto qualsiasi cosa per lei.

    Incluso un accesso illimitato a Ryan De Luna.

    Anche se Fox non aveva proprio guardato Angie con uno sguardo che chiamerei familiare.

    «Fox mi ha chiamato per dirmi che era in città. Voleva controllare come stavo. Quando mi ha detto che aveva iniziato a lavorare come guardia del corpo di Ryan, be’, una cosa ha portato a un’altra ed eccoci qui».

    Eccoci qui.

    Spostò una tenda e mi guardai intorno: due ragazzi stavano facendo una partita ai videogiochi attaccati allo schermo gigante e c’era un gruppetto di fan che parlavano tra loro attorcigliandosi le ciocche di capelli. Le altre donne di colpo ci fissarono, vedendoci come possibili rivali.

    Potevo capire il perché. Non eravamo le classiche groupie e non sembravamo possibili fidanzate di una pop-star. Cioè, i miei vestiti mi coprivano più o meno tutto il corpo.

    I loro outfit, se si fossero sedute o piegate in avanti, avrebbero mostrato quelle parti del corpo che ci rendono donne.

    Io invece: jeans neri e logori (ma morbidi), una maglietta nera dei Beatles che una volta era stata di mia madre. (A volte mi preoccupo di impersonare troppo fedelmente il cliché della cantante di una rock band con le mie scelte di stile, ma avevo deciso che comunque stavo bene così e non mi importava cosa pensavano gli altri dei miei vestiti. Ma ci stavo ancora lavorando).

    Loro: varie gradazioni di biondo, capelli mossi, perfetti, ed extension.

    Io: capelli non proprio appena lavati, lunghi e castani, colore naturale, con riflessi rossi aggiunti di recente.

    Loro: abbastanza cerone per entrare nella scuola per pagliacci professionisti.

    Io: Va bene, d’accordo, ho mentito, mi piaceva un po’ essere carina e mettere un filo di trucco, soprattutto quando suonavo, dato che le luci tendevano ad appiattirmi. Però non ero certo vestita come It di Stephen King, ecco.

    In pratica eravamo esattamente agli antipodi, da ogni punto di vista.

    Ma poi il mio cervello di colpo smise di funzionare.

    Ryan De Luna era entrato nella stanza.

    Si stava infilando una maglietta pulita mentre camminava accanto alla tenda per raggiungere gli altri. Si tirò giù la maglietta bianca per coprire gli addominali leggermente abbronzati. Nonostante avessi detto a Angie, e giusto due giorni prima, che dovevano essere per forza ritoccati con Photoshop, mi resi conto che quelle protuberanze erano tutte vere.

    Photoshop non era stato utilizzato affatto nella produzione di quella deliziosa figura.

    Poi Ryan De Luna mi fece l’occhiolino e un sorrisetto, per farmi capire che sapeva esattamente cosa stavo guardando. Mi sforzai di allontanare lo sguardo. Non l’avrei certo adulato con un’eccessiva devozione.

    Proprio no.

    Anche se una parte di me l’avrebbe voluto. Ed era un po’ un problema, dato che avevo in programma di restare casta fino al matrimonio. Non potevo certo permettermi di pensare a cose del genere.

    L’aria condizionata doveva essere sparata al massimo, dato che la stanza a un tratto mi parve freddissima. Cioè, doveva essere così, altrimenti come potevo spiegare il fatto che avessi i brividi?

    «Vado a salutarlo», annunciò Angie, apparentemente all’oscuro della mia incapacità di formare un solo pensiero sensato. «Sei sicura che non vuoi venire con me?»

    «Più che sicura», riuscii finalmente a dire. Anche se la pessima opinione che avevo di Ryan era leggermente migliorata dopo averlo visto sul palco, continuava a rappresentare tutto ciò che odiavo di quell’industria. Musicaccia senza vere melodie, senz’anima, un prodotto di massa sintetizzato.

    A parte un’occhiata a quegli addominali, non ero interessata all’offerta, grazie.

    Davvero.

    «Come vuoi». Angie alzò le spalle e andò a presentarsi a Ryan. Meglio che la tratti bene, altrimenti…, pensai.

    Non appena la mia amica se ne andò, restai un po’ indecisa. Cosa dovevo fare? Quelle donne rifatte con vestiti grandi come cerotti lo attorniavano, tubando come dei pavoni. Lo stavano fisicamente circondando come delle sanguisughe troppo grosse. Delle sanguisughe-pavoni di plastica. Delle plastisughe.

    Ryan prese quella che sembrava proprio una chitarra acustica personalizzata Martin, fatta di legno di palissandro dell’Honduras: nell’ultimo mese, avendola vista su internet, l’avevo desiderata ardentemente. Non me la sarei mai potuta permettere, e lui ne aveva una appoggiata così per terra. Prese quel bellissimo strumento, andò verso il divano e si sedette. La teneva in modo… strano. C’era qualcosa che non andava.

    Attraverso una sorta di linguaggio mentale, lo sciame di plastisughe stabilì una scala gerarchica per assegnare le varie postazioni. Si sistemarono intorno a lui, sui lati, alcune sullo schienale del divano dietro a Ryan, e le altre ai suoi piedi. Era come se fosse il Gran Maestro della Musica pronto a condividere con loro tutta la sua conoscenza.

    Povera Angie, continuava a girare intorno al gruppo senza trovare un modo per entrarci.

    Se non si fosse conquistata un posto a breve, l’avrei aiutata mandandone via qualcuna. O tirando qualche ciocca di capelli. Qualsiasi cosa fosse necessaria.

    Alzai così tanto gli occhi al cielo, pensando a quel gruppetto di fan, che vidi l’interno del mio teschio. Mi sedetti accanto a un tipo che stava strimpellando quella che sembrava un’altra chitarra Martin personalizzata. Le fabbricavano lì sul retro, per caso?

    «Non sei una sua fan?», mi chiese, cogliendomi di sorpresa. Perché di solito stavo insieme ai miei fratelli, e loro volevano strozzare tutti i maschi che mi si avvicinavano.

    «Cosa? Ah, non proprio».

    «E una mia fan, invece?»

    «Non so chi sei». Probabilmente avevo davvero appena insultato quel tipo. Avrei potuto dirvi i nomi e gli strumenti preferiti di quasi tutti i chitarristi rock del pianeta, ma non ero aggiornata sulla scena pop.

    L’avevo abbandonata quando avevo quindici anni.

    Subito dopo che mio padre se n’era andato.

    «Nemmeno io so chi sei tu», mi rispose di scatto il tipo con la chitarra.

    Giusto così. «Maisy Harrison», dissi, porgendogli la mano. Non era proprio un posto in cui ci si stringe la mano (c’era più un clima da baci sulla guancia e pugno contro pugno), ma mia madre aveva sempre dato molta importanza alle buone maniere. Il tipo mi fece un sorriso divertito e me la strinse. Aveva le dita callose, e questo mi fece capire che suonava davvero.

    «Diego». E fece una pausa come se non volesse continuare, e mi resi conto del perché. «De Luna».

    Erano parenti? Fratelli? Cugini? Non potei farne a meno: li confrontai. Diego aveva la pelle un po’ più scura, i capelli neri e gli occhi del castano più scuro che avessi mai visto. Aveva la stessa mascella di Ryan, e forse lo stesso naso. Era carino, ma non del tipo il-pavimento-sotto-i-miei-piedi-è-bagnato-perché-sto-sbavando, come Ryan.

    «Quindi praticamente sei la prova vivente che il nepotismo funziona».

    Quella frase fece sorridere Diego, e mentre lo faceva la somiglianza con Ryan diventò ancora più evidente. «Quindi se non sai chi sono, stai dicendo che non sei una fan di mio cugino?»

    «Evidentemente».

    Iniziò a ridere, piegando la testa all’indietro come se avessi detto la cosa più divertente del mondo. La sua reazione fu abbastanza rumorosa da attirare l’attenzione di tutte le persone che erano nella stanza, incluso Ryan. E quando la superstar mi guardò, non potei fare a meno di fissarlo a mia volta. Era come se il suo sguardo mi imprigionasse e fossi troppo debole per voltarmi. Obbligai i miei occhi ad abbassarsi, e fu in quel momento che mi resi conto di cosa c’era di strano in Ryan e nella sua chitarra. Non la stava tenendo come se l’amasse. Come se fosse una naturale estensione della sua mano. Io l’avrei tenuta così. Diego, proprio in quel momento, teneva la sua chitarra così.

    E invece no, Ryan stava tenendo la chitarra come se fosse uno scudo per proteggersi dalle donne che lo circondavano, che invadevano i suoi spazi. Come un bambino che si nasconde sotto le coperte, sperando che lo tengano al sicuro dai mostri.

    Quasi provai un briciolo di dispiacere per lui.

    Diego interruppe i miei pensieri Ryan-centrici, facendomi accelerare il battito cardiaco. «Devo ammettere che è la prima volta che mi capita. Di solito le ragazze che vengono qui vogliono solo una cosa. Incontrarlo».

    Era così ovvio che fino a un secondo prima stavo fissando Ryan? «Io no».

    Smise di strimpellare e appoggiò le mani sulla chitarra. «Non sei la tipica groupie».

    «Non sono proprio una groupie, punto. Ho un QI a tre cifre, tranquillo».

    Diego rise di nuovo, e non potei fare a meno di sorridere in risposta. Dopo aver passato la vita con dei fratelli che mi adoravano tanto quanto amavano prendermi in giro, era bello trovare un uomo che apprezzava il mio senso dell’umorismo senza chiamarmi scimmia pisciasotto.

    «E allora perché sei qui?».

    Mi piegai in avanti e gli dissi con fare cospiratorio: «Sono stata obbligata dalla mia migliore amica, che non voleva venire da sola. Non ho potuto rifiutarmi».

    Avvicinò la testa alla mia. «Stiamo parlando di un rapimento?», mi derise. «Sbatti gli occhi due volte se devo chiamare la polizia».

    D’accordo, era carino e affascinante, ma io avevo due regole nella vita:

    1. Non uscire mai con un musicista.

    2. Non fare mai sesso con un musicista.

    La seconda regola era facile da rispettare se osservavo la prima.

    «Non c’è bisogno di chiamare una squadra SWAT, tranquillo», lo rassicurai.

    «Quindi se non sei qui per rimorchiare mio cugino, vuol dire che sei qui per rimorchiare me?». Lo disse in modo giocoso, ma sapevo che se avessi risposto di sì, saremmo usciti da lì in un secondo.

    Perché era così che si comportavano i ragazzi in quel tipo di industria.

    «Non esco con i musicisti. È una sorta di regola che ho».

    A proposito di musicisti con cui non sarei mai uscita/mai andata a letto, Ryan De Luna apparve davanti a me, facendomi seccare completamente la bocca. Le fiamme intense dei suoi occhi mi fecero contorcere lo stomaco.

    Ryan De Luna aveva degli avambracci davvero sexy. È una cosa che non avevo mai notato in un ragazzo.

    E poi parlò. Con una voce così roca e profonda che fece scendere il freddo nella stanza e non potei fare a meno di tremare.

    «Sai, di solito quando una ragazza si prende la briga di entrare qui di nascosto, viene almeno a salutarmi».

    Di nascosto? I brividi sparirono.

    Come se fossi una di quelle tipette lì dall’altra parte della stanza. Abbastanza disperate da fare qualsiasi cosa per incontrarlo.

    Deficiente. Avrei voluto dargli uno schiaffo.

    Capitolo due

    «Ciao», dissi di scatto agitando la mano. Sperai fosse in grado di cogliere il sarcasmo nel mio gesto. «Non sono entrata di nascosto. Mi hanno fatta entrare». Grossa differenza.

    «Chi ti ha fatto entrare?».

    Stavo per dirglielo quando vidi l’espressione di panico sul volto di Angie. Avrei potuto mettere Fox nei guai per una cosa del genere. Soprattutto dato che avevo in programma di dire ad Angie che avrebbe dovuto amarlo e sposarsi con lui e fare altri bellissimi bambini. Ma la vicinanza ipnotizzante di Ryan stava ingarbugliando la mia testa, e non avevo nemmeno

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