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Un normale giorno di paura
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E-book289 pagine4 ore

Un normale giorno di paura

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Info su questo ebook

Saresti disposto a uccidere per salvare tua figlia?

La vita di Nick Connor è apparentemente perfetta: ha una bella famiglia e si dedica alla scrittura, lavorando da casa. Tasha, sua moglie, ha un lavoro prestigioso e spesso è fuori. In sua assenza è lui che si occupa di Ellie, la figlia di cinque anni, che ama profondamente. Ma l’equilibrio rischia di essere minacciato da alcuni segreti del passato destinati a riemergere: a causa di una leggerezza di Nick, infatti, Ellie scompare nel nulla. In un istante è come se il mondo gli crollasse addosso. Ma il peggio per lui deve ancora arrivare. Mentre cerca di capire che cosa possa essere successo, riceve un drammatico messaggio: se vuole riavere sua figlia sana e salva, dovrà uccidere sua moglie. La vita della persona che ama di più al mondo è in pericolo e Nick deve decidere in fretta che cosa fare. Non ha molto tempo per stabilire chi, tra sua moglie e sua figlia, potrà sopravvivere…

Un autore da oltre un milione e mezzo di copie

«Incredibile.»
BBC News

«Sensazionale.»
The Guardian

«Una trama superba e un colpo di scena fenomenale.»

«Leggendo sembra proprio di vedere un film. Mozzafiato.»

Adam Croft
è uno scrittore inglese che scrive principalmente thriller. Ha ottenuto un notevole successo con Un normale giorno di paura, definito dal «Guardian» uno dei libri più interessanti dell’anno.
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2019
ISBN9788822735249
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    Anteprima del libro

    Un normale giorno di paura - Adam Croft

    1

    Nick

    La combinazione di pane bruciacchiato e caffè vecchio non è mai stata la mia preferita, ma mi ci sto abituando. Funziona così, dopo un po’.

    Ormai neanche mi prendo più la briga di grattar via la parte nera dalle fette di toast, ma il caffè finisce ancora nel microonde. Il caffè freddo è una cosa, ma questa bevanda tiepida sembra più che altro piscio di cane. Già tirare avanti a caffeina è un problema, almeno che abbia un buon sapore.

    Il forno suona tre volte per avvisarmi che è pronto, il tono acuto mi trapassa il cranio mentre mastico un boccone di pane, facendo cadere sul pavimento grosse briciole annerite.

    Il pensiero che continua a imperversare nella mia mente è che questo libro maledetto non vedrà mai la fine. La settimana prossima sarà un anno da quando ho cominciato a scriverlo e ho già bucato la terza consegna. Pete mi ha detto che sarà l’ultima proroga. E lo so che fa sul serio, questa volta. Sto davvero cominciando a chiedermi se non sarebbe meglio cancellare tutto e ripartire con un’altra idea. Qualsiasi cosa, pur di non restare con un nulla di fatto.

    Tasha trascina una scalciante Ellie in cucina, e io già provo nostalgia per il suono del microonde.

    «Adesso farai la brava per papà, vero? È molto stressato, da qualche giorno, e ha bisogno che lo lasci tranquillo».

    Tasha non è mai riuscita ad accettare che a volte le cose che fa mi infastidiscono. Per lei è sempre colpa mia, perché sono stressato.

    «Ha cinque anni», le dico, masticando un altro boccone, mentre mi siedo a tavola. «Non le può capire certe cose. Se devi lanciarmi una frecciatina, fallo e basta».

    «Ehi, come vuoi. Scatenati, tesoro», risponde lei, e scompiglia i capelli della piccola mentre mi sorride. Ellie comunque non è felice. Non posso biasimarla. Io sono ormai adulto e comunque non mi piace essere sveglio a quest’ora. Non appena i lamenti della bimba salgono di volume, Tasha prende la bambola Rosie da sopra l’orologio della cucina e gliela piazza tra le mani. Ellie smette di piangere all’istante.

    «Vorrei che smettessi di dargliela, Tash. Non è un giocattolo».

    «Certo che lo è, Nick. È una bambola di pezza».

    Tasha proprio non lo vuole capire. Ellie adora la bambola Rosie, ma a me non piace che lei gliela conceda ogni volta che fa i capricci. La teniamo sopra l’orologio della cucina e per i miei gusti è fin troppo simile a una versione deforme dello spaventapasseri di un film horror, con le pagliuzze incollate che sporgono dai pantaloni e dalle maniche, e un cappello di paglia di sghimbescio sulla testa. Anche mia madre la teneva in cucina. Gliela comprammo poco dopo la morte di mio padre. Uno di quegli stupidi regali appena l’ho vista ho pensato a te, cose del genere, eppure per lei era preziosissima. Ogni volta che Ellie andava a trovarla voleva giocarci, malgrado la tenerissima età. Ne era affascinata. E dovevamo fare in modo che la maneggiasse con cautela, perché non era vissuta come un giocattolo, nonostante quel che dice Tasha.

    Non ho granché per ricordare mia madre, ma la bambola Rosie (lo sa Dio perché la chiamasse così) è un piccolo simbolo che se ne sta seduto fuori portata e veglia su tutti noi. Mia madre è morta poco prima del secondo compleanno di Ellie, per lo stesso tipo di cancro che si era portato via il marito otto anni prima. E quindi vedere Tasha che somministra distrattamente la bambola Rosie a Ellie come una sorta di biberon o coperta di Linus mi dà davvero fastidio.

    «Credo solo che dovremmo farci attenzione», ribadisco. «Tutto qua».

    Tasha viene da me e mi dà un bacio sulla testa. «Non succede niente. Ellie è una brava bambina. E in ogni caso ha funzionato, no? Ora, manda giù quel caffè e smettila di fare la femminuccia lagnosa».

    «Cos’altro ti aspettavi, Tash? Sono le cinque del mattino. Proprio non capisco perché ci imponi questi folli orari solo perché tu devi andare a una maledetta conferenza».

    «Fidati di me, Nick, meglio così piuttosto che costringere me a passare tutta la giornata a chiedermi se ti sei almeno alzato dal letto ricordandoti di portare Ellie a scuola», mi risponde lei, mentre riempie la ciotola di Ellie con cereali ricoperti di zucchero. Grandioso. Proprio quello di cui ha bisogno una bimba di cinque anni emotivamente instabile a quest’ora del mattino.

    «Più o meno verso che ora tornerai?»

    «Tardi. Se la conferenza finisce in orario, dovrei venir via alle sei ed essere a casa per le dieci, con un po’ di fortuna. Sempre se i treni non si riempiono di impiegati pendolari».

    Per un istante, aggrotto la fronte. Proprio non si rende conto di essere una di loro. Il suo lavoro è molto più importante di qualsiasi cosa facciano gli altri per vivere, e sarà sempre così.

    «Bene. Ora scappo», aggiunge Tasha, per poi prendere la borsa dallo schienale della sedia e schioccare un bacio sulla guancia di Ellie. «Passa una buona giornata, a scuola. Datti da fare e comportati bene. E tu, divertiti», aggiunge, mentre mi saluta con un infantile cenno della mano, piegando e raddrizzando le dita tutte insieme.

    Qualche secondo e non c’è più, restiamo solo io ed Ellie. Come sempre.

    2

    Tasha

    A volte credo che Ellie sia l’unico motivo per cui io e Nick siamo rimasti insieme. Detesto dirlo, ma con ogni probabilità è vero. E temo di averlo sempre saputo. Questo non significa che abbiamo messo al mondo nostra figlia per non lasciarci, ma penso che, in fondo, mi sono sempre chiesta se un bambino avrebbe cambiato la nostra relazione. Ed è andata così, ma non nel modo in cui mi sarei aspettata.

    La gioia iniziale è svanita abbastanza in fretta, quando ho detto a Nick che volevo tornare a lavorare prima di quando avevamo pianificato. Di quando aveva pianificato lui, almeno. Voleva che usassi per intero le venti settimane, sostenendo che potevamo tirare avanti col sussidio per la maternità. Gestire le finanze di casa non è mai stato il suo forte, ma avrei immaginato che persino lui capisse che rinunciare al mio stipendio in cambio di centoventi sterline a settimana non era una grande idea. Non con una bimba a carico. E coi suoi guadagni così imprevedibili. Se c’era una cosa sulla quale non avevo alcun dubbio era che volevo essere in grado di provvedere a mia figlia, di dare alla mia bambina tutto quello che meritava.

    Alla fine ci siamo accordati per otto settimane, il che mi ha concesso di preservare gran parte dello stipendio, per poi tornare attiva con la possibilità di lavorare da casa due o tre giorni a settimana. All’epoca però Nick non sapeva che avevo già assicurato al direttore che avrei ripreso a lavorare part-time dopo le due settimane del congedo minimo per maternità, tornando a tempo pieno dopo altre sei. A me non piace mentire, ma Nick è quel tipo di persona alla quale ogni tanto devi dire una bugia giusto per semplificare le cose, per evitare problemi.

    Prima che rimanessi incinta di Ellie, ci avevamo provato a lungo e invano. Per il primo paio d’anni le cose tra noi andarono piuttosto bene. Il mio lavoro era in una fase di stallo e Nick ancora arrancava per farsi pubblicare il primo libro, ma la possibilità di avere un figlio era per entrambi qualcosa cui aggrapparsi. Lo sfumare di tale possibilità parve coincidere con il primo contratto editoriale per Nick e con un miglioramento anche nella mia carriera, quindi il pensiero di allargare la famiglia cadde più o meno nel dimenticatoio.

    Le avevamo tentate praticamente tutte ed eravamo giunti a patti col fatto che non sarebbe successo. Mi aspettavo ormai che ci saremmo separati nel giro di qualche mese. Cominciai ad assumermi sempre più responsabilità sul lavoro, forse in parte per distrarmi dall’atmosfera tossica che si respirava a casa, ma soprattutto perché la mia carriera aveva preso il volo. Avevamo appena acquisito un cliente nuovo e importante, ed ero stata messa alla guida di quel progetto. Tre settimane dopo, scoprii di essere incinta.

    Ne fui estasiata, ma nei recessi della mente avevo questa costante preoccupazione su come sarei riuscita a tenere in equilibrio il lavoro e l’arrivo del bambino. Per nostra grande fortuna Nick lavorava da casa, ma sapevo che mai e poi mai l’avrebbe vista in quest’ottica. Lui pensa solo alle lunghe passeggiate in campagna e a fantomatiche uscite di famiglia. Non prende mai in considerazione il fatto che tutto questo va pagato, in qualche modo.

    A volte è così sprezzante e sarcastico nei confronti del mio lavoro da farmi venire il disgusto. Credo mi accomuni all’orda degli anonimi pendolari che passano davanti a casa nostra ogni mattina diretti alla stazione. Li vedo anche io, sul treno, il volto sempre più stanco, più tirato. Io so con certezza di non essere una di loro, perché mi sento ogni giorno più carica, emozionata per la strada intrapresa dalla mia carriera, che mi permetterà di costruire un futuro migliore per tutta la nostra famiglia. Ma Nick non la pensa così. Secondo lui lo faccio solo per me.

    La conferenza di oggi è una grande occasione. Costruire la giusta rete di contatti potrebbe essere di importanza vitale per il futuro del mio lavoro, che ci darà maggiore stabilità come famiglia e permetterà a Ellie di avere una vita più agiata. In fondo, è per questo che tutti si trovano un lavoro, no? Perché vogliamo il meglio per le nostre famiglie. Ma Nick la pensa così? Col cavolo.

    Io credo che lui proietti all’esterno i suoi malumori. È questo il problema. Non riesce a venire a patti col fatto che alla base di tutti i problemi ci sono i suoi fallimenti e la sua insicurezza. È così affranto perché non riesce a replicare il successo di Black Tide che sembra dare per scontato che anche tutti gli altri siano condannati al fallimento. È un buon padre, però. Per lo più. A meno che non sia necessario saper organizzare o pianificare. Stravede per Ellie, e anche lei lo adora. A volte guardo mia figlia e mi pare di vedere un’espressione di confusione sul suo volto, quasi non capisse bene chi sono, come se per lei la figura materna fosse Nick. Sono sicura che sia soltanto una mia paura, ma a volte non posso fare a meno di sentirmi in colpa. E poi mi ricordo che è solo una proiezione del malessere di Nick e mi rifiuto di lasciarmi coinvolgere.

    So di non essere una madre convenzionale. Forse è per come sono cresciuta. I miei genitori non sono tutto affetto e smancerie come quelli di Nick. Ma questo non significa che non ami abbastanza la mia famiglia. Nick dovrebbe semplicemente guardare quello che ha davanti agli occhi per riconoscere i miei sentimenti per Ellie.

    Tutte le coppie hanno i loro alti e bassi, e a me spesso pare che abbiamo solo i bassi, ma poi mi ricordo di Ellie. Il nostro piccolo miracolo. È per lei che lavoro così tanto. È per lei che mi sveglio all’alba – e spesso anche prima – e rientro a notte fonda. Non riesco a stare con lei quanto vorrei, ma un genitore a volte deve fare di questi sacrifici. Quello che Nick non capisce è che faccio tutto per lei. Per noi.

    3

    Nick

    Dobbiamo ammazzare un po’ di tempo. Sono piuttosto incazzato con Tasha, che ci ha fatto alzare così presto. Sono incazzato perché sono stanco, perché Ellie ha bisogno di dormire alla sua età e perché Tasha ha insinuato che sono un padre inutile, incapace anche solo di svegliarsi in tempo per portare a scuola la sua bambina.

    Ripeto spesso a mia moglie che potrebbe passare più tempo con Ellie lavorando di meno, così tra l’altro la piccola non dovrebbe svegliarsi ore prima di andare a scuola. Di sicuro non le fa bene, e gli orari massacranti di certo non giovano neanche a Tasha. Lei dice sempre che abbiamo bisogno di soldi, ma io sono abbastanza sicuro che non sia così. Non siamo mai stati ricchi, ma neppure abbiamo mai avuto veri problemi economici. Inoltre, i soldi non sono tutto.

    Me ne sto sul divano, gli occhi vitrei mentre con scarsa convinzione faccio finta di guardare i cartoni animati. Ellie è seduta sul tappeto davanti a me, le gambe incrociate, ipnotizzata dai colori accesi e i suoni chiassosi che provengono dalla TV.

    So che dovrei conoscere la differenza tra i vari programmi per bambini, ma in realtà mi sembrano tutti uguali. La TV dei ragazzi, per me, è solo un gran brillare di luci e un sacco di frastuono. Non manco mai di stupirmi per il quantitativo di denaro investito nell’intrattenimento infantile, visto che si tratta di grandi cazzate.

    Faccio mentalmente un paragone col libro al quale sto lavorando. I bastardi che scrivono questa roba per ragazzi non devono preoccuparsi di eventuali buchi nella trama. Ci butti dentro un mostro e tutto si spiega. L’evoluzione dei personaggi? Lascia pur stare. Fintanto che continuano a tirarsi addosso roba viscida, sei a posto. Magari mi sto perdendo qualcosa. Forse dovrei cominciare a scrivere cose del genere anche io. A che serve l’orgoglio, quando hai una bella montagna di contanti su cui sederti?

    Non che pensi male di Ellie, per questo. Certo che no. È identica a qualsiasi altro bambino di cinque anni, risucchiata da questa realtà. Una parte di me vorrebbe davvero darle un’educazione di stampo più classico, ma la verità è che non so come fare. A volte mi chiedo se sono tagliato per il ruolo di padre. Ma poi guardo il sorriso raggiante di Ellie e mi rendo conto che non lo scambierei con nulla al mondo.

    Ho anche proposto a Tasha di trovarsi un lavoro diverso, uno che le permetta di passare più tempo con me ed Ellie. Mi ha guardato come se fossi appena atterrato da Marte. Lo capisco. Adora il suo mestiere. E questo è fantastico. Ma credo che in realtà le piacciano le responsabilità e le sfide che implica, mentre non nutre una reale passione per l’energia rinnovabile della quale si occupa. Non si rende conto di quanto sia ironico che il suo lavoro di marketing consiste nel tessere le lodi di un nuovo stile di vita, una maggiore indipendenza e la possibilità di godersi il mondo, ma per svolgerlo deve passare due ore al giorno viaggiando verso gli angusti confini di un ufficio ingombro.

    Guardo l’orologio. Sono ancora solo le sette e mezzo. Ci resta almeno un’ora intera prima di prepararci a uscire di casa. Provo ad avviare una conversazione con Ellie, ma lei non è interessata. E perché dovrebbe? Di rado riesco a coinvolgere gli adulti, figuriamoci una bambina.

    La mia piccola è molto dolce, ma è comunque figlia dei suoi tempi. A volte mi chiedo se non finirà col sentire la mancanza di un concreto legame umano. Come famiglia, non ci mettiamo mai seduti a chiacchierare. Ormai non lo fa quasi più nessuno, immagino, ma questo non toglie che sia un problema.

    Se devo essere sincero fino in fondo, in questo momento mi va più che bene starmene qui a guardarla sorridere imbambolata. È assolutamente felice. D’altronde, non ha termini di paragone. Questo è il mondo che conosce e lo accetta. Non ha vissuto il cambiamento.

    E mi chiedo quali saranno i cambiamenti che invece vedrà nell’arco della sua vita. Cose che noi non siamo neppure in grado di concepire, proprio come i nostri genitori non avrebbero mai potuto immaginare una cosa come Internet quando erano bambini, mentre i nostri nonni non avevano in alcun modo la possibilità di ipotizzare l’avvento della televisione prima che questa venisse inventata. Qualsiasi possa essere il prossimo grande salto in avanti da un punto di vista tecnologico, è qualcosa che noi non possiamo prevedere. Sono questi i pensieri che di tanto in tanto mi girano per la mente, e di solito mi danno una leggera emicrania.

    La testa mi fa male anche adesso, ma è dovuto soprattutto al fatto che mi hanno tirato giù dal letto alle cinque del mattino, quando avrei potuto dormire più a lungo senza alcun problema. Tasha non fa semplicemente parte della nostra vita, la governa. Lo fa in un modo tutto suo, si insinua, e non so bene come ma finisce per diventare indispensabile. A volte credo che ci riesca facendomi sentire sempre più inutile, col risultato che devo fare affidamento su di lei. Io so che non ne ho bisogno, però. Sono un uomo. Devo conservare almeno questo livello di indipendenza.

    Con l’indipendenza, però, ci sono le responsabilità. E non sono così stupido da ritenermi la persona più responsabile del mondo. Mi dimentico i dettagli. Arrivo irrimediabilmente in ritardo. Faccio le cose nell’ordine sbagliato. Mi incasino con le priorità. Ma nessuno è perfetto. Dei due è Tasha quella organizzata, e va bene così. Una relazione tra due Tasha non potrebbe mai funzionare, poco ma sicuro.

    Per questo non mi piace alzarmi così presto. Il cervello diventa iperattivo, e finisco a fare pensieri del genere. Emetto un lungo sospiro, appoggio la testa allo schienale del divano e chiudo gli occhi.

    4

    Nick

    Mi sveglio di soprassalto quando Ellie ridacchia guardando la TV.

    Per un momento sono come stordito, mi sono chiaramente svegliato nel momento sbagliato rispetto al ciclo del mio sonno. Batto le palpebre e guardo l’orologio appeso alla parete. Merda.

    In questo momento posso decisamente fare a meno dell’ennesima tirata di orecchie da parte di Tasha o della scuola, pronte entrambe a ricordarmi che ho la responsabilità di far arrivare Ellie in classe in orario. Questo lo so già, ma non basta. È che proprio non me la cavo con le responsabilità. È così da sempre.

    Cerco di far indossare la divisa a Ellie in tutta fretta. Lei la detesta, e neanche io la adoro. Il pessimo tessuto grigio sembra più adatto a un gulag russo che a una scuola pubblica. E, avendo visto l’interno della Hillgrove, direi che non ci sono poi grandi differenze. Ricordo che i miei giorni alle elementari erano pieni di colore e risate. Ogni volta che entro nella scuola di Ellie, mi sento depresso.

    Lei si dimena quando provo a infilarle il maglione da sopra la testa, come fa ogni singolo giorno della settimana. Dobbiamo sempre seguire questa stupida routine, il che la rende dieci volte più dura per me.

    «No, ho troppo caldo», strilla lei.

    «Be’, se la smetti di agitarti ne avrai di meno, non ti pare? Ora prepara le tue cose e mettiti il maglione».

    Sembra davvero il giorno della marmotta, questa scena noiosa e spossante che mi ricorda che è solo lunedì, e ci sono altri quattro giorni consecutivi da cominciare così.

    Mi aggiro per la stanza a caccia delle varie cosine di cui ha bisogno per la scuola: tuta e scarpette per l’educazione fisica, l’elenco delle letture, le figurine. Sono abbastanza sicuro che ai miei tempi ci limitassimo a giocare nella sabbia.

    Sono quasi sepolto sotto la cassettiera, nel tentativo di pescare la calza sportiva mancante, quando sento il campanello. Lo ignoro. Chiunque sia, può aspettare. Di sicuro saranno i testimoni di Geova o qualcuno che prova a vendermi finestre a doppi vetri.

    Cinque minuti dopo, lo zaino pronto, infilo le scarpe ai piedi di Ellie, ondeggiandole e spingendole per facilitare l’operazione. La prendo in braccio e la porto giù per le scale per risparmiare secondi preziosi. È arrivata la posta, ed è sul tappetino d’ingresso. Ci sono solo due fatture con la scritta in rosso Ultimo avviso questa volta, un miglioramento rispetto a sabato. Le metto sul tavolino nel corridoio e mi appunto mentalmente di prenderle più tardi e pagarle.

    Accompagno Ellie fuori dalla porta e lungo il viale d’accesso. C’è una lieve foschia nell’aria, ma nulla che non si possa diradare nel volgere di un’ora circa. Dovrebbe essere una bella giornata. Magari riuscirò persino a mettermi in giardino col portatile e lavorare un po’ lì fuori. Tranquillità, silenzio e la luce del sole. Non si può chiedere di meglio.

    L’automobile mi avvisa con un bip che le serrature sono disattivate e così apro lo sportello posteriore, metto Ellie nel sedile per bambini e le aggancio la cintura di sicurezza. Questi sedili sono davvero assurdi. Magari la tengono anche al sicuro, ma la piccola sembra più un’astronauta che sta per viaggiare nello spazio che una bimba di cinque anni pronta a un viaggio in macchina fino a scuola, a venti all’ora. Lo zaino si

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