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Fondente come il cioccolato (eLit): eLit
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Fondente come il cioccolato (eLit): eLit
E-book338 pagine4 ore

Fondente come il cioccolato (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Mi è capitato, di tanto in tanto, di essermi lasciata rimorchiare, giusto perché è piacevole desiderare ed essere desiderata, nonostante sia consapevole che è tutta una finzione e che alla fine gli uomini mi deludono sempre.
Lui, no! Non sono neanche arrivata a provare delusione perché non ha neppure tentato un approccio. Non ha voluto neppure sapere il mio nome.
L'ho incontrato in un negozio di dolciumi e lui ha fatto una battuta rivolta al mio sacchetto di praline al cioccolato ricoperte di zucchero glassato verde. Da allora non faccio altro che pensare a lui, sta diventando una ossessione. Forse la causa è la mia scarsa vita sociale, dunque ho preso la decisione di uscire più spesso e ho accettato l'invito della mia amica Marcy a passare una serata insieme.
Peccato che alla fine della serata la mia ossessione si sia tramutata in una irrefrenabile voglia di possessione!
LinguaItaliano
Data di uscita2 gen 2019
ISBN9788858996836
Fondente come il cioccolato (eLit): eLit
Autore

Megan Hart

Autrice di numerosi romanzi, tra cui i fortunati Fondente come il cioccolato, Notte di piacere e Inseparabili, editi da Harlequin Mondadori è una delle stelle più brillanti nel firmamento della letteratura erotica. Vive nei boschi della Pennsylvania con il marito e due figli.

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    Anteprima del libro

    Fondente come il cioccolato (eLit) - Megan Hart

    1

    Ci conoscemmo casualmente, in modo assolutamente banale e fortuito.

    Lo vidi per la prima volta in un negozio di dolciumi. Si girò e mi sorrise. Io rimasi così stupita che ricambiai il suo sorriso.

    Non era un negozio di caramelle per bambini e neanche una normale pasticceria. Era una bottega artigianale di lusso che vendeva cioccolatini e dolciumi di marca, molto raffinati. Non ci si entrava certo per comprare un lecca lecca o un sacchetto di gelatine di frutta assortite; era il posto in cui si potevano trovare i tartufi francesi, il cioccolato belga e costose confezioni regalo per stupire la moglie del capo, in modo da alleviare i sensi di colpa dopo essersi rotolate tra le lenzuola con lui durante una trasferta di lavoro.

    Lui stava comprando delle caramelle di liquirizia morbide. Guardò il sacchetto trasparente che avevo in mano, pieno di praline al cioccolato ricoperte di zucchero glassato verde.

    «Sa cosa dicono delle caramelle verdi?» disse inaspettatamente in tono malizioso, mentre io cercavo di resistere al suo fascino impudente.

    «Che si comprano per festeggiare il giorno di San Patrizio» risposi io prontamente. Almeno era per quel motivo che le stavo acquistando.

    Lui scosse la testa. «No» ribatté, in maniera scherzosamente solenne. «Che fanno arrapare.»

    Ero stata abbordata un sacco di volte, per lo più da uomini convinti che quello che avevano tra le gambe compensasse abbondantemente ciò che scarseggiava all’interno del loro cranio. Di tanto in tanto mi lasciavo rimorchiare, giusto perché era piacevole desiderare ed essere desiderata, nonostante fosse tutta una finzione e finissi quasi inevitabilmente per restare delusa.

    Comunque mi rifiutai di mostrarmi scandalizzata.

    «È una leggenda metropolitana creata da adolescenti in piena tempesta ormonale» dichiarai senza scompormi.

    Le sue labbra s’incurvarono ancora di più verso l’alto. Forse il suo sorriso luminoso era la caratteristica più degna di nota nel suo volto dai lineamenti regolari, quasi anonimi. Aveva i capelli dello stesso colore della sabbia bagnata e occhi di un verdazzurro torbido, paludoso. Era carino, ma il sorriso lo rendeva decisamente affascinante.

    «Bella risposta» approvò.

    Mi porse la mano. Quando gliela strinsi, mi attirò leggermente verso di sé. Io feci un passo esitante in avanti e lui si piegò verso il mio orecchio.

    «Le piace la liquirizia?» sussurrò. Il suo respiro caldo sulla mia pelle mi provocò un brivido.

    «Sì» risposi senza fiato, con un filo di voce, come se avessi confessato un vizio peccaminoso.

    Mi tirò verso un barattolone di vetro con il coperchio di latta, pieno di caramelle di liquirizia e con un canguro sull’etichetta.

    «Ne provi una. Vengono dall’Australia.»

    Infilò una mano nel barattolo, prese una caramella e me la portò alle labbra. Io aprii la bocca e sporsi appena la punta della lingua senza protestare, anche se c’era un vistoso cartello che vietava ogni assaggio. Lui mi sfiorò le labbra con i polpastrelli imboccandomi.

    Il sapore della liquirizia si spalmò sulla mia lingua, fragrante, dolce e appiccicoso. Lui sorrise soddisfatto.

    «Conosco un posticino» continuò, e io lasciai che mi ci portasse.

    Il pub, in finto stile inglese, si chiamava Il lupo e l’agnello e aveva un’insegna che raffigurava un lupo assetato di sangue che sbranava un agnellino indifeso. Era tutto un programma. Se poi si aggiungeva il fatto che si trovava in un vicolo scuro del centro di Harrisburg, non ci voleva niente ad associarlo a Jack lo Squartatore.

    Ma io non avevo paura. Anzi, ero incuriosita, divertita e, sì, anche eccitata.

    Il locale era grazioso, ancor più perché era un posto sui generis rispetto ai bar pretenziosi, alle discoteche trendy e ai ristoranti sofisticati che riempivano il quartiere. Era un pub senza pretese, informale e dall’ambiente rilassante.

    Quando entrammo, c’era un gruppo di scalmanati studenti universitari che cantavano al karaoke. Per tenerci lontani da loro, ci sedemmo al bancone. Il mio sgabello dondolava un po’ e dovetti sorreggermi al bordo del bancone per riprendere l’equilibrio dopo essermi seduta. Ordinai un margarita.

    «No» mi bloccò lui scuotendo la testa. «Prenda un whisky.»

    «Non ho mai bevuto whisky.»

    «Una vergine? Meglio.»

    Se il commento l’avesse fatto un altro, avrei alzato gli occhi al cielo e l’avrei reputato patetico. Sulle sue labbra, invece, suonava giusto.

    Ordinò un whisky di marca per tutti e due e trangugiò il suo in un sorso solo. Anche se non sono una bevitrice di whisky, sono abituata all’alcol e lo imitai senza batter ciglio. Dopo l’iniziale bruciore nella gola e nello stomaco, il gusto del liquore raggiunse le mie papille gustative. Sapeva di foglie bruciate in una stufa, di un ambiente intimo, caldo, persino un pochino romantico.

    Gli s’illuminò lo sguardo. Era compiaciuto. «È bello vedere che lo butta giù tutto in gola» commentò con voce roca.

    «Un altro?» chiese il barista.

    «Un altro» acconsentì lui, prima di rivolgersi a me. «Molto bene.» Annuì.

    Il suo complimento mi fece piacere, anche se non capivo perché fosse tanto importante la sua approvazione.

    Rimanemmo lì a bere per un po’. Forse il whisky mi stava dando alla testa, oppure era la compagnia di quell’affascinante sconosciuto a rendermi tanto effervescente da ridacchiare per i suoi commenti sugli altri avventori.

    La donna in serioso tailleur che sorbiva un tè in un angolo era in realtà una prostituta sadomaso in pausa; l’uomo in giubbotto di pelle che beveva birra commerciava in casse da morto usate; il barista era un coltivatore di caramelle.

    «Le caramelle non si coltivano» precisai io, piegandomi verso di lui.

    «No?» Sembrava deluso che non stessi al gioco.

    «No.» Lo guardai dritto negli occhi. «Si trovano sugli alberi.»

    Lui rise di gusto, rovesciando la testa all’indietro. In quell’istante lo invidiai per la capacità di abbandonarsi all’impulso di fare una risata fragorosa. Io avrei avuto paura di essere osservata.

    «E tu? Tu chi sei?» mi chiese in un sussurro complice.

    Fui contenta che avesse abbandonato il più formale lei senza chiedermi il permesso.

    «Io sono una contrabbandiera di praline» bisbigliai con le labbra rese insensibili dal liquore.

    Stese una mano e si girò intorno a un dito una ciocca dei miei capelli che era sfuggita dalla treccia. «Non sembri tanto pericolosa.»

    Ci guardammo per un lungo istante. Eravamo estranei, ma ci sorridemmo con un’intimità complice.

    «Ti va di accompagnarmi a casa?» gli proposi.

    Lui accettò.

    Quella sera non tentò di fare l’amore con me, il che non mi stupì. Non cercò neppure di mettermi le mani addosso, e questo invece mi stupì. Non mi diede neanche un bacio, anche se indugiai sulla porta mentre cercavo le chiavi e continuai a chiacchierare e a sorridere ancora qualche minuto per dargli modo di decidersi.

    Non mi chiese come mi chiamavo e non volle neanche il mio numero. Mi mollò sulla soglia e io lo seguii con lo sguardo, stordita dal whisky, mentre si allontanava. Quando non riuscii più a distinguere la sua sagoma sotto i lampioni, entrai in casa.

    La mattina dopo, ripensai a lui mentre facevo la doccia. Lavandomi i denti mi avvicinai allo specchio e cercai d’immaginare come avesse visto i miei occhi.

    Da vicino erano azzurri con delle pagliuzze dorate. Molti mi dicevano che erano belli, forse perché dire a una donna che ha dei begli occhi è un primo approccio innocuo, utile per cercare di capire se si potrà arrivare a metterle una mano su una coscia. Lui non vi aveva fatto caso, invece. Anzi, non mi aveva proprio fatto complimenti, se non per il modo in cui avevo bevuto il whisky.

    Pensai a lui mentre mi vestivo per andare al lavoro. Indossai dei semplici slip bianchi di cotone, comodi e pratici come il reggiseno abbinato, con appena un bordino di pizzo per ingentilire il completo, una gonna nera appena sopra il ginocchio e una camicetta bianca. Vestivo quasi sempre di bianco e nero perché era più facile scegliere cosa mettermi, ma anche perché mi tranquillizzavano la semplicità e la purezza di quei colori non-colori.

    Continuai a pensare a lui in autobus, seduta composta con gli auricolari nelle orecchie per impedire che qualcuno attaccasse discorso con me. Contai le fermate, come sempre, e sorrisi al conducente, come ogni mattina.

    «Buona giornata, signorina Kavanagh» mi salutò.

    «Grazie, Bill.»

    Pensai a lui mentre entravo in ufficio con cinque minuti esatti d’anticipo.

    «Oggi è in ritardo di un minuto» scherzò il custode, Harvey Willard.

    «Colpa dell’autobus» risposi sorridendo, anche se in realtà il motivo del mio ritardo era la mia distrazione, che mi aveva rallentato il passo.

    Salii sull’ascensore, arrivai al mio piano, percorsi il corridoio, entrai in ufficio e mi sedetti alla scrivania. Non c’era niente di diverso eppure, tutto mi sembrava cambiato. Neanche le colonne di cifre che mi fissavano dallo schermo del computer riuscirono ad attirare la mia attenzione.

    Quell’uomo era un rebus che mi assorbiva completamente, privandomi della capacità di concentrazione. Non conoscevo il suo nome e non gli avevo detto come mi chiamavo. Pensavo che sarebbe stato tutto più semplice conservando l’anonimato; saremmo stati solo due estranei intenti a soddisfare un bisogno reciproco attraverso la seduzione, senza il bisogno di complicarla con le rispettive generalità.

    In ogni caso non mi piaceva che gli uomini sapessero chi fossi. Potermi chiamare per nome dava loro un potere che non meritavano; sussurrarlo mentre erano in preda agli spasimi dell’orgasmo cementava quell’attimo nel tempo e nello spazio. Se dovevo proprio presentarmi, davo un nome falso e quando lo gridavano al culmine dell’estasi mi scappava un sorriso.

    Invece ora era tutto diverso. Ero distratta, inquieta, scombussolata. Quando arrivò l’ora di pranzo non ero ancora riuscita a relegare quell’uomo in un cantuccio della memoria.

    «Serata piccante ieri?» mi chiese Marcy.

    Marcy Peters era una donna con capelli lunghissimi e gonne cortissime. Era il tipo che si considerava sempre una ragazza, che indossava invariabilmente i tacchi alti con i jeans troppo stretti e camicette sbottonate a rivelare la scollatura.

    Bevve un sorso di caffè mentre mangiavamo il panino del pranzo.

    «Come sempre» risposi.

    Ridemmo insieme sommessamente, due amiche legate non da interessi comuni o caratteri simili, ma perché la nostra alleanza ci proteggeva entrambe dagli squali con cui lavoravamo.

    La tattica di Marcy, per difendersi dai suddetti squali, passava per la sua femminilità esasperata ed esibita. La sua arma era il suo essere donna con la D maiuscola, potente, intrigante, seducente all’ennesima potenza, una bionda prosperosa a cui non dispiaceva sfruttare i propri attributi per ottenere ciò che voleva.

    Io preferivo un approccio più discreto.

    Marcy rise per la mia risposta perché la Elle Kavanagh che conosceva non aveva una vita mondana degna di nota. La Elle Kavanagh che era sua amica, vicedirettore dell’ufficio contabilità societaria, avrebbe fatto sembrare una pornostar anche una bibliotecaria con la crocchia e gli occhiali spessi. Marcy non sapeva niente di me e della mia vita fuori delle quattro mura dell’ufficio.

    «Hai saputo l’ultima sulla contabilità di Flynn?» mi chiese ammiccante.

    Questo per farvi capire che non ci scambiavamo confidenze piccanti. A pranzo si parlava sempre di pettegolezzi di lavoro.

    «No» risposi per farla contenta.

    «La segretaria di Flynn ha mandato a Bob il file sbagliato.» Marcy fece una pausa a effetto, fissandomi con aria divertita. «Sembra che gli abbia inoltrato il file delle spese private, non quelle aziendali.»

    «E allora?»

    «Flynn ha l’abitudine di segnare tutto quello che spende in donne, liquori e regalini alle amichette!» esclamò Marcy, trionfante.

    «Povera segretaria!»

    «Bob però non l’ha detto a Flynn, perché la segretaria se la fa con lui.»

    Questa sì che era una notizia inaspettata. «Bob Hoover?»

    «Già, c’è da non crederci!»

    «Ma, per me si può credere tranquillamente tutto di tutti. La maggior parte delle persone non va troppo per il sottile quando si tratta di portarsi a letto qualcuno» osservai con sincerità.

    «Dici?» Mi guardò con interesse. «E tu che ne sai?»

    «Pura speculazione.»

    Scrollai le spalle e mi alzai per buttare i rifiuti. Marcy continuò a fissarmi incuriosita. Io le feci un sorriso pudico, lasciandola a meditare sulla mia misteriosa vita sessuale.

    Ero convinta che in fatto di sesso la gente fosse meno schizzinosa di quanto avrebbe voluto far credere. Bellezza, intelligenza, spirito, ricchezza, potere... non molti avevano tali doti e pochissimi ne avevano più di una. Eppure i grassi, i brutti e gli stupidi facevano sesso ugualmente, anche se sui giornali si parlava solo della vita intima di attori, cantanti, politici e celebrità. Anche le donne scialbe trovavano qualcuno che togliesse loro le mutandine.

    Almeno per me era così.

    Oddio, a essere precisi era così fino a tre anni fa, perché da allora ho smesso di cercare. Il giorno in cui ho comprato le praline verdi, non cercavo di farmi rimorchiare.

    Allora perché avevo accettato il suo invito e mi ero fatta accompagnare a casa, per poi restare mortalmente delusa quando mi aveva salutato e mi aveva piantato sulla porta senza neanche un bacio?

    Il fatto che non volessi farmi abbordare non faceva che esacerbare il mio tormento segreto.

    Se l’avessi conosciuto in un bar invece che nel paradiso della glicemia, se avessi avuto i capelli sciolti e la camicetta sbottonata, mi avrebbe chiesto di farlo entrare a casa mia e nel mio corpo? Mi avrebbe baciato sulla soglia?

    Non l’avrei mai saputo.

    Per tutta la giornata pensai a lui, e anche il giorno dopo. Il desiderio crebbe nella mia mente, il suo pensiero consumava ogni momento di veglia e s’insinuava nei miei sogni agitati.

    Non facevo che guardarmi allo specchio, per cercare di capire cos’avesse visto in me che l’aveva indotto a portarmi al bar ma non a letto. Forse l’avevo deluso? Avevo detto qualcosa di sbagliato, rivelato un difetto imperdonabile, riso troppo o non abbastanza?

    Mi rendevo conto di essere ossessiva e ossessionata. Ripassavo mentalmente ogni attimo del nostro incontro, mi recitavo le battute, rivedevo gli sguardi, i sorrisi. Non riuscivo a dimenticare il suo respiro caldo quando mi aveva sussurrato all’orecchio, né il breve contatto della sua mano sulla mia quando si era congratulato con me per aver trangugiato il whisky in un sorso solo.

    Non potevo dimenticare il lampo malizioso che era apparso per un istante nei suoi occhi color del mare tropicale, la fossetta deliziosa che aveva sul mento e la spruzzata di minute lentiggini sul naso e sugli zigomi, la sua voce profonda, la sua risata che mi aveva avvolto come miele caldo e mi aveva fatto venire voglia di appoggiarmi e strofinarmi contro di lui, facendo le fusa come una gattina.

    L’ultima volta che avevo rimorchiato un uomo in un bar e me l’ero portato a casa, era così ubriaco che si era messo a piangere dopo aver eiaculato sulla mia gonna, poi mi aveva insultato e mi aveva ordinato di soddisfarlo in cambio dei cocktail che mi aveva offerto.

    Era stato un disastro, l’ultimo di una lunga fila di incontri fallimentari con ragazzi che non sapevano cosa fare dell’appendice che avevano tra le gambe, uomini convinti che infilarmi un dito dentro per due secondi contasse come preliminari, giovani yuppies educati che si trasformavano in bastardi maniaci appena varcata la soglia.

    L’astinenza era stata quasi una scelta forzata, il minore dei due mali. Avevo sfidato il mio desiderio, decidendo di riservarlo solo a chi ne valesse la pena; poi la sfida era diventata abitudine. Il giorno in cui avevo incontrato lui nel negozio di dolciumi non facevo sesso da tre anni, due mesi e dieci giorni.

    Ora invece non facevo che pensare al sesso, ossessionata dai ricordi dell’affascinante sconosciuto che aveva riacceso i miei sensi. Sentivo il desiderio pulsarmi tra le gambe quando le accavallavo, i capezzoli turgidi che si strofinavano contro il reggiseno in modo eccitante, le mutandine che tiravano. Avevo voglia di accarezzarmi, dovunque mi trovassi.

    Ero eccitatissima; forse era colpa delle praline verdi.

    I miei abbordaggi, in passato, non contemplavano in alcun modo la passione o i sentimenti. Cercavo uomini solo per riempire un vuoto, per scacciare le nuvole nere che mi gravavano sull’anima. Andavo nei bar e in discoteca, accettavo inviti alle feste, rimorchiavo anche al parco e al supermercato per poter dimenticare i miei pensieri per un’ora o due. Il sesso era una scelta terapeutica per calmare una sofferenza interiore. Era un’attività programmata, quasi uno sport. Sapevo perché lo facevo, conoscevo il motivo per cui esteriormente sembravo una bibliotecaria ma mi comportavo come una puttana.

    In passato, in realtà, non mi era importato. Avevo conosciuto degli uomini che mi avevano fatto ridere, sospirare, divertire, e pochissimi che mi avevano anche fatto venire. Ma non ne avevo mai conosciuto uno che non riuscivo a dimenticare.

    Per due settimane percorsi le mie giornate barcollando come fossi ubriaca; ero deconcentrata e i miei gesti erano automatici, spinti più dalla forza dell’abitudine che da una reale consapevolezza. La mia efficienza sul lavoro non ne era penalizzata, solo perché avevo una scioltezza istintiva con i numeri. Tutto il resto, invece, ne risentiva; dimenticavo di pagare le bollette, di ritirare gli abiti in lavanderia, di mettere la sveglia e di comprare il latte. Non avevo mai trovato tante confezioni scadute nel mio frigo senza accorgermene.

    Era primavera, ma le giornate erano ancora corte e quando tornavo a casa in autobus era buio. Compivo il tragitto fino al mio solito posto in fondo, sedevo con il cappotto piegato ordinatamente sulle ginocchia, le gambe accavallate e la valigetta portadocumenti ai piedi. Mentre guardavo fuori del finestrino immaginavo il suo viso, ripensavo al suo respiro, fantasticavo sulle sue carezze.

    Una sera mi accorsi che ero eccitata. All’inizio premetti forte le cosce l’una contro l’altra, aiutata dall’ondeggiare dell’autobus che mi provocava un leggero attrito. Poi cominciai a stringere e allentare ritmicamente i muscoli delle cosce, muovendo leggermente i fianchi, nascosti dal cappotto. Avevo le mani intrecciate in grembo e l’aria composta, indifferente. Se qualcuno mi avesse guardato non avrebbe potuto capire cosa stessi facendo.

    Continuavo a muovermi impercettibilmente, stringendo le cosce, mentre una deliziosa tensione mi si accumulava nel ventre. Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro mentre tenevo lo sguardo fisso sul finestrino. Vedevo riflesso il mio viso imperturbabile, in un’alternanza di luce e oscurità mentre passavamo davanti ai lampioni.

    Tenevo le dita strette in maniera spasmodica, intrecciate, e muovevo il piede in su e in giù, serrando le cosce e strofinandomi pian piano. Desideravo disperatamente toccarmi, muovere le dita in piccoli cerchi e poi infilarmele dentro mentre l’autobus filava veloce verso la sua destinazione, ma non osavo arrivare a tanto. Con pazienza, lentamente, mi muovevo e stringevo la piccola protuberanza dura tra le gambe, che reclamava attenzioni, sempre più vicina all’orgasmo.

    Tremavo per lo sforzo d’impormi di restare immobile quando invece avrei voluto agitarmi e spalancare le gambe. Non mi era mai capitato prima di abbandonarmi a quel furtivo balletto masturbatorio. Mi toccavo quando ero sola a casa, a letto o nella vasca da bagno, senza perdere tempo, con rapida abilità, solo per procurarmi lo sfogo dell’eccitazione di cui avevo bisogno, per allentare la tensione provocata dalla mia astinenza forzata. Invece lì, sul sedile di plastica rigida, stavo precipitando verso il piacere quasi contro la mia volontà.

    Il pensiero dello sconosciuto, la mia astinenza e il movimento dell’autobus stavano cospirando contro di me e mi facevano ardere dentro un fuoco che solo l’orgasmo poteva spegnere. Un rivolo di sudore mi scese lentamente lungo la schiena, infilandosi nella fessura tra le natiche come il tocco leggero di una lingua che mi lambiva.

    Fu quell’immagine a scatenare il piacere. Mi tesi tutta in uno spasimo, conficcandomi le unghie nella carne, mentre un calore vibrante s’irradiava in tutto il corpo.

    Ebbi un lieve sussulto, più impercettibile di uno starnuto, e camuffai il trasalimento con un colpetto di tosse che non attirò l’attenzione dei pochi passeggeri dell’autobus semivuoto. Appagata e languida, mi abbandonai leggermente contro il sedile mentre l’autobus si fermava.

    Era la mia fermata. Scesi con le gambe tremanti, ma nessuno si voltò a guardarmi. Sollevai il viso verso la fresca aria notturna, verso la bruma umida che mi accarezzò le guance accaldate.

    Avevo avuto un orgasmo su un autobus pensando a lui, e non sapevo neppure il suo nome.

    Quell’episodio di piacere solitario e furtivo riuscì comunque a placare almeno temporaneamente la mia eccitazione. Riuscii a tornare a concentrarmi sulle cifre che mi riempivano la mente e scivolavano via scorrevoli nel loro flusso incessante di addizioni e sottrazioni. Mi buttai a capofitto nel lavoro, dedicandomi con zelo ai clienti. Non m’importava di fare tardi. E poi questo rinnovato impegno significava che non dovevo inventare scuse per restare in ufficio, se non c’era bisogno, e non dovevo scegliere tra tornare in una casa vuota o andare in un bar a mettere alla prova la mia forza di volontà.

    «Il sesso è come questo bignè» dichiarò Marcy un giorno a pranzo.

    «Cioè, è pieno di crema che t’impiastriccia e ti fa venire voglia di vomitare dopo che l’hai finito?» replicai.

    «Che razza di esperienze sessuali hai, Elle?» mi chiese, allarmata.

    «Nessuna, di recente.»

    «Mi sconvolgi.» Il suo tono però mi fece capire che si aspettava di avere davanti una monaca di clausura.

    «Dimmelo tu perché il sesso è come un bignè, allora.»

    «Perché è una tentazione che ti fa dimenticare i buoni propositi, ma ti soddisfa tanto che sei contenta di aver ceduto» sentenziò, leccando la crema.

    Io la guardai intensamente. «Ne deduco che ieri ti sei data da fare» insinuai.

    Lei assunse un’espressione fintamente innocente. «Chi, io?» trillò con una vocina ingenua.

    «Sì, tu. Siccome si vede che muori dalla voglia di raccontarmelo, smettila di perdere tempo e dimmi tutto prima che qualcuno si sieda al tavolo vicino, costringendoci a parlare di lavoro.»

    Marcy rise. «Non ero sicura che volessi sentire il mio racconto.»

    La scrutai. «Pensi davvero che non mi piaccia il sesso?»

    Lei mi sorrise con sincerità, ma per un istante il suo sguardo fu attraversato da un’ombra di compassione che mi fece accigliare.

    «Non lo so, Elle. Non ti conosco abbastanza da sapere se ti piace o no, ma hai l’atteggiamento di una a cui non importa di nulla tranne che del lavoro.»

    Sentirsi dire una cosa che già sapevo non avrebbe dovuto essere traumatizzante, invece lo fu. Mi vennero le lacrime agli occhi e mi si strinse lo stomaco quando mi resi conto che Marcy aveva ragione.

    Nonostante la sua aria da oca giuliva e i suoi abiti eccessivamente provocanti, Marcy era tutt’altro che stupida. Perciò capì al volo che ero turbata e mi strinse la mano in un gesto di simpatia e solidarietà.

    «Ehi, calma, abbiamo tutti i nostri punti deboli» sussurrò con dolcezza.

    Quella era l’occasione giusta per far diventare Marcy mia amica di diritto, amica intima, non conoscente. Era una mia caratteristica quella di fermarmi sempre sulla soglia delle esperienze, per poi ritrarmi invece di varcarla. Se capitava un momento in cui dire la verità mi avrebbe aperto una porta, io mentivo. Se un sorriso avrebbe creato un legame, io giravo la faccia. E in quel momento avevo modo di cambiare la natura del nostro rapporto e non lo feci, sorprendendo me stessa e probabilmente anche Marcy.

    Le sorrisi. «Raccontami di ieri sera» la pungolai.

    Mi accontentò e mi riferì tutto nei minimi dettagli, tanto da farmi arrossire. Quando fu ora di tornare al lavoro, mi fermò.

    «Una sera dovresti uscire con me» mi propose.

    «Certo.»

    Marcy emise un gridolino contento e mi abbracciò di slancio. Io m’irrigidii e lei si ritrasse. «Bene» approvò.

    «Bene» le feci eco.

    Il suo entusiasmo era contagioso. Era tanto tempo che non avevo un’amica e le confidenze di Marcy mi avevano messo di buon umore, ma la mia euforia svanì quando tornai a casa e notai che la spia luminosa della segreteria telefonica lampeggiava.

    Non ricevevo molte telefonate. Ogni tanto mi chiamava un medico per confermare o spostare un appuntamento, o qualcuno per vendermi dei prodotti. Oppure mi telefonavano mio fratello Chad e mia madre.

    Quando lessi sul display che c’erano quattro messaggi capii che doveva trattarsi di mia

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