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Un amore virtuale
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E-book395 pagine5 ore

Un amore virtuale

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Info su questo ebook

Sai che odore ha la speranza?
È una combinazione di mare, alghe e aria salmastra. E di sabbia bagnata in un giorno d’inverno.
Jayne ha quarantacinque anni quando vive il momento più bello e più brutto della sua esistenza.
Si è innamorata pazzamente e ha perso tutto da un giorno all’altro.
Ma non importa quanto la vita diventi dura, quanto tu sia caduto in basso e quanto oscuro possa essere il tunnel nel quale sei finito, perché c’è sempre un barlume di speranza.
Dalla sua casa dei sogni nel Kent, passando per il manicomio, per giungere in un cottage in Cornovaglia, Jayne affronta un viaggio destinato a ferirla, a distruggerla e, infine, a guarirla.
Questa è la storia di una donna alla ricerca di se stessa, per imparare ad amarsi di nuovo.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2020
ISBN9788855311908
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    Anteprima del libro

    Un amore virtuale - Tracie Podger

    Capitolo 1

    Gennaio 2014. Era un giorno freddo, ventoso e umido, quando la mia migliore amica, Carla, mi fece una domanda che mi avrebbe cambiato la vita.

    «Per favore, Jayne, pensaci. O meglio, non pensarci. Facciamolo e basta. Ne ho bisogno. Posso usare il ricatto emotivo? Va bene… no? Perché siamo amiche di lunga data e le amiche di lunga data fanno questo genere di cose.»

    Mi sorrise in modo sciocco e sbatté le sue lunghissime ciglia finte.

    Eravamo nel bar del posto, La mucca blu, quando mi rivelò il suo grande piano. Più che una caffetteria era praticamente una galleria d’arte. Sulle pareti avevano appeso dei quadri, alcuni orrendi, e qualche mia fotografia.

    «Jayne, se il ricatto emotivo non funziona, allora posso provare a implorare, forse a supplicare? Compirai quarantacinque anni quest’anno, sei a metà della tua vita. È il mio regalo per te.»

    «Non ti stavo ascoltando, cosa mi hai chiesto? Comunque, ormai ho oltrepassato la metà della mia vita.» Le feci un sorrisetto compiaciuto.

    Si riaccomodò sulla sedia con lo sguardo torvo, incrociò le braccia al petto facendo attenzione a non sgualcire il maglioncino in lana d’agnello di Chanel color crema e il cardigan di non so quale marca. Probabilmente, era stata la descrizione eccessiva del suo ultimo acquisto ad avermi deconcentrata.

    «Sto scherzando. Ti ho sentita. Vuoi che corra il rischio di provare un’angoscia incredibile, di sorbirmi la sua ira in casa e le liti che precederanno e seguiranno la vacanza che farò con te?»

    Mi appoggiai alla spalliera e incrociai le braccia sul cardigan blu lavorato a maglia, vecchio di dieci anni e coi bottoni spaiati, che probabilmente arrivava da un negozio di beneficenza. Sbattei rapidamente le ciglia corte e appiccicose. Ecco cosa succede quando non rimuovi il mascara tutte le sere.

    «Sì» si limitò a rispondere.

    «Okay.»

    «Come?»

    «Ho detto okay.»

    «Cazzo, hai ceduto con più facilità di quanto mi aspettassi. Ho pure speso una fortuna per corromperti.» Sorrise felice, poi mi porse un adorabile sacchetto di carta decorato con manici di nastro rosso.

    «Un regalo? Avrei dovuto resistere ancora un po’.»

    «Aprilo.» Carla batté le mani e rimbalzò per l’eccitazione sulla sedia.

    Sciolsi il fiocco lentamente, di proposito. La mia amica era una tipa da strappalo e butta la carta per terra, mi piaceva prenderla in giro. La sentii sospirare, ma non mi avrebbe tormentato, stavolta. Aprii il sacchetto e sbirciai dentro. Qualunque fosse il dono, era avvolto in una velina rossa. Tirai fuori il regalo. Un adesivo di Victoria’s Secret teneva chiuso l’involucro.

    «Se è biancheria intima non lo apro qui» dissi.

    «Tranquilla. Datti una mossa e guarda.»

    Strappai la carta velina rivelando del tessuto rosso. Le mie guance si colorarono della stessa tonalità quando sollevai uno degli oggetti. Era un brandello di stoffa con due lacci intrecciati su uno straccetto mascherato da slip di un bikini.

    «Il mio culo non ci entra» obiettai.

    Carla rise. «È della tua taglia e non deve coprirtelo tutto, e poi non è per niente grosso.»

    «Al massimo mi vestirà una chiappa.» Presi il reggiseno. «E questo basterà solo per un capezzolo» dissi con una risata. Il bikini era stupendo, non potevo negarlo, ma l’ultima volta che avevo indossato una mise del genere avevo meno di tredici anni.

    Rimisi il costume nel sacchetto e sospirai. «Grazie, ma devi smettere di comprarmi regali. Mi stai facendo sentire un caso umano.»

    «Jayne, ti conosco da una vita. Voglio farlo per te, voglio che tu stia lontana da lui, anche solo per un paio di settimane.»

    Lui. Il meraviglioso, il migliore amico di tutti tranne che della moglie, l’adultero, l’uomo disumano a cui non importava nulla e che passava ogni istante a umiliarmi, si chiamava Michael.

    Lanciai uno sguardo verso la finestra appannata, nella direzione del parco pubblico. La gente camminava frenetica di qua e di là, godendosi la giornata e curiosando tra i negozi locali. Vivevo in quel paese da quasi venti anni e adoravo ogni cosa: dalle anziane pettegole che sedevano ai tavoli vicino a noi al vecchio gentile che gestiva la farmacia. Sebbene tutti conoscessero gli affari di tutti, il borgo aveva qualcosa di confortante.

    «Gli scoppierà una vena per questo» dissi sottovoce.

    «E te ne frega qualcosa?»

    Ci pensai per un momento. Non avevo mai fatto neanche una delle cose che avevo programmato quando ero più giovane. Michael non me lo permetteva. Me ne fregava, però… era quello il punto. Lui avrebbe reso la mia vita un inferno appena gli avrei detto che sarei partita. Però avevo bisogno di quella vacanza. Carla ne aveva bisogno.

    Erano passati due mesi dal perfezionamento del suo divorzio e due anni dalle battaglie con l’ex marito da quando lei aveva scoperto la sua tresca. Ricordavo il giorno in cui Carla mi aveva chiamato. Stava singhiozzando ed era difficile capirla. Se non fosse stato per il suo nome sullo schermo del telefono, non l’avrei riconosciuta. Ero saltata in macchina ed ero andata dritta a casa sua. Per fortuna avevo una chiave. Non era nemmeno nelle condizioni di arrivare fino alla porta d’ingresso. L’avevo trovata raggomitolata, a piangere, sul letto.

    Mi disse che il suo Charles, il collega di Michael, aveva deciso di ravvivare la propria vita già perfetta con un po’ di sesso con la segretaria: un cliché, ma purtroppo vero.

    La ragazza aveva stabilito che voleva di più e si era fatta mettere incinta di proposito. Risultato? Una segretaria infelice, un neonato urlante e il fedifrago con le tasche molto più leggere e il portafoglio immobiliare svuotato grazie a un meraviglioso giudice donna.

    Carla aveva sacrificato la propria carriera. Da quanto mi ricordavo, aveva sempre voluto lavorare come architetto, eppure non aveva avuto altro che incarichi inconcludenti, come sistemare di notte gli scaffali nel supermercato locale, per sostenere Charles mentre lui accumulava esperienza nei mercati monetari. La tresca l’aveva devastata, ma scoprire del bambino l’aveva distrutta. Carla non poteva avere figli, e il pensiero che suo marito sarebbe diventato genitore, l’unica cosa che lei voleva con tutta se stessa, le aveva spezzato il cuore.

    «Allora?»

    Mi girai per guardare la mia migliore amica. «Facciamolo!»

    Uscimmo dal locale e muovemmo qualche passo verso l’agenzia di viaggi. Dieci minuti dopo stavamo sfogliando gli opuscoli per le vacanze che Carla aveva in mente.

    «Ecco» mi indicò una pagina.

    «Non posso permettermelo» replicai.

    «Non paghi tu, ma io. O meglio, lo farà quella testa di cazzo» annunciò con un sorriso.

    «Non posso farti pagare tutto. Parliamo delle Maldive, costano un occhio della testa.»

    «Lo so e pago io.» Si rivolse alla consulente. «Potrebbe prenotare?»

    «Carla, dobbiamo…»

    Mi interruppe con una mano alzata.

    Mezz’ora dopo, la nostra vacanza era prenotata e pagata. Saremmo partite entro due settimane. Mi feci prendere dal panico.

    Avvolte nei nostri cappotti, cappelli e sciarpe, iniziammo la breve passeggiata verso la mia abitazione. Anche quando Michael non c’era, ogni volta che mi avvicinavo a casa mi assaliva sempre un nodo allo stomaco. Quel giorno era un groviglio.

    Adoravo il mio nido. Avevo lottato e avevo vinto, l’unica volta nella mia vita, la battaglia per viverci. Prima di allora, Michael e io abitavamo in un appartamento asettico a Londra, ma quando arrivò il nostro secondo figlio non trovammo altra scelta che trasferirci. Quel borghetto nel Kent, vicino all’autostrada e alla stazione ferroviaria, fu un compromesso per cui avevo combattuto duramente.

    Quando raggiungemmo il cancello d’ingresso, Carla mi abbracciò e mi promise di chiamarmi quella sera, poi salì in macchina e tornò anche lei a casa. Attraversai il sentiero che portava all’atrio.

    Prima ancora di riuscire a chiudere la porta, fui assalita. Settantacinque chili di muscoli mi balzarono addosso, leccandomi e scodinzolando. Houdini era l’unico a essere sempre felice di vedermi. Mi inginocchiai per abbracciare il mio cane e ringraziai la mia buona stella di avere addosso il cappotto. La bava era ovunque.

    «Ti è mancata la mamma?» chiesi seppellendo il viso nella sua pelliccia nera.

    Mi seguì in cucina. Mi sfilai il soprabito e misi su la teiera. Il vento ululava e faceva sbatacchiare il vetro sottile delle finestre contro gli infissi traballanti. La casa era di interesse storico e non potevamo sostituire gli scuri con quelli in plastica a doppio vetro smaltato che Michael voleva, per fortuna.

    Mi misi a sedere al tavolo della cucina con la mia tazza di tè e aprii il computer. Cercai su Google il Four Seasons alle Maldive. C’erano due resorts in due isole: la nostra, Landaa Giraavaru, era la più esclusiva. Una bolla di trepidazione cominciò a disfare quel nodo al petto.

    «Indovina un po’? Vado alle Maldive» dissi al cane.

    Parlavo molto con Dini, era il mio secondo migliore amico e detestava Michael tanto quanto Carla. Il mio cane e la mia amica andavano più che d’accordo purché lui non le si avvicinasse. La bava e Prada non sembravano abbinarsi bene! Rimasi seduta per quel che mi sembrò un’eternità a guardare la spiaggia incontaminata, quel bellissimo mare azzurro e a leggere tutto ciò che potevo sull’isola. Poi, venni presa di nuovo dal panico.

    Non avevo nulla da mettermi. C’era il bikini rosso, certo, ma il resto del mio armadio non era adatto a un resort a cinque stelle, ed era assolutamente fuori discussione acquistare nuovi vestiti per una vacanza che, ne ero certa, Michael non avrebbe approvato.

    Ogni mese dovevo produrre un cazzo di rendiconto delle spese, ogni acquisto che avevo fatto doveva essere giustificato. Contestava ogni articolo, dalla quantità di salvaslip, non pensava che fossero necessari, alla busta di cibo per cani, non riteneva che il cibo o il cane fossero necessari.

    Passando di fianco al telefono nel corridoio, prima di salire le scale, notai la luce rossa che lampeggiava: avevo dei messaggi.

    «Mamma, non hai mai il cellulare acceso, davvero non capisco perché ne hai uno. Comunque, non sarò a casa questo weekend, un paio di amici mi hanno invitato nel sud della Francia. Spillerò i soldi a papà e ci vedremo tra una settimana. Puoi ritirare il mio bucato?»

    Era stata Casey, mia figlia e senza alcun dubbio un clone del padre, a lasciare il messaggio. Sospirai. Frequentava l’università, era straviziata da Michael che la credeva una sua protetta e, per quanto le volessi bene, era una ragazza alquanto piena di sé. Non avevo intenzione di ritirarle il bucato. Davo la colpa ai nonni paterni per il suo atteggiamento. A prescindere dal fatto che fossero veramente altolocati come si dipingevano, stavano contagiando la nipote. La preferivano rispetto a mio figlio Ben, e la cosa mi contrariava.

    Mi diressi verso la camera da letto. Dini salì sulla trapunta mentre tiravo fuori i vestiti dal fondo dei cassetti e dagli scatoloni nascosti nell’armadio. Doveva esserci qualcosa di adatto, lì in mezzo.

    Non mi importava dei peli neri che sarebbero rimasti sul piumone, tanto era la mia camera: Michael si era trasferito nella stanza degli ospiti un anno prima imputando la colpa alla mia insonnia. Dopo un’ora trascorsa a frugare tra vecchi abiti, mi sedetti pesantemente sul letto. Dini mi posò la testa in grembo, i suoi occhi marroni scuro mi guardarono afflitti.

    «Lo so» dissi. «Fa tutto schifo.»

    Michael non ci pensava due volte a spendere più di mille sterline per un abito fatto a mano, eppure il pavimento della mia camera da letto era coperto di vestiti vecchi di più di dieci anni, e perlopiù trovati nei negozi di usato. Ero riuscita a riesumare due prendisole, un paio di pantaloncini e delle canottiere. Dal cassetto delle mutande, trascinai fuori un costume da bagno così logoro che il bianco dell’elastico era visibile attraverso il tessuto nero. Avevo voglia di piangere.

    Mi sdraiai sul letto e mi rannicchiai contro Dini. Come cazzo aveva fatto la mia vita a finire così?

    Michael e io ci eravamo sposati solo perché ero rimasta incinta. Per un mese non aveva fatto altro che rimproverarmi, cercando di convincermi che l’aborto era l’unica opzione. Era un operatore di borsa rampante, non aveva tempo per un bambino, mi aveva detto. Pensò comunque di fare una cosa rispettabile e ci sposammo per poi dire a tutti che Ben era nato prematuro quando arrivò sette mesi dopo.

    Dal momento in cui avevo scoperto di essere incinta, ero stata travolta dall’amore per mio figlio e mi ero dedicata a essere una mamma casalinga. Michael voleva una tata, desiderava il minor disturbo possibile nella sua vita e, nel corso del tempo, io ero diventata tutto ciò che cercava: la cuoca, la donna delle pulizie e la bambinaia, ma lungo il cammino avevo perso me stessa.

    Mi crogiolai nell’autocommiserazione per un’ora prima di allungarmi verso il comodino per tirare fuori il mio diario. Ne scrivevo uno da anni: era l’unico dono che aspettavo con impazienza sotto l’albero. I miei genitori, i miei meravigliosi e affettuosi genitori della classe operaia, mi regalavano sempre un nuovo diario per Natale ed era il primo pacco che aprivo. Sorrisi quando pensai ai miei. Vivevano lì vicino, a Chiappe Raggrinzite, come lo chiamavano loro. Era un complesso abitativo per gli anziani. Ognuno aveva il proprio piccolo bungalow, e c’era un centro ricreativo dove giocavano a carte una sera a settimana.

    Erano anche dei nonni meravigliosi. Quando avevo scoperto di essere incinta per la seconda volta avevo singhiozzato sulla spalla di mia madre. Per chissà quale strana ragione, ero rimasta fedele a Michael e non avevo mai scaricato il fardello dei miei problemi sui miei, ma mia madre sapeva. Aveva capito che mio marito non mi amava e che non mi aveva mai amata.

    Eravamo entrambi in una relazione che non volevamo, eppure nessuno dei due aveva il coraggio di cambiare qualcosa. Molte volte, nel corso dei venticinque anni del nostro matrimonio, ero stata assalita dal desiderio di andarmene, ma non ero mai riuscita a convincermi e sapevo il motivo. Avevo paura di stare da sola. La mia autostima non solo era sottoterra, stava scavando un tunnel verso l’Australia. Per anni, forse sin dal primo giorno, Michael l’aveva demolita a poco a poco. Non ero mai abbastanza brava, non cucinavo bene come la madre, non sapevo socializzare con i suoi colleghi e con le loro mogli perché non ero altrettanto intelligente. Ricordavo le parole che uccisero tutti i sentimenti che avevo provato per lui.

    «Una ragazza dei bassifondi resta sempre una ragazza dei bassifondi» aveva detto.

    Lui credeva che sposandomi mi avrebbe fatto un favore. Mi aveva trascinata via dalle radici della classe operaia e aveva trascorso anni cercando di modellarmi nella moglie trofeo che voleva. Per un po’, lo accontentai. Avevo pranzato con le mogli dei suoi colleghi, ma parlavano così tanto di scarpe e borse da diventare insopportabili. Erano perfette per essere messe in mostra come bamboline, ma un’ora a discutere dei pregi della nuova Prada rispetto alla Louis Vuitton mi annoiava da morire.

    «Stiamo brancolando nel buio, caro Dini. È ora di fare una passeggiata» proposi lasciando scivolare le gambe sul lato del letto e mettendomi seduta.

    La parola passeggiata mandò il mio cane in uno stato d’agitazione. Si inseguì la coda e per poco non mi buttò giù per le scale quando mi passò accanto in fretta e furia. Afferrai il guinzaglio, infilai gli stivali di gomma e il cappotto e aprii la porta sul retro.

    La casa si trovava dietro una fattoria e un bosco. Avevamo un piccolo cancello che portava dritto nel campo e, sebbene non avessi mai avuto bisogno di tenere Dini legato, mi appoggiai il guinzaglio comunque dietro al collo.

    Il vento era leggermente diminuito, ma il freddo mi sferzò il viso quando alzai il cappuccio. Camminai e pensai, pianificai e addirittura recitai a voce alta la conversazione che avrei avuto con Michael quando sarebbe tornato a casa… Se fosse tornato a casa.

    Molte volte rimaneva a Londra. Dove non ne avevo la benché minima idea. Be’, sì che ce l’avevo, ma mi rifiutavo di ammetterlo. Aveva riunioni di prima mattina, mi diceva. Riunioni di prima mattina sembrava essere il codice per scopare con la puttana di turno. Ridacchiai quando pronunciai la parolaccia ad alta voce. La conoscevo, ovviamente. Il marito l’aveva lasciata, e Michael era la spalla su cui piangere. Era la sua compagna di golf, una tipica donna della classe media, attaccata a qualsiasi cosa avesse a che fare coi soldi. Se la poteva tenere. Michael non mi amava, ma neanche io amavo lui. La prima volta in cui me ne ero resa conto, la sensazione mi aveva rattristata.

    Feci il mio normale percorso, chiamando Dini quando lo perdevo di vista, e poi tornai a casa. Mi sfilai gli stivali incrostati di fango prima di entrare dalla porta sul retro. Dini corse in cucina e andò dritto al suo letto, di fronte alla stufa, il luogo più caldo della casa.

    Controllai il cellulare che avevo lasciato sul piano della cucina e notai qualche chiamata persa: una di Casey, che aveva lasciato un messaggio in cui mi diceva che mi avrebbe telefonato un’altra volta, e una di Ben. Dopo aver preparato il tè ed essermi sistemata al tavolo, richiamai mio figlio.

    «Ehi, mamma, sei stata a fare una passeggiata?» chiese non appena risposi.

    «Sì, esatto, scusa se non ho risposto. Che combini?»

    Ben mi raccontò del suo ultimo progetto paesaggistico. Lo ascoltai, amavo sentire l’entusiasmo nella sua voce mentre parlava. Aveva lasciato il college. Come me, non era un accademico, ma amava stare all’aperto. Aveva avviato la propria attività di architettura del paesaggio, all’inizio solo per aiutare la gente del luogo con i giardini. Aveva chiesto a Michael un prestito che lui aveva rifiutato, ovviamente. Casey poteva avere quello che voleva perché stava ancora studiando, mentre Ben doveva implorare. Zia Carla era arrivata in soccorso e gli aveva dato una mano a far decollare l’impresa.

    «Ho una novità» annunciai quando finì di spiegarmi il meraviglioso giardino che stava progettando. «Vado in vacanza alle Maldive con Carla.»

    «Wow, fantastico. Quando?»

    «Tra due settimane, e ho un favore da chiederti. Potresti occuparti di Dini?»

    «Certo e… tra due settimane? Caspita, mamma, non sei una che perde tempo. Come hai fatto a convincere il vecchio?»

    Di rado Ben si riferiva a Michael come a suo padre. Per quanto avessi cercato di proteggerlo, aveva sempre avvertito la distanza da parte sua.

    «Non gliel’ho ancora detto» rivelai con una risatina.

    «Come pensi che prenderà la notizia?»

    «Oh, sono sicura che sarà elettrizzato per me» dissi sbuffando.

    «Che andasse affanculo. Tu vai, mamma. Se hai bisogno di soldi, ho qualche risparmio da parte.»

    Sbagliavo a non sgridare mio figlio per le parolacce? Le usava solo quando parlava del padre. Ben aveva venticinque anni, un uomo adulto di cui ero estremamente orgogliosa. Viveva con Kerry, la ragazza più bella e gentile che avessi mai incontrato. A Casey e Michael non piaceva, ovviamente, non faceva parte dell’aristocrazia.

    «Grazie, tesoro, ma non prenderò i tuoi soldi.»

    Chiacchierammo un altro po’. Gli chiesi come stesse Kerry. Ben era un po’ preoccupato perché ultimamente non era in forma, ma concludemmo la conversazione con la promessa di parlare l’indomani. Mio figlio mi chiamava ogni giorno. Casey, invece, la sentivo una volta al mese, se ero fortunata… A meno che non volesse qualcosa.

    Non avevo avuto notizie da Michael ed ero riluttante a cercarlo. Era sempre arrabbiato quando lo chiamavo al lavoro, ma la sera stava arrivando e volevo preparare la cena. Decisi di inviargli un messaggio.

    Puoi farmi sapere a che ora sarai a casa? Voglio iniziare a cucinare.

    Esitai prima di inviarlo, senza sapere davvero perché. Qualsiasi forma di comunicazione con Michael era difficile. La sua risposta fu rapida e breve, come al solito.

    Non torno. Rimango a Londra.

    Gettai il cellulare sul tavolo. Volevo domandargli se stesse da lei, volevo insultarlo con tutti gli appellativi oltraggiosi esistenti, fargli vedere quanto il mio vocabolario dei bassifondi fosse, o piuttosto non fosse, migliorato, ma non misi in atto nulla di tutto ciò. Mi comportai come sempre: lo ignorai.

    Doveva pur sapere che ero al corrente. Sebbene non ne avessimo mai parlato, gli avevo lavato le camicie che puzzavano del profumo nauseabondo e opprimente di quella sgualdrina. Gli avevo sfregato la macchia di rossetto dal colletto e avevo riso con amarezza di quanto fosse banale. Volevo affrontarlo, sarebbe stata l’occasione ideale per separarci, ma non ero certa che sarei uscita dal nostro matrimonio con abbastanza per sopravvivere.

    Odiavo sentirmi così, odiavo il fatto che rimanevo con lui solo per la sicurezza. Mi faceva capire che ero debole. Non lavoravo da quando ci eravamo sposati e non ero sicura di cosa sapessi fare. Prima del matrimonio, ero stata la segretaria di un adorabile anziano ragioniere, nel suo studio. Le mie abilità di battitura erano ancora al passo, forse dovevo iniziare a cercare lavoro. Forse, potevo dare il via a quel piano che avevo scritto anni prima, il piano rifatti una vita, Jayne.

    Avevo un progetto, un elenco molto dettagliato di cose da fare prima di morire, ma non l’avevo mai iniziato. Fin dall’infanzia, avevo sempre avuto sogni e speranze su un futuro emozionante e non ne avevo realizzato nessuno. Al contrario, ero bloccata in un matrimonio di convenienza con un uomo a cui non piacevo ed ero troppo spaventata per prendere in mano la situazione.

    Capitolo 2

    «Buongiorno, come ha preso la notizia?» chiese Carla non appena risposi.

    «Non è tornato a casa.»

    «È con la troia?»

    «Immagino di sì» replicai.

    «Oh, Jayne. Ti prego, fa’ qualcosa. Buttalo fuori o… Qualsiasi cosa.»

    Avevamo la stessa conversazione periodicamente. Quello che Carla non capiva era che lei aveva una personalità più forte della mia e, nonostante tutti i difetti, Charles non aveva alzato chissà quale polverone quando aveva ricevuto la comunicazione sulla divisione dei beni e l’importo del pagamento che aveva dovuto effettuare. Io ero convinta che Michael mi avrebbe fatto la guerra a oltranza, mi avrebbe sfinita di proposito e si sarebbe assicurato di trascinarmi in tribunale con il sostegno dei suoi ricchi genitori, non che Michael stesso non guadagnasse più che bene.

    «Faccio un salto da te? Possiamo pianificare» propose.

    «Pianificare cosa? Ma vieni comunque, metto su il bollitore.»

    Volevo bene a Carla, ci conoscevamo dalla nascita. I nostri genitori erano amici e vivevano vicini in casette a schiera nel sud est di Londra, ma a volte non mi capiva. Non capiva le mie paure, non vedeva il sorriso forzato che mi stampavo in faccia ogni santo giorno quando tutto quello che desideravo era raggomitolarmi e piangere per la mia pietosa esistenza.

    Volevo solo un marito che mi amasse, dei figli che mi rispettassero e una vita di cui poter andare fiera. Mi sentivo sempre in colpa. Vivevo una bugia e stava diventando più difficile nascondere la mia tristezza a tutti.

    Sentii un’auto parcheggiare nel vialetto. Dini corse alla porta, ringhiando. Era un mastino napoletano, lo avevo trovato un paio d’anni prima legato a un albero, nel bel mezzo dell’inverno, e lo avevo salvato con grande disgusto di Michael.

    Carla aveva una chiave e, mentre versavo acqua calda nella teiera, entrò per conto suo. Ridacchiai quando sentii che provava a fermare Dini mentre lui la salutava.

    «No. A cuccia. Questo è Prada, non quella schifezza di Primark» esclamò.

    «Diniii» lo chiamai. «Lascia in pace Prada.»

    «La prossima volta ricordami di venirti a trovare in tuta» commentò la mia migliore amica posando la nuova borsa sul tavolo della cucina.

    «Ti piace?» chiese accarezzando la pelle azzurro pallido.

    «È una borsa.»

    «È un’adorabile creatura di Michael Kors!»

    Carla non era materialista, ma le piaceva spendere l’assegno del divorzio per oggetti carini. Non la invidiavo per niente. Apprezzava quello che aveva, non dava nulla per scontato ed era fin troppo generosa con i suoi amici.

    «Tè?»

    «Mmm, grazie. Allora, abbiamo bisogno di un piano di fuga» disse.

    Sospirai. Mi misi a sedere e posizionai sul tavolo la teiera, le tazze e un bricco di latte.

    «Carla, possiamo pensarci un’altra volta?»

    Lei mi guardò. «Certo. Sembri stanca.»

    La notte prima non avevo dormito molto, ma succedeva praticamente ogni notte. Il mio corpo soffriva per la spossatezza. Le lacrime si formarono nei miei occhi, e lei mi prese le mani tra le sue.

    «Va tutto bene. Ne usciremo, te lo prometto.»

    «Sono sfinita, Carla, non turbata. Adesso non posso occuparmi di Michael. Non mi importa se ha passato la notte con lei, davvero, non mi interessa. E so che dovrò affrontarlo prima o poi, ma ora sono troppo stanca per farlo.»

    «Ma ti fa stare male» disse dolcemente.

    «Certo che mi ferisce, e forse sto mentendo a me stessa quando dico che non mi importa. Forse, è il mio meccanismo di difesa per impedire che mi faccia male quanto dovrebbe, ma io non lo amo e neanche lui ama me. Perché nessuno dei due riesca a mollare l’altro è un mistero, per me.»

    «Non farà mai la prima mossa perché pensa che gli costerà troppo. L’ha detto a Charles anni fa. Vuole sfinirti abbastanza da spingerti a lasciarlo. E la sai una cosa? Non fa alcuna differenza, in tribunale. Ti tradisce dal giorno in cui l’hai incontrato.»

    Sebbene fosse senza peli sulla lingua, Carla non mi stava rivelando niente che già non sapessi. Apprezzavo la sua brutale sincerità, il più delle volte.

    «Devo dimostrarlo però, no?»

    «La conosci, sai come si chiama e dove cazzo abita, Jayne. Non è difficile, e non credo che lei vorrebbe uno scandalo. Lei stessa ha recitato la parte della povera moglie di un adultero per troppo tempo. Chissà, forse è per questo che il marito l’ha lasciata per un’altra, forse lo sapeva.»

    «Ti voglio bene, sei la mia migliore amica, ma riparliamone dopo le vacanze.»

    Mi sentivo assillata. Aveva buone intenzioni, ma quando Carla si poneva un obiettivo, era difficile fermarla.

    «Okay, ma per favore, promettimi una cosa. Che ci penserai. Posso pagarti l’avvocato. Ne uscirai con qualcosa tra le mani, te lo garantisco.»

    Tutto si riduceva ai soldi. Mi sentivo come una stronza venale. Non lavoravo, non contribuivo dal punto di vista finanziario alla casa, alle bollette, a nulla. Tutto ciò che volevo era potermi sentire al sicuro. Non desideravo la metà di quello che aveva lui, solo quel tanto che bastava per farmi andare avanti finché non mi sarei rimessa in piedi, ma anche così mi sentivo superficiale. Ero stata io a voler fare la mamma casalinga, nessuno mi aveva costretta a rinunciare a una carriera, non che ne avessi davvero una. Volevo costruire una bella casa per la mia famiglia.

    «Hai già fatto le valigie?» chiese Carla, scuotendomi dai miei pensieri.

    «Ho iniziato a dare un’occhiata. È stato deprimente.»

    «Dai, vediamo cos’hai.»

    Salimmo le scale fino alla mia camera da letto. Avevo radunato un mucchietto di cose che ritenevo adatte e che erano in attesa di farsi un giro nella lavatrice.

    «Tutto qui?» chiese sollevando il prendisole rosa che avevo trovato.

    «Mi piace quel vestito. E sì, è tutto quello che ho, al momento, ovviamente.»

    «Puzza.»

    «Non dopo che l’avrò lavato.» Glielo strappai di mano. Emanava l’odore caratteristico di plastica della custodia in cui era conservato.

    Carla aprì l’armadio e cominciò a frugare. «Hai qualcos’altro di colorato?» chiese.

    Le stavo accanto. «No, a quanto pare, no.»

    Il mio guardaroba spaziava dal nero al grigio al blu e al marrone scuro. Non mi ero resa conto di quanto tutto quanto fosse così deprimente.

    «Domani ti porterò un

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