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La storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte
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E-book548 pagine20 ore

La storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte

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Una saga familiare tra Vecchio e Nuovo Mondo intrisa di realismo magico e con una protagonista indimenticabile che ha stregato stampa e librai indipendenti. Un'epopea travolgente. Una storia di sorellanza, segreti inconfessabili e sogno americano. Una donna che combatte con tenacia contro il suo stesso destino.

«Una saga familiare tra la Calabria e il Connecticut che attraversa due decadi e cinque generazioni. Juliet Grames ha scritto un grande libro, ricco di dettagli in cui ci si perde piacevolmente» – New York Times Book Review

«La storia di una donna che potrebbe essere tutte noi. Juliet Grames esplora magnificamente tutti gli stadi della vita femminile. Un romanzo intelligente e ricco» – Publishers Weekly

«Stella è una protagonista complessa e sfaccettata, che ben rappresenta le lotte delle donne nel passato per guadagnare autonomia sul proprio corpo e la propria vita» – Booklist

Ievoli, Calabria, anni Venti. Per Stella Fortuna la morte è sempre stata parte della vita. La sua infanzia è costellata di inaspettati, quasi mortali incidenti avvenuti nei modi più strani. Pentole di melanzane bollenti, porte che sembrano stregate, animali impazziti... Tutte le volte, Stella è stata davvero troppo vicina alla morte. Anche la madre è convinta che sua figlia sia sotto l'influenza del malocchio. Nel piccolo villaggio in cui vivono, Stella è considerata strana perché è bellissima e intelligente, eppure sfrontata e fredda come il ghiaccio. La ragazza usa tutta la sua forza per proteggere Tina, la sorellina, molto più debole e meno dotata di lei. Ma il carattere indomito di Stella provoca le ire del padre Antonio, un uomo che pretende assoluta obbedienza dalle donne, e il cui più grande apporto alla famiglia consiste nella sua prolungata assenza. Quando i Fortuna, poco prima della Seconda guerra mondiale, decidono di emigrare, Stella e Tina devono affrontare insieme l'ostilità del Nuovo Mondo. E Stella capisce che dovrà combattere la sua stessa famiglia per essere indipendente. Ma nessuno sopravvive a così tante quasi morti senza un motivo... Juliet Grames, ispirandosi alle vicende della sua famiglia, di origini italiane, ha scritto un esordio che è una piccola gemma, venduto in quindici paesi nel mondo. Una saga familiare tra Vecchio e Nuovo Mondo intrisa di realismo magico e con una protagonista indimenticabile che ha stregato stampa e librai indipendenti. Un'epopea travolgente. Una storia di sorellanza, segreti inconfessabili e sogno americano. Una donna che combatte con tenacia contro il suo stesso destino.
LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2020
ISBN9788830514737
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    Anteprima del libro

    La storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte - Juliet Grames

    2019

    PRIMA PARTE

    INFANZIA

    I ligna cumu su ƒhanu e vrasce,

    e l’agianti cumu suƒhanu e cose.

    Il fuoco è bello tanto quanto il legno che arde;

    il lavoro è bello tanto quanto la gente che lo esegue.

    PROVERBIO CALABRESE

    Quando u gattu un c’è, i surici abbalanu.

    Quando il gatto non c’è, i topi ballano.

    PROVERBIO CALABRESE

    MORTE 1

    SCOTTATURE

    (Sviluppo cognitivo)

    Il paesino di Ievoli è incuneato sulla parete scoscesa del pianoro più elevato di una montagna di modesta altitudine nel centro della Calabria. Non è mai stato molto grande e, quando Stella Fortuna era bambina, all’epoca del suo massimo splendore, ci vivevano appena seicento abitanti, ammassati in case di pietra l’una vicina all’altra. Se dico che Stella Fortuna era una ragazzina speciale, però, spero che non stiate pensando lo fosse solo rispetto al paesello. Nel corso della sua lunga vita l’avrebbero sottovalutata in tanti, per poi pentirsene.

    In primo luogo bisogna considerare il nome: nessuna donna inferiore a lei sarebbe mai stata in grado di portarlo. Si chiamava come sua nonna, e fin qui nulla da obiettare, anche se chiamare Stella una bambina che di cognome fa Fortuna… un’idea terribile! Non esiste modo migliore per evocare il malocchio che vantarsi della propria buona sorte e, con un nome simile, uno i problemi se li andava a cercare. E che al malocchio ci crediate o no, dovete ammettere che di problemi Stella ne ebbe a bizzeffe.

    «Alla fine l’ho sempre scampata» ricordava spesso alla madre Assunta, che era bravissima a preoccuparsi per ogni cosa, ma con la disciplina non se la cavava altrettanto bene.

    Sì, Stella Fortuna era sulla bocca di tutti, e non solo per via del nome. Va tenuto conto dell’aspetto fisico, anche. A sedici anni, il giorno in cui lasciò Ievoli per emigrare in America, era la ragazza più bella del paese. Aveva un seno prosperoso che si muoveva quando rideva e ballonzolava ipnotico mentre scendeva decisa dalla ripida strada di montagna che passava per il centro. L’aveva preso da sua madre; la sorella minore, Cettina, era stata meno fortunata da quel punto di vista e da Assunta aveva ereditato soltanto il sedere che, va detto, non era comunque da buttare. Stella aveva le guance luminose e abbronzate, lisce come olive, e le labbra imbronciate rosee e morbide come la polpa di un fico maturo. In buona sostanza, era una macedonia preparata con i desideri degli uomini di Ievoli.

    A onor del vero aveva diversi segni addosso, come la mezzaluna scavata in fronte e dei punti sulle braccia, ma persino le cicatrici diventano seducenti se si sa che cosa le ha causate, e in un paesino piccolo come Ievoli tutti sapevano tutto.

    Per Stella era naturale essere provocante e al contempo per nulla accondiscendente. Quando usciva per la consueta passeggiata serale, la chiazza si ammutoliva e tratteneva il fiato, ma lei non se ne accorgeva e nemmeno le importava. Le morbide curve della sua figura distraevano dai suoi spietati occhi neri uomini e giovanotti ambiziosi, lei però li rimetteva subito al loro posto e, anzi, se ne faceva beffe.

    Essere tanto desiderabile per lei contava poco. Aveva già deciso che non si sarebbe mai sposata, dunque non le interessava sfruttare il proprio aspetto per attirare pretendenti. Scandalizzava la buona e obbediente Cettina con la sua maniera ruvida di trattare quegli speranzosi.

    In seguito le due sorelle sarebbero rimaste prigioniere di una faida famigliare per trent’anni, ma all’epoca nessuno al mondo se lo sarebbe potuto immaginare, visto che da ragazze erano migliori amiche. Addirittura, poiché erano sempre insieme, i corteggiatori le approcciavano in coppia.

    «Devi essere più garbata, Stella!» le suggeriva timorosa Cettina. Nonostante fosse la più piccola, si preoccupava per lei quasi quanto Assunta. Perciò non c’era da meravigliarsi che Stella fosse così sfortunata. «Che poi ti danno della donnaccia!»

    «E di chi è il problema, scusa?» rispondeva Stella. «Mio no di certo.»

    Non è che fosse vanitosa – non si era nemmeno mai guardata allo specchio – ma sapere di essere la più bella le dava un’immensa soddisfazione. Le piaceva il potere, e quello derivante dal proprio carisma era uno dei più forti che avesse a disposizione, uno dei pochi che una giovane donna di un paesino del Sud Italia, negli anni tra le due guerre, poteva godersi.

    Infine, era brillante. Le piaceva eccellere, ed eccelleva quasi in tutto. Era la migliore ricamatrice di Ievoli; i suoi bachi producevano più seta degli altri e in una giornata di lavoro a cottimo nel campo di don Mancuso sgusciava più castagne di chiunque. Era svelta con i numeri ed era capace di fare di conto a mente; aveva una memoria infallibile e non veniva mai sconfitta in un litigio perché sapeva ribattere meglio degli avversari. Era gentile con gli animali, e perfino quelle maledette galline depositavano più uova quando era lei a dar loro da mangiare al mattino. Dato che non riusciva a essere la migliore ai fornelli, però, non cucinava mai: era importante conoscere i propri limiti e non perdere tempo nel tentativo di eseguire malamente qualcosa che altri avrebbero potuto fare al posto suo. Inoltre era sagace e indipendente, inutile provare a prenderla in giro o approfittarsi di lei. Aveva ereditato la disciplina della madre e la diffidenza del padre, e per questo era diventata una lavoratrice indefessa e scaltra. Era il tipo che portava sempre a termine qualsiasi cosa iniziasse. Insomma, bisognava augurarsi di averla come alleata e non come nemica.

    Infine era tosta, la sua caratteristica più rispettata dai compaesani, ma anche ciò che la fece finire nei guai spesso quando emigrò. La vita aveva provato ad abbatterla, eppure lei aveva resistito. Ogni volta che le capitava qualcosa di brutto, diventava più ostinata, più vendicativa, meno compiacente. Non ammetteva la minima debolezza in sé o negli altri. Tranne, naturalmente, in sua madre, a cui riservava dispense speciali.

    A sedici anni compiuti, Stella Fortuna era già quasi mor­ta tre volte – ecco spiegate quelle grosse cicatrici. Adesso vi racconterò delle quasi-morti avvenute a Ievoli. La sua famiglia le aveva definite affettuosamente L’attacco delle melanzane, Quella volta con i maiali e La porta stregata. A mio parere, tra tutti gli aneddoti sulle sue quasi-morti questi sono i più bizzarri, com’era ovvio che fosse; un secolo fa, in un remoto paesino di montagna, risultava tutto un po’ più curioso. Di sicuro la modernità ha tolto un pizzico di magia alla nostra vita e alla nostra morte.

    Ievoli era un segreto che si conservava intatto da duecento anni. Come la maggior parte dei paesini calabresi, era povero e deliberatamente inaccessibile, non esistevano strade che lo collegassero a qualche altro centro abitato, solo mulattiere ricavate tra folti arbusti di mimosa e vischio selvatico. La gente di Ievoli non aveva molto, ma lì almeno erano al sicuro dai barbari, dagli invasori, dal mondo esterno – da tutti, insomma, tranne che da loro stessi e, be’, anche dai briganti che vivevano nella boscaglia, che di tanto in tanto rubavano qualche capra e importunavano i viandanti. Ragione in più, questa, per non allontanarsi mai dal paese.

    Gli uomini erano tutti contadini, lavoratori a giornata che seguivano il sole diretti verso qualsiasi tipo di raccolto e qualunque ricco latifondista disposto a pagarli. Non avevano terre di proprietà. Guadagnavano a sufficienza per mantenere in vita le proprie famiglie, sempre che le mogli fornissero il cibo dai loro orti di montagna terrazzati e i figli andassero a lavorare nei campi non appena fossero stati abbastanza svegli.

    La Calabria è una terra di improbabili cittadine abbarbicate sui cucuzzoli delle montagne come Ievoli, le strade così ripide che per percorrerle sembra quasi di dover avanzare carponi. I calabresi edificarono questi centri inaccessibili a scopo difensivo. Per duemila anni la Calabria fu occupata prima dai Romani, che portarono via tutto il legname; poi dai Bizantini, che convertirono l’intera regione al loro credo ortodosso; dai Saraceni nordafricani, che la resero musulmana; dai Normanni, abili costruttori di castelli, che la fecero diventare cattolica; dai Borbone, dagli Angioini, dagli Asburgo; infine, dagli italiani. Ogni ondata di conquistatori schiavizzò, saccheggiò, banchettò e fece razzie, aprendosi un varco a suon di spada tra i lussureggianti ulivi e agrumeti, schizzando sangue e DNA sui fertili pendii delle colline.

    La nostra gente fuggì da pirati, stupratori e feudatari, rifugiandosi tra le montagne. Adesso costruire il proprio nido in questi assurdi paesi a strapiombo è diventato uno stile di vita, nonostante al momento la minaccia della malaria e dei saraceni si sia in parte placata, ma dipende a chi lo si chiede.

    Restano prove del passaggio dei conquistatori nei volti dei calabresi, gente multicolore, nelle lingue che parlano e nella loro cucina. Il paesaggio è punteggiato di castelli normanni e rovine di templi greci eretti tre secoli prima di Cristo. I calabresi tirano avanti impassibili tra i resti degli antichi invasori, perché non sono mai stati padroni della propria terra.

    Come per la maggior parte delle donne, anche nel caso di Stella Fortuna non si può capire la storia della sua vita se prima non si conosce quella della madre. La nostra Stella dal gelido cuore di pietra la amava più di ogni altra cosa al mondo. In realtà Assunta la amavano tutti. Era una santa, come vi dirà chiunque ne serbi il ricordo – e di gente che se la ricorda ce n’è ancora. Nei paesini di montagna, i cuori sono forti e chi sopravvive alle sorprese dell’esistenza si rivela assai longevo.

    Assunta nacque a Ievoli il giorno della festa dell’Assunzione della Beatissima Vergine, santa Maria, Madre di Dio, il 15 agosto del 1899, da cui il nome. Era una donna religiosa e devota, di quelle che pregavano un po’ di più per rimediare al fatto che il marito, invece, si asteneva. Ievoli abbondava di donne come lei, e ho il sospetto che sia ancora così. Assunta venne cresciuta da sua madre Maria perché credesse in Gesù Cristo e nel Regno di Dio, dove sarebbe ascesa se avesse eseguito alla lettera ciò che le intimava il curato, coltivando una fede pura e incrollabile. Non era una delle tante ossequiose fedeli occasionali, lei in Dio credeva davvero, e con tutta se stessa. A messa, soprattutto da adolescente, in quegli anni di violente turbe ormonali e nascente femminilità, spesso mentre contemplava il cuore sofferente della Beata Vergine Maria era sopraffatta dall’emozione e cominciava a singhiozzare sulla panca. Manifestava emozioni grandiose e spettacolari, che con il passare del tempo divennero sempre più impressionanti. Le sue crisi di pianto erano uno dei due motivi per cui la figlia Stella aveva giurato di non piangere mai, voto che mantenne per quarantotto anni.

    Ebbene, la ragione per cui Assunta sposò Antonio Fortuna a soli quattordici anni – giovanissima perfino per gli standard dell’epoca – era che suo padre morì all’improvviso, lasciando le donne della famiglia in difficoltà. Per quanto un contadino possa coltivare sodo la terra del padrone tutta la vita, alla fine non possiede altro che il proprio lavoro, e alla sua morte, con ogni probabilità, non gli resta nulla da lasciare alla moglie. Assunta si ritrovò con una misera dote, e più fosse vissuta con la madre vedova, meno gliene sarebbe rimasta. Molto meglio se un’altra famiglia si fosse occupata di lei.

    Inoltre, a quanto sembrava, era pronta per il matrimonio. Aveva l’aspetto di una matrona, anche per via di quel seno prosperoso che avrebbe ereditato Stella. Poteva contare su una presenza rassicurante e un portamento deciso. Aveva un viso indimenticabile, due occhioni scuri a forma di mezzaluna rovesciata che incorniciavano le guance rotonde. Nel corpo era una ragazzina incredibilmente matura. Quando le signore del vicinato andavano a farle visita, cominciavano a pensare a quale giovanotto del paese avrebbe sposato, o magari qualcuno di Galli, Polverini o Marcantoni, dove tizio aveva un cugino che era un ottimo partito.

    Alla fine Assunta sposò un giovane di Tracci, che era a un’ora di cammino a sud di Ievoli. Antonio Fortuna aveva diciassette anni, era un lattoniere arrivato in paese per costruire la nuova scuola. Assunta lo vedeva spesso mentre pranzava con altri uomini sotto l’unico rigoglioso albero antico nella chiazza della chiesa. Lui la seguiva con sguardo lascivo quando andava al pozzo ad attingere l’acqua. A lei piaceva fisicamente, così forte e con le spalle larghe, un giovanotto massiccio con una zazzera di scintillanti riccioli neri, e la lusingava che mostrasse interesse nei suoi confronti. Però non lo illuse mai. Assunta era timida con i ragazzi e le avevano insegnato con successo a incanalare l’intensa energia pubica adolescenziale nella recita del rosario, concentrandosi sulla verginità di santa Maria Madre di Dio. Era il genere di ragazza che adorava le canzoni d’amore, ma non pensava mai a se stessa quando le cantava.

    Non parlò a sua madre del bel lattoniere, perché in fondo che cosa c’era da dire? Poi, però, si venne a sapere tutto nel solito modo: uno dei lattonieri di Ievoli rivelò alla moglie che Antonio Fortuna, figlio di Giuseppe Fortuna da Tracci, aveva messo gli occhi addosso ad Assunta, la figlia minore del povero Francesco Mascaro, pace all’anima sua. La donna, quindi, andò a far visita alla madre di Assunta e menzionò il giovane di Tracci, e… be’, si sa. Quando si continua a parlare di una certa cosa, alla fine succede. Nonostante Assunta e Antonio non si fossero mai rivolti la parola, in paese tutti avevano raccontato a lui di lei e viceversa, al punto che sembrava si fossero già accordati senza nemmeno bisogno di aprire bocca.

    Questo in sostanza fu il corteggiamento. Pare roba da poco, in realtà fu eccitantissimo per Assunta, che trascorse quell’inverno a ricamare la propria dote in fretta e furia, entusiasmandosi all’idea di se stessa in una cucina circondata da bambini e soffrendo in anticipo, con una morsa allo stomaco, il lutto per l’imminente perdita della propria verginità. Non si poté optare per un fidanzamento lungo né formale, perché il giovanotto fu richiamato alle armi per la leva obbligatoria. Non conveniva a nessuno dei due aspettare fino alla licenza, dunque Assunta e Antonio si sposarono nel febbraio del 1914, tre mesi dopo essersi parlati per la prima volta.

    Il giorno del matrimonio, sulle montagne della Sila cadde la neve. Mentre Assunta percorreva la salita verso la chiesa per la cerimonia, sua sorella Rosina usò una delle tovaglie del corredo, che la futura sposa aveva ricamato, per proteggerle l’abito nero. I fiocchi si raccolsero come sale nelle ceste dei mustazzoli che la damigella, Mariangela, la cognata di Assunta di appena nove anni, distribuiva ai presenti.

    La coppia trascorse la prima notte di nozze nella nuova dimora, un appartamento al pianterreno di una casa di pietra sul fianco della montagna, situata nella terza traversa di via Fontana. L’alloggio si affacciava sugli uliveti della vallata; conficcando assi di legno nel terreno, era stata ricavata una ripida scala che conduceva in fondo alla strada principale. Antonio aveva concordato l’affitto con la vedova Marianina Fazio, proprietaria dei locali, e da contratto Assunta avrebbe dovuto aiutarla a fare le pulizie e a coltivare l’orto. Suffumicare le stanze era un’impresa perché mancava il camino, e c’erano solo ampie finestre che, una volta spalancate, davano direttamente sulle galline della vedova e sulle sue due capre pezzate.

    In casa l’aria era densa d’umidità e del puzzo delle piume dei polli. Le pareti con i mattoni a vista risultavano leggermente bagnate al tatto, e Assunta rimase sveglia a lungo, raschiando il mortaio con le unghie e pensando a quanto fosse strano ritrovarsi così vicina a quell’uomo che russava, a quanto fossero strane le ombre notturne negli angoli di quella casa a lei poco familiare, a quanto fosse strano il dolore che provava.

    In piena notte, fuori dalla finestra si udì un urlo che sembrava al contempo umano e disumano e che svegliò gli sposini dal loro primo goffo sonno condiviso. Antonio si infilò le braghe e brancolò al buio in cerca della lampada.

    Non avevano ancora raggiunto la porta, che quell’orribile grido risuonò di nuovo. Assunta perse preziosi battiti prima di capire ciò che vide attraverso la cortina di neve: in piedi, sulla carcassa ansante di una delle capre della vedova, c’erano due immusoniti lupi grigi. Di sicuro erano scesi dai boschi della Sila a causa della neve, perché si avventuravano in quelle zone soltanto quando erano affamati. Avevano il muso appuntito, la bocca rossa e gli occhietti neri. Una gelatinosa nebbia bianca, simile a un aspic un po’ torbido, invase il cortile. Restarono tutti e quattro lì a guardarsi, i fiocchi bianchi che si accumulavano sul collo dei lupi.

    Antonio, l’uomo di casa, sembrava pietrificato dalla paura, o forse era solo disorientato. Assunta che, a torto o ragione, non temeva i lupi, afferrò l’attizzatoio di ferro dal pavimento, si divincolò dal braccio del marito e corse fuori scalza. «Andatevene via!» gridò a pieni polmoni alle due bestie, che si accucciarono e ringhiarono, ma alla fine indietreggiarono. «Via!» Fu un bene che non fosse rimasta in casa immobile, perché nei successivi cinquantacinque anni di matrimonio suo marito non ci sarebbe quasi mai stato per scacciare i lupi.

    Per fortuna, i versi della capra morente avevano svegliato i vicini, e gli uomini accorsero in aiuto dei coniugi con pale e asce. Una volta scacciati i lupi, una marea di testimoni era in grado di raccontare la storia: Assunta in camicia da notte e Antonio a petto nudo nella neve, intenti a lottare contro i lupi la prima notte di nozze. Magari c’erano altre bestie feroci lì intorno, così, mentre Gino Fragale, che abitava due case più sotto, aiutava Antonio a scuoiare ed eviscerare la carcassa della capra per la sgomenta vedova Marianina, Assunta portò dentro le galline e le chiuse in cucina. Poi, armata soltanto di scopa e neve, cercò di sfregare via il sangue della capra; non voleva che l’odore invogliasse i lupi a tornare. Lei e il marito, poi, trascorsero il resto della prima notte di nozze ad ascoltare le galline che, turbate, raspavano sul pavimento di pietra.

    Otto mesi dopo il matrimonio, Antonio partì per raggiungere il suo reggimento a Catanzaro. In estate, l’ufficiale preposto all’arruolamento delle reclute aveva fatto il giro di Ievoli per assicurarsi che tutti gli uomini papabili fossero stati registrati per la leva. La giovane nazione italiana stava costruendo il proprio esercito per riacquistare il ruolo di potenza mondiale che le spettava di diritto – ruolo che, lo ricorderete, aveva ceduto millecinquecento anni prima, quando i Visigoti avevano saccheggiato la grande capitale dell’impero, Roma. Non che Assunta avesse nozioni di storia romana né che fosse a conoscenza del cataclisma che stava già devastando l’Europa, naturalmente.

    Il giorno in cui partì, Antonio non promise alla moglie che le avrebbe inviato lettere. Sapeva leggere e scrivere, però non gli piaceva; Assunta, invece, era analfabeta. Diede per scontato che, se fosse sopravvissuto, sarebbe tornato da lei, ma solo il Signore sapeva per quanto tempo sarebbe stato lontano.

    Incinta di sei mesi, Assunta si incamminò insieme al marito lungo la costa della montagna fino alla stazione ferroviaria di Feroleto, il più grande del loro gruppo di paesini. Maria guidava l’asino con il fagotto del genero legato sul dorso. Non fu un saluto molto romantico; appena arrivò il treno, Antonio baciò la moglie sulle guance, prese la sua roba e svanì dentro un vagone. In quei pochi mesi di matrimonio, Assunta aveva capito che era molto attivo sessualmente, e su questo non nutriva più alcun dubbio, ma per nulla romantico.

    Le donne si trattennero sulla pensilina finché il convoglio non discese rimbombando lungo la montagna diretto verso la lontana Catanzaro. Assunta piangeva in silenzio, gli occhi sgranati, le lacrime che le scorrevano lungo le guance fino alla pancia sporgente. Piangeva perché una parte di sé era sollevata all’idea che Antonio se ne andasse, così non avrebbe più dovuto soddisfare il suo insaziabile appetito, non soltanto sessuale, un impegno gravoso adesso che era esausta per la gravidanza. Si sentiva in colpa per quei sentimenti. E a ragione, come le rimproverò il curato nel confessionale.

    La creatura arrivò il pomeriggio dell’11 gennaio 1915. Assunta si svegliò con i crampi e poi, mentre stava pulendo il camino, le si ruppero le acque. Asciugò nervosa quel disastro, chiedendosi se dovesse ciondolare fino a casa di sua madre per avvisarla, però poi, magari, non sarebbe riuscita a ripercorrere la salita di via Fontana per tornare a casa per partorire. L’angoscia di dover prendere una decisione la paralizzò, ma per fortuna in quel preciso istante si presentarono Maria e Rosina per farle un saluto. Così funziona nei paesini: se non si vede una persona per tutto il giorno, si va a controllare come sta.

    L’anziana donna riscaldò l’acqua e appese della menta sopra il letto per tenere lontano il malocchio. Insieme sostennero Assunta per i gomiti e la fecero camminare in circolo. La aiutarono a usare il pitale e poi le somministrarono un infuso di camomilla per rilassarle i muscoli e la mente. Nel tardo pomeriggio, appena le contrazioni diventarono sempre più ravvicinate, Rosa andò in chiesa a prendere suor Letizia. La suora era molto devota e sapeva bene come agire al momento del parto, anche se non aveva mai avuto figli. Durante i suoi settantacinque anni di vita aveva assistito a molte nascite, vedendone di tutti i colori: parti podalici, bambini avvolti nel cordone ombelicale, gemelli. Il suo cantilenante accento del Nord calmava le partorienti in preda alle doglie. Con lei nei paraggi si sentivano tutti meglio.

    Assunta era nervosa e non voleva morire, sebbene l’eventualità non si potesse escludere. Maria e Rosa, invece, erano calmissime, dato che nutrivano una fede totale in Dio e nella sua benevolenza. Assunta sapeva che avrebbe dovuto condividere la loro stessa devozione, e di conseguenza non soltanto aveva paura di morire, ma aveva persino paura di avere paura di morire. Alla fine la creatura nacque senza intoppi, solo con tanto dolore e sofferenza, come sperimenta qualsiasi madre se il parto va a buon fine. Era una bimba rosa e paffuta, con una chiazza di capelli neri che le copriva tutta la testa. Aveva gli occhi color nocciola, come il padre.

    Antonio aveva lasciato istruzioni sul nome del nascituro: Giuseppe se fosse stato maschio, come suo papà, e Mariastella se fosse stata femmina, come sua mamma. La piccola aveva appena un’ora di vita che Assunta già le aveva abbreviato il nome in Stella. «La mia stellina» esclamò, perché le venne spontaneo e perché la bambina era un amore.

    Maria e Rosa le impartirono la loro benedizione e recitarono la formula magica del cruci per tenere lontano il malocchio. Come già detto, erano donne di fede, che confidavano pienamente nella grazia redentrice di Gesù Cristo, tuttavia, da un punto di vista pratico, non avrebbe guastato dare manforte ai Suoi benevoli sforzi con un po’ di sana stregoneria silana.

    Nel maggio del 1915, quando l’orto di fagioli che Assunta coltivava meticolosamente era nel pieno della fioritura gialla e viola, giunse la notizia che l’Italia era entrata in guerra contro l’Austria. La piccola Stella aveva quattro mesi ed era paffuta, un vero splendore; aveva il tipico faccino dei neonati, le guance pronunciate e la testa ciondoloni sul petto. Ovviamente, era diventata la cocca di tutte le donne del vicinato, che andavano a trovarla per strapazzarle le guanciotte di baci e carezze affettuose. Assunta ignorava che quei giorni idilliaci di rotondità infantile sarebbero durati ben poco e che fosse alle porte un periodo di privazioni.

    «Quanto dura una guerra?» chiese a suo fratello Nicola appena lui le riferì la notizia.

    Non conosceva la risposta. Per via dell’età – aveva trentacinque anni, e tra lui e Assunta la loro madre aveva perso quattro figli – aveva evitato la chiamata alle armi, ma Ievoli aveva mandato al fronte diciassette ragazzi, un’intera generazione, e nessuna famiglia era stata risparmiata.

    In giugno, lo stesso giorno in cui la piccola Stella si mise a sedere da sola, Assunta ricevette una lettera da Antonio, che Nicola lesse per lei. La sua divisione sarebbe stata mandata al Nord, lungo il confine austriaco. La lettera risaliva almeno a un mese prima.

    Durante la guerra ci furono due anni di carestia. L’inverno del 1916-1917 fu il più rigido mai registrato, e venne documentata una nevicata di otto metri nella valle del fiume Isonzo, dove i giovani italiani stavano combattendo. La primavera praticamente non arrivò mai, e l’inverno si prolungò fino al 1918, quando i ghiacci su alcune delle cime alpine contese si sciolsero per la prima volta, riportando in superficie brigate di cadaveri rimasti sepolti per diciotto mesi sotto i cumuli di neve.

    A Ievoli, la stagione infruttuosa concesse solo metà del­l’usuale raccolto; versata la tariffa di guerra, As­sunta pianse. Voleva convincersi che il grano che le veniva sottratto potesse in qualche modo arrivare ad Antonio sul fronte austriaco, ma mentre l’asino dell’esattore trainava il carretto verso Pianopoli, non riuscì a togliersi dalla testa che quello fosse l’ennesimo brigante di montagna intento a estorce­re denaro, grazie a un ordine del re anziché con la lupara.

    L’orto di Assunta agonizzava in quell’insolita estate gelida; le patate crescevano piccole e i pomodori si rifiutavano di maturare, raggrinzendo sui rampicanti. A mano a mano che l’estate avvizziva, cedendo il passo all’autunno, non restava quasi più nulla da mangiare. Si sentiva di casalinghe che grattavano via l’intonaco polveroso dalle pareti per sostituirlo alla farina. La casa dei Fortuna, purtroppo, non era intonacata, e in ogni caso non apparteneva a lei.

    Nei suoi diciassette anni di vita, Assunta non aveva mai sopportato tanta fame. Non aveva soldi, né un padre o un marito che provvedessero a lei, e nemmeno la possibilità di guadagnarsi qualche soldo; inoltre, non poteva controllare il tempo o far fruttificare l’orto. Si sentiva impotente come una bambina, con la differenza che adesso aveva una figlia a cui badare. Ogni volta sembrava che peggio di così non potesse andare, però veniva sempre smentita.

    La piccola Stella, che ormai aveva imparato a gattonare, era diventata timida e mite, inoltre piangeva di rado. Accettava di buon grado e senza lamentarsi ciò che Assunta le dava da mangiare, cose strane e sempre più incredibili: un giorno purea di fave, quello dopo una minestra ottenuta dai baccelli vuoti messi a bollire. Cipolle fritte nell’olio d’oliva, ma senza pane con cui accompagnarle. Brodo di corteccia di pino o erbe di montagna amare. Arance acerbe che rubava nelle gole lungo la strada per Tracci e di cui stufava le bucce finché non si ammorbidivano al punto da essere commestibili. Fece bollire l’ultima scorta di noci del raccolto autunnale, poi ne bevve l’insipida acqua di cottura e diede i gherigli ridotti in poltiglia alla piccola Stella. Spesso non mangiava affatto, ma assaporava il brontolio della fame, prova inconfutabile che si era sottoposta a ogni possibile sacrificio per il bene della bambina.

    Assunta faceva del suo meglio. Lei tirava avanti, e la bambina cresceva. Quando Stella fu troppo grande per la vestina da neonata, non aveva la stoffa per confezionarle un cambio. Allora cucì insieme vecchi stracci da cucina, e sua figlia imparò a camminare con indosso ciò che un tempo serviva a pulire il tavolo. Tutto il paese stava dimagrendo. Gli animali della fattoria diminuirono finché non ne restò nemmeno uno, perfino quelli che di solito non venivano mangiati – gli asini, per esempio; e dire che i calabresi adoravano il proprio ciuccio più della moglie, come recitava un’antica canzone popolare. Nemmeno la vecchia asina di Maria sopravvisse alla guerra. Non so che cosa accadde di preciso a quella povera bestia: non me le vedo Maria o la sentimentale Rosa ad ammazzarla e servirla in tavola, ma d’altro canto non ho idea di che cosa significhi morire di fame.

    Gli anni passavano bui, e Ievoli pregava. Una dopo l’altra, le novelle vedove e le madri addolorate sostituirono le loro pacchiane rosse con gonne nere a lutto.

    La guerra contro l’Austria terminò il 3 novembre 1918. Un messaggero a cavallo passò a diramare la notizia per tutte le parrocchie lungo la strada da Nicastro. Al calar del sole suonarono le campane dei campanili di tutte le chiese, e nelle campagne riecheggiarono la riconoscenza dei vivi e le preghiere per i morti. Ievoli aveva perso undici giovani, un prezzo terribile per un borgo così minuscolo. Angelo e Franceschina, che abitavano poco distante dalla strada per Pianopoli, persero i tre figli e anche un nipote ciascuno.

    Assunta e Rosa accompagnarono la piccola Stella a Feroleto per vedere il treno che riportava i soldati a casa. Assunta non era sicura dell’orario di arrivo e temeva di essere in ritardo, dunque le tre donne si incamminarono all’alba. Stavolta non c’erano asini per aiutare Antonio con il bagaglio. Stella percorse metà cammino sulle proprie gambette tozze, poi si lasciò portare dalla madre.

    All’idea di rivedere il marito, Assunta provava un panico silenzioso. Non era sicura di ricordarsi che aspetto avesse. Per calmarsi cantava a Stella, facendola rimbalzare sul fianco. La stazione era affollata di donne e uomini anziani, quasi tutti vestiti di nero. Mentre aspettavano il treno, Assunta camminava con la figlia avanti e indietro lungo il selciato della chiazza, che girava intorno alla montagna come un barbacane in posizione strategica per controllare la vallata sottostante. Entrarono nelle botteghe degli artigiani. La bambina salutava educata i commercianti, buon jurno, come le era stato insegnato, e loro ridevano e commentavano quanto fosse intelligente, che fosse benedetta.

    Il treno arrivò poco dopo che le campane di Santa Maria batterono le dieci. Aveva viaggiato per due notti, un tragitto estenuante e lento da Trieste a Roma e poi a Napoli, fermandosi in ogni paese per scaricare veterani e bare. Infine era giunto in Calabria, la parte più estrema della penisola rispetto a dove prima infuriava la guerra, per depositare gli ultimi sopravvissuti. I soldati di Feroleto, Pianopoli e delle città più piccole scesero uno in fila all’altro. Assunta scrutò le loro facce, chiedendosi con un rinnovato impeto di terrore quale fosse Antonio. Poteva essere chiunque, eppure nessuno sembrava quello giusto.

    Mentre Assunta era lì in piedi muta, l’arguta Rosina lo chiamò a gran voce con il suo soprannome: «Tonnon!». Un tale si incamminò verso di loro. Pareva il fratello maggiore e più snello dell’uomo che aveva sposato. Aveva il volto tirato e dava l’impressione di essersi rimpicciolito, non era più il giovanotto robusto e in carne partito per la guerra. Non aveva nessuna cicatrice visibile tranne, a ben guardare, chiazze di pelle screpolate sulla punta delle orecchie, conseguenza di un vecchio assideramento.

    «Antonio» lo salutò Assunta. Cercò di sorridere, ma singhiozzava in lacrime. Non se lo ricordava bello, invece eccolo lì, bellissimo, possente benché più magro, una scintillante oscurità negli occhi ambrati. Lei aveva riavuto il suo uomo, tante altre donne non avrebbero mai più rivisto i loro. Che Dio la perdoni per essersi goduta la sua assenza.

    Lui la baciò sulle guance, prima a sinistra e poi a destra. Aveva la barba lunga di giorni. «Questa è mia figlia?» le domandò. Le stampò un bacio su una guancia. «Mariastella, mia figlia.»

    Stella si girò e nascose il viso nel petto di Assunta. Rosa ridacchiò e afferrò il braccio di Antonio così che si chinasse per baciare anche lei. «È timida» gli spiegò, «però è tanto contenta che sei a casa. Non è vero, Stella, stellina mia?» La piccina guardò di sottecchi la zia, ma suo padre no, non voleva. «È tutta la mattina che parla di te, Fra poco vedo il mio papà, dov’è il mio papà?, non è vero, Stella?» Proprio il genere di menzogne che raccontano le zie.

    I Fortuna vissero come una famiglia per cinque giorni.

    Quando Antonio tornò a casa, pranzarono tutti insieme da Maria, insieme alle donne dei Mascaro, a Nicola e la sua famiglia. Antonio era silenzioso e bevve parecchio durante il pranzo, poi si appoggiò pesantemente al braccio di Assunta durante la salita verso l’appartamento. Non appena entrarono, chiuse la porta a chiave e la spinse sul letto. Le sollevò la gonna e la possedette senza nemmeno levarsi i calzoni. Lei, sorpresa, non era pronta né lubrificata, perciò per consumare l’atto ci volle più tempo di quanto ricordasse. All’improvviso il primo anno di matrimonio le sembrò un secolo prima, in un mondo e una vita dimenticati.

    Assunta sopportò in silenzio, la mente torturata dal pensiero che la piccola Stella li stesse guardando, che dovesse fermare il marito ma che al contempo non potesse, considerato che era stato via tre anni e mezzo, che aveva atteso a lungo, che era suo dovere. Si era abituata alla propria castità al punto che non le era nemmeno passato per la testa che avrebbe dovuto concedersi al marito nella stessa stanza in cui dormiva la figlia. Da adesso in poi sarebbe stato sempre così? Si girò verso la parete, cercando di evitare i penetranti occhi spalancati di Stella.

    Una volta finito, Antonio si addormentò di sasso, tanto che Assunta si divincolò a fatica dal peso delle sue gambe per sfilargli gli stivali. Trascorse il pomeriggio a pulire e a intimare a Stella di giocare in silenzio. Non ce n’era bisogno, però, perché nulla avrebbe potuto svegliare suo marito.

    Il secondo giorno, Antonio dormì. In tanti andarono a porgere i propri saluti, volevano baciarlo e dargli la loro benedizione, piangevano e gli facevano domande sui loro figli o altri conoscenti che a casa non erano tornati. Assunta giunse alla conclusione che per lui quelle manifestazioni di affetto dovessero risultare terribili. Chiuse porta e finestre con il chiavistello per dissuadere eventuali visitatori. Qualcuno, ovviamente, bussò lo stesso. Lei allora apriva la parte superiore dell’uscio e diceva loro di andarsene. «Domani» sussurrava, «pure dopodomani.» Nel frattempo cucinava, così che quando suo marito si fosse svegliato affamato, avrebbe potuto servirlo subito. Non aveva pane – niente farina nemmeno quell’inverno – e pensò agitata a come preparare una minestra con la scorta di patate avvizzite e frutta secca. La piccola Stella la osservava cupa: comprendeva l’importanza di quell’incombenza.

    Il terzo giorno a Ievoli, Antonio era pronto per rimettersi in marcia. «Andiamo a Nicastro» comunicò alla moglie. Aveva ricevuto l’indennità di servizio, rimediando un significativo gruzzoletto, e aveva già deciso come spenderlo.

    Era giovedì, e per essere inizio dicembre non faceva nemmeno tanto freddo. Assunta non capiva perché dovessero andare a Nicastro, ma adesso che aveva di nuovo un marito, da brava cristiana qual era, ritenne suo sacro dovere obbedire. «Porterò la bambina da mia madre.»

    «No, Mariastella deve venire con noi» rispose lui. Era anche lei parte della commissione da sbrigare. «Vestila.»

    «Non riesce a farla tutta a piedi» protestò Assunta. Nicastro distava almeno un paio d’ore di cammino; lei stessa ci era stata due volte in vita sua. Pensò agli ampi viali fiancheggiati di palme e agli strani uomini seduti nei bar lungo il corso. Un luogo terrificante per una bambina.

    «La porto io.»

    Un ritratto di famiglia, ecco che cosa aveva in mente Antonio. Era diventata un’ossessione per lui durante i giorni nevosi sulle Alpi. Alcuni uomini avevano delle fotografie, e terminata la guerra Antonio si ricordava che faccia avessero le mogli dei suoi compagni, ma non la sua. Aveva deciso che, quando avevi una famiglia, dovevi avere qualcosa dei tuoi cari da mostrare.

    Il ritrattista di Nicastro ricevette i Fortuna anche se non avevano preso appuntamento, Antonio non ci aveva pensato. A gente come lui, bifolchi dei paesini di montagna che si presentavano nel suo negozio e sapevano che cosa sarebbe accaduto lì dentro solo per sentito dire, il fotografo ci era abituato. Tra i giovani andati in guerra e gli emigranti salpati per le Americhe, le persone avevano bisogno di ricordi per non dimenticare e ora, nonostante le privazioni degli ultimi anni, i suoi affari andavano a gonfie vele.

    Molti di quelli che andavano da lui erano poveri, e parevano trasandati perfino con indosso i loro abiti migliori, per questo teneva un baule di vestiti a portata di mano, quattro da donna in diversi colori e taglie, due completi da uomo e un sacco di cosine per bambini, dato che a volte si presentava la famiglia al completo. Non chiedeva nessun extra per i costumi; pur dipendendo dal soggetto piuttosto che dalla qualità dell’immagine, non voleva che i suoi clienti si lamentassero perché la fotografia era venuta male. Mostrò ai Fortuna come mettersi in posa e suggerì loro di fare del proprio meglio per tenere ferma la bambina; avrebbero avuto un solo scatto a disposizione.

    La fotografia sarebbe stata pronta la settimana successiva. Antonio poteva pagare una parte subito e saldare il resto al ritiro, oppure poteva versare l’intera somma e con una maggiorazione farsela consegnare direttamente a casa, ma il ritrattista lo avvisò che correva il rischio di aspettare più a lungo, perché dipendeva da quando avesse avuto abbastanza ordini da giustificare un viaggio in montagna. Antonio scelse la prima opzione; visto che esisteva un’alternativa, benché scomoda, non era il tipo da buttare via soldi.

    L’indomani, trascorsi quattro giorni dal ritorno di Antonio, dopo pranzo i Fortuna si avviarono verso Tracci per andare in visita alla sua famiglia. Aveva chiesto ad Assunta di impacchettare il regalo che avevano comprato a Nicastro, un vaso per le conserve della famosa ceramica bianca di Squillace, dipinto con fiori e foglie color ocra, giallo e verde, e di qualsiasi altra cosa avesse bisogno per passare la notte fuori. Tracci distava un’ora di cammino da Ievoli, e Assunta avrebbe preferito rincasare dopo cena, ma di recente i briganti avevano creato problemi, inoltre mai avrebbe voluto esporre la figlia ai malefici venti notturni che portavano malattie come il colera. Solo i malintenzionati bazzicavano in giro dopo il tramonto, respirando quell’aria venefica con cui poi avrebbero infettato altri, e lei era una persona per bene.

    Durante il tragitto, ripeté a mente cosa avrebbe potuto dire alla madre di Antonio, che conosceva a malapena. Mariastella Callipo era andata a trovare lei e Stella a Ievoli solo una volta in tempo di guerra. Era stato un momento imbarazzante; Assunta trovava difficile comunicare con quella donna più vecchia di lei, che le pareva troppo rigida. Benché non fosse vedova, vestiva sempre di nero, perfino nei giorni di festa. Assunta considerava arretrata l’austera modestia cristiana che trasmetteva, eppure sapeva che invece avrebbe dovuto ammirarla. Mariastella Callipo obbligava le figlie a comportarsi come lei; quando Assunta pensava alla famiglia di Antonio, si immaginava sempre madre e figlie in fila con gli stessi identici vestiti e veli neri che avevano indossato anche al suo matrimonio, perfino la piccola Mariangela, che le aveva fatto da damigella.

    Tre anni dopo, in quel pomeriggio di dicembre del 1918, Assunta, Antonio e la piccola Stella arrivarono a Tracci nel bel mezzo della siesta pomeridiana, quando le strade erano deserte e silenziose, a parte per i rumori attutiti che provenivano dalle cucine mentre le donne rassettavano: lo sciaguattio e i colpi e il raschio che filtravano dagli scuri di legno delle finestre chiuse.

    La suocera di Assunta impiegò un bel po’ ad andare ad aprire la porta. Era una donna alta, sulla quarantina, la fronte segnata da solchi profondi e lo sguardo sempre obliquo. Dall’ultima volta, le erano venuti tutti i capelli bianchi.

    «Oh, sei tornato» disse ad Antonio. Gli porse la guancia per ricevere un bacio, poi fece loro cenno di entrare e infine, senza aggiungere altro, si sedette al tavolo e riprese a ricamare. Assunta era sconcertata da quell’incontro così freddo. Dopo che il figlio, carne della sua carne, era stato in guerra per anni? Non aveva temuto anche lei per la sua vita, non aveva pregato per lui ogni giorno?

    La casa dei Fortuna era vecchia, di quelle che non vengono più costruite a causa della scarsa ventilazione, il soffitto talmente basso che Assunta riusciva a toccarlo. La sola finestra dava sulla strada. Sul letto che occupava per me­tà l’unico locale stava seduta una ragazza che cullava una neonata sulle ginocchia. Assunta riconobbe Mariangela, la sorella di Antonio, che adesso doveva avere quasi tredici anni. Lui la baciò sulle guance e toccò la testa della piccola, poi uscì a cercare suo padre nel giardino sottostante.

    Assunta scartò la ceramica di Squillace e la mostrò alla suocera, che posò il ricamo giusto il tempo di sistemarla su una mensola. Poi, a disagio per il prolungato silenzio, aggiunse: «Avete visto com’è cresciuta la mia Mariastella?».

    Era l’imbeccata alla bambina perché si pavoneggiasse un po’, ma lei era timida. Le afferrò la gonna con entrambe le mani e quella prese a girarsi e rigirarsi sul posto, lo sguardo fisso sul pavimento.

    «Stella, vai a salutare tua nonna» la incalzò Assunta. «Puoi andare a darle un bacino?»

    Lei obbedì e raggiunse l’estremità opposta della stanza; la nonna si chinò per ricevere sulla guancia le scintillanti labbra umide della bambina. «Lo sai» spiegò Assunta alla figlioletta mentre tornava di corsa al sicuro da lei, «che tu ti chiami proprio come la nonna Mariastella, questa nonna qui?»

    Stella si infilò un dito in bocca per nascondere la propria ritrosia. La nonna le rivolse qualche cenno, ma si muoveva a scatti; Assunta provò una fitta di compassione per quella donna indurita dall’età che era tanto goffa, perfino con i nipoti.

    «E questa è tua zia Mariangela» continuò, prendendo la figlia per le spalle e facendola voltare verso l’adolescente e la neonata. «Non ci dici ciao alla tua zia?»

    «Ciao, zia» obbedì Stella.

    Mariangela sorrise. Aveva i capelli unti e il collo e la fron­te pieni di foruncoli rossi, ma i grandi occhi scuri erano bel­li, pensò Assunta.

    «E lei come si chiama?» domandò, indicando la neonata, che immaginò avesse tre o quattro mesi.

    «Angela.»

    «Oh, quasi come te» commentò Assunta, domandandosi perché avessero dato più o meno lo stesso nome a tutte le figlie. «Stella, la vedi quella piccina? È tua zia Angela. Non ti fa ridere che hai una zia più piccirija di te?»

    Stella rise, dopodiché nascose il viso nella gonna della madre. Assunta le prese la testolina rotonda tra le mani, avvertendo il calore che si irradiava dalla cute. «Non devi avere vergogna» le disse. «Vedi che prima o poi tua zia Angela diventa grande e così potete giocare assieme.»

    «No, non Angela

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