Bad Romance
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Info su questo ebook
Jackson Worthington è un cecchino. Ma una ferita alla spalla mette fine alla sua carriera nell’esercito e viene rimandato a casa, a combattere una battaglia che gli è familiare: stare lontano da Lily Hastings, l’angioletto del suo ricco paparino, assolutamente adorabile, tanto pulita quanto Jackson è sporco. Ed è anche la sua sorellastra, proibita, ma mai dimenticata, non dopo il bacio appassionato per il quale a diciotto anni è stato cacciato di casa. All’epoca non era riuscito a resisterle. Come potrebbe resisterle ora? Lily sta per sposare un uomo che non ama, e impegnarsi in un lavoro che odia, tutto per compiacere suo padre. Come se non bastasse, il suo primo amore è tornato, con un corpo scolpito e appena una traccia del ribelle che ha segnato il suo destino. Lily ora è cresciuta. Ed è pronta a essere una cattiva ragazza.
Dall'autrice bestseller di New York Times e USA Today
«L’esordio di Jen McLaughlin è un gioiello che ho apprezzato molto e che mi ha tenuto incollato alle pagine sin dall’inizio.»
USA Today
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Anteprima del libro
Bad Romance - Jen McLaughlin
1785
Prima edizione ebook: settembre 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-1472-5
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma
Jen McLaughlin
Bad Romance
Newton Compton editori
Indice
Sette anni prima… Jackson
Capitolo 1. Jackson
Capitolo 2. Lilly
Capitolo 3. Jackson
Capitolo 4. Lilly
Capitolo 5. Jackson
Capitolo 6. Lilly
Capitolo 7. Jackson
Capitolo 8. Lilly
Capitolo 9. Jackson
Capitolo 10. Lilly
Capitolo 11. Jackson
Capitolo 12. Lilly
Capitolo 13. Jackson
Capitolo 14. Lilly
Capitolo 15. Jackson
Capitolo 16. Lilly
Capitolo 17. Lilly
Capitolo 18. Jackson
Capitolo 19. Lilly
Capitolo 20. Jackson
Capitolo 21. Lilly
Capitolo 22. Jackson
Capitolo 23. Lilly
Capitolo 24. Jackson
Ringraziamenti
Alla mia ragazza, Jay Crownover.
Grazie per il confronto costante
e per aver sopportato le mie continue elucubrazioni…
Sette anni prima…
Jackson
Walt, il mio patrigno, stava leggendo la lettera con aria piuttosto sorpresa. «L’hanno accettato a Yale, nonostante i brutti voti. Mi toccherà sborsare una bella cifra, ma lo farò».
«Dici sul serio, l’hanno preso?», sorrise mia madre incredula.
«Guardate che io sono qui…», mi intromisi. «E a Yale non ci voglio andare».
Nessuno dei due mi degnò di uno sguardo.
«Così possiamo sperare che combini qualcosa nella vita, e che non faccia la fine di suo padre».
Il sorriso di mia madre si allargò. «È tutto merito tuo, Walter».
«Partirai a fine mese», disse Walt senza neppure guardarmi – anche se stava chiaramente parlando con me. «Fine del discorso».
Col cavolo. «Non voglio andare a Yale. Io voglio arruolarmi nell’esercito».
Walt rise. «Non finché vivi in casa mia».
Stronzate. Tutte stronzate. Mia madre si era sposata per la milionesima volta, e il suo nuovo marito avrebbe volentieri fatto a meno del figliastro che faceva parte del pacchetto. Non che fosse poi così grave, in fondo era lei la prima che avrebbe preferito non avermi tra i piedi.
Non aveva mai cercato di nascondermelo.
Anzi, me l’aveva proprio detto in faccia.
Ma che quello stronzo presuntuoso si permettesse di mettere bocca sulle scelte che avrebbero condizionato il mio futuro era la goccia che faceva traboccare il vaso, per me. Avevo diciotto anni e nessun obbligo di dare retta a Walter Hastings, né a sua moglie.
Fanculo tutti.
Erano sposati solo da qualche mese, e lui non era neppure un vero patrigno per me. Cioè, legalmente sì. Ma io non avevo alcun bisogno di lui.
Non avevo bisogno di nessuno.
Scattai in piedi con i pugni serrati. «Non voglio diventare avvocato. Te l’ho già detto».
Walt rise. «E io ti ho già detto che finché sei in casa mia farai quello che dico io, punto e basta. Lo farai, e te lo farai andar bene. Non cederò di un millimetro».
«E nemmeno io, Walt».
«Non chiamarmi così», sibilò. Detestava che lo chiamassi Walt invece che Walter, un buon motivo per farlo il più spesso possibile. «Mi puoi chiamare Walter, signor Hastings, o al limite signore e basta. Nessuno mi chiama Walt. Impara un po’ di rispetto».
Mi limitai a fare una smorfia, senza rispondere.
Per me poteva andarsene a quel paese, Walt.
«Jackson, caro…», si intromise mia madre. «Potrai fare carriera, se ti arruoli nell’esercito rischi di non vedere neppure l’alba dei ventun anni. Dai retta a tuo padre. Lui sa cos’è meglio per te».
Un attimo. Io mio padre non l’avevo mai conosciuto, ma di una cosa ero sicuro: non era Walt. «Lui non sa proprio un cazzo, invece, e non è mio padre. Non ha la più pallida idea di cosa sia meglio per me, né di quello che voglio. Voglio…».
«Bada a come parli, ragazzino, e sciacquati la bocca prima di dire certe cose a tua madre. Farai legge, a Yale. Così è deciso, quindi ficcatelo bene in testa. Discorso chiuso». A quel punto prese in mano un giornale e, rivolto alla moglie, aggiunse: «Se vuole continuare a vivere in questa casa, deve smetterla di rompermi le palle».
Che stronzo, pensai a denti stretti. «E allora me ne vado. Andrò a stare da solo».
«Dovrai passare sul mio cadavere. Sei parte di questa famiglia, ormai, e farai quello che un Hastings deve fare. Non c’è altro da aggiungere, puoi andare», concluse schioccando le dita. «Chiuso».
Avrei voluto dire un sacco di cose, ma sarebbe stato inutile, uno spreco di tempo. Preferii allontanarmi, tanto non mi avrebbe comunque ascoltato. In fondo ero un adulto ormai, e non avevo bisogno della loro autorizzazione per arruolarmi. Discorso chiuso. Stronzate. Un discorso per me poteva dirsi chiuso quando lo era davvero per entrambi. Non per uno soltanto.
Testa di cazzo.
Mentre me ne andavo lo sentii dire a mia madre: «Io non so davvero più che fare con quel ragazzo, Nancy. Sei proprio sicura che il padre non voglia tenerselo? Quant’è diverso dalla mia Lilly».
Ah… Lilly Hastings. Quindici anni, ricca, intelligente, dolcissima e… stupenda. Non capivo proprio come potesse essere figlia sua. Non gli somigliava per niente. Doveva aver preso molto dalla madre, che era morta. Non c’era altra spiegazione.
All’inizio avevo fatto di tutto per rendermela antipatica. Eppure, dal primo giorno in cui mi ero trasferito lì, quando mi aveva portato dei biscotti al cioccolato perché erano i miei preferiti, e fino a quel momento, era stata sempre gentile con me. Era l’unico essere umano a rendere la vita in quella casa vagamente sopportabile. E poiché Lilly era l’opposto di suo padre, io malgrado gli sforzi proprio non riuscivo a odiarla.
E, credetemi, ci avevo provato.
«Walter, sai bene come sono andate le cose. È sparito appena ha saputo che ero incinta, e Jackson ho dovuto crescerlo da sola. Dio solo sa con che fatica», disse mia madre abbassando la voce per evitare che la sentissi. «Ma se credi che…».
Mi allontanai, sapendo bene come sarebbe finita quella conversazione. Walt non accettava il fatto che mi sarei arruolato. Ma ormai era fatta, mancava solo qualche firma, avevo superato i colloqui di ammissione e compilato tutti i moduli. Di lì a poco me ne sarei andato davvero.
«Psst», era Lilly che mi chiamava, con due bottiglie di Coca-Cola in mano. Una birra ci sarebbe stata meglio, ma lei non era una ragazza ribelle. Non troppo. «Vieni qui».
Mi avvicinai, col cuore che mi batteva sempre più forte. Ero più grande di tre anni, ma tra noi c’era un’intesa profonda, di quelle difficili da spiegare… e da ignorare. Mi capiva. E io capivo lei. «Ciao, ragazzina».
Arrossì. «Odio quando mi chiami così».
«Lo so», le dissi io con un buffetto sul naso. «Per questo lo faccio».
Mi lanciò un altro sguardo da sotto quelle sue ciglia lunghe e si morse il labbro inferiore. Puntuale, il mio cuore accelerò, ma decisi di ignorare la cosa. Non era un segreto per nessuno che avesse una cotta per me, e a me lei era piaciuta dal primissimo giorno. Tuttavia, avevo sempre cercato di nasconderlo. Non provavo nei suoi confronti un’attrazione propriamente sessuale… cioè, era supersexy, sia chiaro, e la cosa non mi dispiaceva per niente, ma i miei sentimenti nei suoi confronti erano molto protettivi, se mi spiego.
Quanto meno non c’erano legami di sangue.
E grazie a Dio, perché mi sarei ammazzato piuttosto che essere un Hastings come quello stronzo di là. Eravamo una famiglia solo perché lo stabiliva la legge, per via del matrimonio. Comunque Lilly era l’unica amica che avevo, quindi anche la migliore, e un ragazzo intelligente non si incasina con i migliori amici.
Era troppo giovane, troppo carina, troppo pulita.
Troppo giusta per uno come me.
Mi ero diplomato da un mese, cinque mesi dopo il matrimonio dei nostri genitori, e lei stava ancora alle superiori. A diciotto anni avevo già visto e fatto molte cose di cui lei non sospettava nemmeno l’esistenza.
«Non dargli retta», sussurrò. «Parla senza sapere quello che dice, è tipico di lui».
Sorrisi, perché capivo che stava cercando di tirarmi su e volevo che pensasse che stava funzionando. Lo faceva sempre, tutte le volte che Walt mi trattava male. «Hai ragione. Allora, che mi dici?»
«Vieni, voglio mostrarti una cosa». E allungò una mano verso di me, guardandomi con quei suoi occhi verdi e luminosi. «Da soli».
Niente male.
Sentii Walt ridere dal soggiorno mentre diceva a sua moglie:«Quel ragazzo è un impiastro».
Sapevo che si riferiva a me. Sapevo che mi odiava. E sapevo anche in che modo avrei potuto liberarmi per sempre delle sue prepotenze. La chiave era Lilly… Ah, quanto amava la sua piccola, dolce e innocente Lilly. Come tutti, del resto. Io avrei potuto prenderla, farla mia, rovinargliela per sempre. Non mi avrebbe mai perdonato e avrebbe smesso di ficcare il naso nella mia vita.
Ma non avrei mai potuto fare una cosa del genere a lei: era troppo importante per me.
Non che non le sarebbe piaciuto, intendiamoci, o che non le piacessi io. Tutt’altro. Se l’avessi anche solo baciata, penso che sarebbe venuta seduta stante. Ma non volevo ferirla, o usarla. Punto e basta.
«Bene, andiamo», dissi.
«Sbrigati dai, prima che ci vedano». Mi prese la mano facendomi strada. La sua mano, così piccola e fragile dentro la mia. Non so perché, ma quella sera il suo tocco sembrava diverso. Come se non fosse la mia sorellastra, o la mia migliore amica. Non avrei saputo dire da dove nascessero quei sentimenti nuovi, ma di sicuro era meglio darci un taglio. «Guarda. Hanno aperto la piscina. Non ci è ancora entrato nessuno, non gli verrà in mente di cercarci qui».
Mi guardai attorno. Eravamo soli. Il cuore mi batteva così forte che a malapena riuscivo a sentire i miei pensieri, il che non era un male dato che erano così confusi. «Fantastico», riuscii a dire. «Non ci sono mai stato prima».
«È la parte della casa che preferisco». Si liberò delle infradito rosa con un paio di calci e immerse i piedi nell’acqua. «Dai, vieni a sederti qui vicino a me».
Mi liberai anche io delle Converse nere e andai a mettermi lì accanto con un sospiro. Mi sorrise, mentre mi guardava con adorazione, ed era così bella che non potei fare altro che scuotere la testa. I ragazzi come me nessuno li guarda in quel modo.
Di sicuro non le ragazze carine come Lilly.
«Si sta bene», cercai di dire mentre dondolava le gambe nell’acqua sfiorandomi il piede. Era già capitato altre volte che ci sfiorassimo, ma quella sera… mi spezzava il fiato. Mi schiarii la voce, alla disperata ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, da dire. «E pensa che non ci farò neppure una nuotata. Perché anche se tuo padre si rifiuta di ammetterlo, presto mi arruolerò nell’esercito».
«Lo so». Prese un sorso di Coca, guardando in lontananza. Sembrava… triste. E questo, chissà perché, rese triste anche me, come se le nostre emozioni fossero interconnesse, o qualcosa di simile. La luce bassa del sole illuminava i lineamenti delicati e perfetti del suo viso, che proprio non riuscivo a smettere di guardare. Certo, mi sarebbe mancata tantissimo, ma non per questo avrei rinunciato a partire. Niente mi avrebbe fermato. «Mi dispiace che sia così stronzo con te. Meriteresti di essere trattato meglio».
Lilly era sempre dalla mia parte. Era l’unica in quella stupida ridicola famiglia a cui importasse davvero di me. Sollevai la mia Coca e mi strinsi nelle spalle. «Pazienza. Non mi importa».
«E invece sì che ti importa», disse poggiandomi una mano sulla gamba. Mi irrigidii. Indossavo dei pantaloncini quindi non mi stava toccando direttamente la pelle, ma sembrava un gesto comunque molto intimo. E piacevole. «Te lo leggo negli occhi».
Nessun ragazzo a diciotto anni è felice di sapere che le sue emozioni gli si leggono negli occhi. Ecco perché le risposi male. «Ah sì, eh? Sarà…».
«Ma è la verità», fece lei un po’ sulla difensiva.
Non era la verità.
Non me ne importava niente di Walter, né di sua moglie, a dire il vero di nessuno a parte di me stesso… e di Lilly. Era lei l’unica eccezione. E gliel’avrei dimostrato. Subito. Aveva ancora una mano sulla mia gamba, ed io ci misi sopra la mia. «L’unica persona in questa casa che conti davvero qualcosa per me è seduta proprio qui. E dico sul serio».
Si leccò le labbra avvicinandosi un po’ di più. «Io ti voglio un sacco di bene, Jackson».
«Sì», feci io con il cuore in gola. «Lo so».
Scoppiò a ridere dandomi un lieve colpo con la spalla, mentre continuava a fissarmi le labbra. «Fai lo spaccone?».
«Sì». Il modo in cui mi guardava, come se non desiderasse altro che essere baciata… era davvero troppo. In fondo presto sarei partito, chissà quando ci saremmo rivisti, e morivo dalla voglia di conoscere che sapore aveva. Un solo bacio, piccolo, innocente. Non volevo nient’altro. Non l’avrebbe saputo nessuno, neppure Walt. «Sai che cosa vedo nei tuoi occhi?».
Mi guardava con le labbra dischiuse, come se fossi una specie di semidio. Era strano, eppure sentivo che con lei al mio fianco avrei potuto governare il mondo intero. «Che cosa?»
«Che vuoi che io ti baci», dissi, evidentemente un uomo sconosciuto e famelico aveva preso il sopravvento su di me. Le accarezzai il braccio nudo, lasciandomi dietro le dita una scia di pelle d’oca. «Vuoi che sia io a darti il primo bacio, quello che ricorderai per tutta la vita. Vuoi che ti tocchi».
Tremava un poco, si leccò le labbra. «Ma come…?»
Le presi il mento con la mano e sorrisi. «Coraggio, prenditi quello che vuoi, baciami. Nessuno saprà mai che hai baciato il tuo fratellastro, sarà il nostro piccolo segreto…».
Sapevo che non l’avrebbe mai fatto, per quanto desiderassi disperatamente il contrario. Ecco perché avevo deciso di lasciarle l’iniziativa. Da parte mia, non pensavo che fosse una cosa sbagliata, né sporca, perché non era mica mia sorella. Ma di sicuro lei…
«Sai che ti dico?». Mi salì in grembo, mi prese il viso tra le mani e mi guardò dritto negli occhi. Mi smarrii nel suo sguardo, con la netta sensazione che quella che avevo davanti sarebbe stata la persona con cui avrei trascorso il resto della mia vita… il che era a dir poco assurdo. «Lo so che pensi che io sia troppo piccola, o troppo ben educata, o troppo spaventata per farlo ma ti dimostrerò che non è così. E indovina? Ti piacerà».
E poi lo fece, mi baciò.
Aveva ragione, mi piaceva eccome.
Le sue labbra morbide si chiusero sulle mie e le sue mani mi si strinsero sulle guance. Oh mio Dio, il suo sapore. Era vaniglia, sole, innocenza, sapeva di paradiso…
E gomma da masticare.
Con un gemito presi a baciarla a mia volta, premendomi i suoi soffici seni sul petto e facendole scivolare le mani lungo i fianchi. Le strinsi il sedere e le sfiorai il pube con la mia erezione, cogliendola così alla sprovvista da farle socchiudere la bocca. Mi tuffai tra le sue labbra.
E ci sprofondai.
Quando la mia lingua trovò la sua, mi prese le spalle affondandomi le unghie nella carne e tirandomi con forza a sé, chiaramente vogliosa di sentire di nuovo il mio uccello lì sotto.
E per la prima volta in vita mia… mi sentii a casa.
Affondai con una mano tra i suoi capelli, lasciando l’altra sul suo dolce sedere, mentre portavo quel bacio al livello successivo. I campanelli d’allarme erano già suonati tutti – la cosa si stava facendo troppo rovente e troppo in fretta – ma li ignorai deliberatamente, perché era troppo, troppo bello. Era iniziato tutto come un flirt innocente, ma poi lei mi aveva baciato e ora non volevo che finisse. Averla tra le braccia mi faceva sentire che non ero solo.
Come se noi due potessimo…
«Figlio di puttana», sentii ringhiare Walter alle mie spalle.
Mi bloccai di colpo interrompendo il bacio, con una mano ancora sul sedere di sua figlia. E in quel momento capii che ero fottuto. Non mi ero neppure accorto che stesse arrivando qualcuno. «Merda».
«Papà, io…», disse Lilly allontanandosi da me.
«Non voglio sentire nemmeno una parola. Vai subito in camera tua».
Mi rivolse un lungo sguardo preoccupato, e ubbidì.
Come sempre.
«E tu?». Walt mi prese per un braccio e mi fece alzare in piedi. «Come osi mettere le mani addosso alla mia bambina? Fuori da questa casa, vattene! E non tornare mai più. Hai chiuso con questa famiglia».
Forzai un sorriso indifferente, anche se vedere Lilly scappare in quel modo, fu come vedere il mio cuore balzarmi fuori dal petto e correre alla porta. «Era ora. Non ho mai voluto farne parte, e tu lo sai».
Finalmente libero, superai quell’uomo che detestavo più di mio padre. Passai accanto a mia madre senza neppure guardare Lilly – ferma immobile a metà della scala. Anche perché se l’avessi fatto, avrei ceduto. Avrei cercato di trovare il modo di restare, per lei. Invece non potevo, non più. Varcai la soglia senza guardarmi indietro.
Neppure una volta.
Capitolo 1
Jackson
Avevo solo venticinque anni, è vero, ma non scherzavo mica quando dicevo di aver già visto praticamente tutto. La vita, la morte, l’omicidio, il dolore, la rabbia, l’odio e la felicità. Ecco, forse l’ultima un po’ meno in effetti. Ma era andata così, e non ero certo il tipo che si piange addosso.
Vivi. Fotti. Muori. Fine.
Capitolo chiuso.
Alla fine tanto di te se ne fregano tutti, quindi tanto vale vivere giorno per giorno senza fare troppi progetti. Ecco perché non mi importava di niente e di nessuno. La lezione l’avevo già imparata prima di compiere undici anni: se non ti affezioni a nessuno, nessuno ti potrà ferire. E questa era la mia filosofia di vita da ben quindici anni ormai, una filosofia che non avrei abbandonato…
Be’, con una eccezione.
Che però non era andata a finire troppo bene.
Stavo fissando una bionda che ballava in pista, con una vitalità che io non avevo mai avuto. Chissà perché quella bionda mi interessava tanto. Sembrava toccarmi delle corde profonde, mi sembrava forse di conoscerla già, o di doverlo fare al più presto. Non avevo certo voglia di lambiccarmi il cervello per capire da dove nascessero quelle emozioni, eppure… erano lì.
Magari dipendeva dal fatto che, da quando ero tornato, avevo cercato di evitare il più possibile il contatto con la gente, e in particolare con le donne. Non perché mi rendessero nervoso… una bella donna non mi innervosiva mai, anzi. Però in quel momento stavo cercando di riabituarmi a essere un civile, e non volevo trascinare nessuno nel casino che era la mia vita. Fatto sta che, da quando l’avevo vista entrando nel locale, non ero riuscito a staccarle gli occhi di dosso.
Me ne ero stato talmente tanto per conto mio fino a quel momento, che neppure la mia famiglia sapeva che ero tornato. Ma quella donna dovevo portarmela a casa, fanculo la solitudine. Per un paio d’ore non di più. Quelle curve, i lunghi capelli biondi e mossi. Dio, mi sentivo vivo come non mi capitava da non so più quanto tempo. Mi fremevano le dita per la voglia che avevo di sentire se la sua chioma era davvero così soffice. Era tempo di scoprirlo.
Mi alzai lisciandomi la camicia e feci qualche passo verso di lei. A quel punto si voltò e potei vederla in faccia… merda. Non era una biondina sexy che potevo portarmi a casa, farla venire una o due volte e via. E neppure una con cui farmi una storia.
Era la mia sorellastra. Lilly Hastings.
Quella che avevo baciato sette anni prima e che non avevo mai più visto. E non era più una ragazzina… ma una figa da sballo.
Non che avessi mai smesso di pensare a lei, anche per via delle lettere che mi scriveva, però da quella sera non ci eravamo più parlati. Sotto sotto mi vergognavo per come erano andate a finire le cose, per il modo in cui