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Neve a settembre (eLit): eLit
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E-book331 pagine4 ore

Neve a settembre (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Meg Williams ha perso il marito da meno di un anno. Il tragico incidente, che le ha lasciato un'eredità di sofferenze e recriminazioni, è stato un duro colpo anche per la figlia Allie. Quando, un mattino, la ragazzina scompare lasciando un biglietto d'addio, è naturale che Meg si rivolga allo sceriffo Earl Sanders, il migliore amico del suo defunto marito. Lui è deciso a non lasciar trapelare i propri sentimenti per Meg, ma mentre notti e giorni passano nell'ansia, cominciano a emergere sconvolgenti segreti...
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2018
ISBN9788858981344
Neve a settembre (eLit): eLit

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    Anteprima del libro

    Neve a settembre (eLit) - Rachel Lee

    successivo.

    1

    Appeso a un esile filo, il ragnetto marrone dondola va nel vento secco del Colorado.

    Meg Williams lo guardò con simpatia. Era così anche lei, sbattuta dai venti della vita, aggrappata a un filo, alla disperata ricerca di qualcosa di solido. Di stabile.

    Era un freddo mattino di montagna e Meg si era portata il caffè in terrazza. Aveva bisogno di qualche istante di pace prima di iniziare la giornata. Prima di affrontare sua madre e sua figlia.

    Con un sospiro, guardò il ragno allungare il suo filo. Ora il vento indifferente spingeva la piccola creatura fino a pochi centimetri dalla ringhiera. Meg si chiese se il ragno riuscisse a vedere quanto fosse vicino alla sicurezza, o se dovesse colpire il legno per capire d'essere arrivato.

    Dalla cucina giunse il rumore della padella che sbatteva sulla stufa. Sua madre si era alzata e stava preparando la colazione. Sarebbe stato il tipo di colazione con cui Meg era cresciuta: uova, pancetta, pane tostato. Troppo pesante e troppo ricca di grassi per lei, ma Vivian Clede restava fedele ad abitudini che aveva preso da giovane sposa in una fattoria del Nebraska. Era solita mettere in tavola tante calorie da soddisfare il vorace appetito di un bracciante, e poi si lamentava se Meg non finiva tutto quanto.

    Lei si sentì rovesciare lo stomaco all'idea delle uova fritte con la pancetta. Le sarebbero bastati un frutto e un paio di biscotti integrali, ma si consolò col pensiero che Allie, la sua figlia adolescente, aveva bisogno di proteine. Allie aveva un metabolismo iperattivo che le permetteva di mangiare qualunque cosa senza ingrassare di un grammo. L'aveva avuto anche Meg, tanto tempo prima.

    Finalmente il ragno sbatté contro la ringhiera e vi si aggrappò, giunto alla fine della folle discesa. Ora si sarebbe messo a tessere la sua tela tra due assi. Se riusciva a sopravvivere alla scopa di Vivian.

    Meg bevve un altro sorso di caffè e cercò di radunare le energie sufficienti a entrare in casa e iniziare la giornata. Era sabato e le sarebbe piaciuto passare un po' di tempo con la figlia. Ma se tutto fosse andato come al solito, Allie sarebbe uscita con gli amici subito dopo colazione, Vivian si sarebbe lanciata nelle pulizie di casa mentre lei sarebbe andata a fare la spesa settimanale al supermercato.

    La monotonia della routine aveva i suoi vantaggi, ma a volte le faceva venir voglia di piangere.

    La porta scorrevole alle sue spalle si aprì. «La colazione è in tavola» annunciò Vivian con un tono di disapprovazione che implicava che Meg avrebbe potuto cucinarsela da sé. Non che Vivian glielo avrebbe mai permesso. Nell'istante in cui si era trasferita da loro, aveva preso possesso della cucina. Per un po', Meg aveva tentato di aiutarla, ma niente di quello che faceva andava bene. Alla fine, aveva rinunciato.

    «Grazie, mamma» disse senza voltarsi. «Arrivo fra un attimo.»

    «Subito. Prima che si freddino le uova.» La porta scorrevole si chiuse con un'enfasi sorprendente, dato il suo peso. Magnifico. Vivian era di cattivo umore.

    Per un istante, per un feroce, orribile istante, Meg detestò suo marito perché era morto e l'aveva lasciata in quella situazione. Almeno, finché c'era stato lui Allie si era comportata bene e Vivian era rimasta in Nebraska.

    Con un gesto brusco gettò i fondi del caffè tra i rigogliosi cespugli sotto la terrazza, spaventando uno scoiattolo.

    «Scusa, amico» sorrise, quando lo scoiattolo si drizzò sulle zampe posteriori, guardandola indignato. «Non ti avevo visto.»

    Prese un paio di bei respiri di aria di montagna, raddrizzò le spalle ed entrò.

    Sentiva Vivian gridare ad Allie dal fondo delle scale che doveva tirarsi su dal letto e scendere a fare colazione immediatamente. Sabato mattina. Che allegria.

    Meg si stava riempiendo di nuovo la tazza quando sua madre tornò in cucina.

    «Devi sgridare quella ragazzina» esordì Vivian con severità. «Restare sveglia fino a tardi per dialogare con degli sconosciuti su Internet...»

    «È una chat room per ragazzi, mamma. Sotto la supervisione di adulti. Allie non fa niente di male.»

    «È già abbastanza grave il fatto che non dorma. È una ragazza in crescita.»

    «Ha quattordici anni. Mi sembra di ricordare che anch'io a quell'età ero capace di stare sveglia per tutta la notte.»

    «Ma io non te l'ho mai permesso.»

    «No.» Ma non significa che tu avessi ragione.

    «Le concedi troppa libertà, Meg.»

    «No, mamma, la lascio libera di trovare se stessa. Sta soffrendo. Il suo papà è morto otto mesi fa.»

    «E tu hai perso un marito e io un genero. Allie non ha l'esclusiva del dolore.»

    Meg si girò a guardare sua madre, sentendosi crescere dentro un'insofferenza che non osava esprimere. Invece, cercò di trovare in sé un sentimento d'affetto per la donna che l'aveva allevata.

    Vivian era piccola, robusta, coi capelli grigi e un naso aquilino che si protendeva in giù verso il mento. Per Meg era sempre stato un sollievo non aver ereditato il naso della madre. Aveva, sfortunatamente, ereditato la sua tendenza a ingrassare. Ogni giorno era una battaglia per restare nella taglia quarantaquattro, una battaglia che Vivian tentava di sabotare con le sue famose uova alla pancetta e il pollo fritto.

    «Siediti e comincia» le ordinò secca. «Allie mangerà le sue uova fredde.»

    Almeno, quel mattino non aveva preteso che lei salisse di sopra e trascinasse sua figlia fuori dal letto. Meg si sedette e mangiò un uovo e una fettina di bacon, il massimo che riuscì a buttare giù. Poi si appoggiò all'indietro contro la sedia, e sorseggiò il caffè guardando sua madre. Per fortuna lei aveva preso da suo padre, pensò, coi suoi lineamenti sorridenti, i capelli biondo miele e gli occhi verdi.

    Ogni tratto del viso di Vivian tendeva verso il basso. Era una donna dall'espressione amara, ed era stata così dalla morte del padre di Meg. Dopo tanto tempo, lei non riusciva a ricordare se sua madre fosse stata allegra quando lui era in vita. Non che avesse importanza. Erano infelici tutte e tre, ora.

    «Hai fatto una lista di quello che ti manca?» le domandò.

    «È attaccata al frigorifero, come sempre.»

    Un moto di irritazione le riempì il petto. Le costò uno sforzo rispondere con calma. «Quello che intendevo dire è se la lista è completa, mamma. C'è qualcosa che vuoi aggiungere?»

    «Scrivo tutto non appena mi viene in mente.»

    Ovviamente. Vivian era sempre superorganizzata.

    «Ti decidi o no a tirare giù dal letto quella ragazza?» le chiese poi.

    «Lasciamola dormire ancora un po', mamma. Se non si sarà alzata quando sarò tornata dal supermercato, la sveglierò.»

    «La vizi troppo, se vuoi il mio parere.»

    Meg si alzò e portò i piatti al lavandino, dove cominciò a sciacquarli prima di infilarli nella lavastoviglie.

    «Mi stai ascoltando, Margaret Mary?»

    Margaret Mary, il suo nome completo. Da sem pre, un segno di disapprovazione.

    «Ti ascolto, mamma.» Meg si voltò verso la donna. «Ti sento. Non ti ho risposto perché è ancora troppo presto per litigare questa mattina, accidenti!»

    «Non imprecare.»

    Meg infilò i piatti nella lavastoviglie rumorosamente. «Sono una donna adulta. Parlo come voglio e allevo mia figlia come mi sembra giusto, e se a te non sta bene, puoi sempre tornare a Monroe Corners.»

    «È questo il tuo grazie per essere venuta a prendermi cura di te dopo la morte di Bill? È questo il modo in cui tratti tua...»

    «Basta, mamma.»

    L'improvviso silenzio crepitava di tensione. Conscia che se solo avesse detto un'altra parola avrebbe provocato una rottura irreparabile, Meg afferrò la lista della spesa dalla porta del frigorifero, prese la borsa dal tavolo dell'ingresso e spalancò la porta.

    Si trovò davanti lo sceriffo Earl Sanders, il migliore amico di suo marito e padrino di sua figlia. Aveva la mano alzata come se fosse stato sul punto di bussare.

    La prima cosa che Meg notò fu che non era in uniforme, e un'involontaria ondata di sollievo le tagliò le gambe. Non era lì in via ufficiale per comunicarle un'altra terribile notizia. Lei non riusciva più a vedere Earl senza ricordare la sera in cui era venuto a dirle che Bill aveva perso la vita in un incidente stradale.

    Afferrandosi allo stipite, Meg si impose la calma. Era troppo tesa, pensò con un vago senso di disagio. Aveva delle reazioni eccessive.

    «Stai bene, Meg?» chiese Earl.

    Aveva una voce profonda che le aveva sempre ricordato il pigro ronfare di un felino. Una tigre o un leopardo. Meg aveva sentito quella voce schioccare secca come una frusta, quando era in collera, ma con lei aveva sempre usato un tono basso e pacato. Earl era un po' più alto della media, coi capelli bruni e gli occhi azzurri. Era in ottima forma fisica, grazie alla sua passione per la corsa, le escursioni e lo sci. Lui e Bill si erano arrampicati insieme su tutte le Montagne Rocciose del Colorado.

    «Sto bene» riuscì a dire con calma. «È stato solo un inizio di giornata stressante. Tu come stai, Earl?»

    «Sono stato meglio, ma anche peggio.» Un sorriso gli approfondì le sottili rughe agli angoli degli occhi. «Tu sembri piuttosto scossa, però.»

    «La mamma e io stavamo discutendo» borbottò, sperando di riuscire a convincerlo che fosse tutto lì.

    Earl annuì, ma il suo volto non rivelava nulla. «Sembri pronta a uscire. Sono passato solo per vedere come stavate.»

    Come aveva fatto una volta alla settimana da quando era morto Bill. «Grazie. Stiamo bene, davvero. Ce la caviamo.» Cavarsela era il massimo che potesse dire da quando era mancato Bill. Per lei, a volte, cavarsela era un grande trionfo morale. Avrebbe dovuto invitare Earl a entrare, ma non se la sentiva, non con sua madre col muso. Non voleva che lui vedesse quanta tensione c'era in quella casa.

    «Bene...» Earl annuì di nuovo, guardò verso il bosco di pini e le montagne incappucciate di neve più oltre. «Mi piace settembre. Senti, se non c'è niente che posso fare per te, forse posso convincerti a prendere un caffè con me.»

    Prendere un caffè con lui le avrebbe dato una scusa per restare fuori casa più a lungo, e quel mattino era ciò di cui Meg aveva bisogno. Si sentiva soffocare tra i malumori della madre e le bizze della figlia. Era come se ogni momento in cui non lavorava lo passasse a risolvere una crisi emotiva di Allie o di Vivian. Qualche volta si chiedeva quando le sarebbe stato concesso di avere una crisi propria.

    Autocommiserazione, Meg. Smettila.

    «Certo, con piacere» mormorò, e il sollievo rese più sincero il suo sorriso. «Andiamo.»

    «Con la mia macchina?» suggerì Earl, mentre scendevano i gradini di traversine ferroviarie che lui e Bill avevano costruito otto anni prima.

    «Meglio che ti segua con la mia. Devo andare a fare la spesa, dopo.»

    «Posso riaccompagnarti io dopo il supermercato, se vuoi.»

    Era un'offerta gentile. Era anche un'offerta che poteva suscitare pettegolezzi nella piccola cittadina mineraria di Whisper Creek. Non c'era voluto molto, a Meg, per capire che non erano pochi quelli convinti che una giovane vedova avesse bisogno di un uomo nel suo letto. Doveva stare molto attenta perché aveva una figlia adolescente. D'altra parte...

    «Non preoccuparti, Meg» disse Earl con fare pacato. «Lo sanno tutti che ero il migliore amico di Bill.»

    Lei lo guardò, sorpresa che la capisse fino a quel punto.

    Lui si strinse nelle spalle. «Conosco la gente. Sento i pettegolezzi. Difficile, per loro, poter dire qualcosa se beviamo un caffè insieme e ti riaccompagno a casa coi sacchetti prima di mezzogiorno.»

    Meg quasi rise, ma era un impulso così poco familiare che lo trattenne. Dio, quando era stata l'ultima volta che si era fatta una bella risata? Non c'era da stupirsi che Allie fosse diventata così difficile. Viveva con una madre che non sorrideva mai e con una nonna che non la smetteva di brontolare, in una casa oppressa da un'atmosfera di lutto.

    «Grazie, allora» mormorò. Una volta tanto, non sarebbe stata al volante nella curva che aveva ucciso Bill l'inverno prima.

    Il sole era tiepido, ma quando Meg scese nel vialetto di ghiaia sentì il respiro gelido delle montagne agitare pini e pioppi, e le venne la pelle d'oca. L'inverno era di nuovo dietro l'angolo, e lei si chiese se il ritorno della neve e del ghiaccio avrebbe fatto rivivere il suo dolore. Comunque fosse, dubitava che la prima nevicata l'avrebbe fatta entrare nello spirito natalizio com'era sempre stato.

    Era appena settembre, però, e i pioppi non avevano ancora cominciato a cambiare colore. Era presto per preoccuparsi dell'inverno.

    Earl guidava la sua macchina con la scioltezza di chi aveva percorso curve di montagna per tutta la vita. Malgrado la sua sicurezza, Meg cominciò a rilassarsi solo una volta che ebbero superato la curva fatale.

    «Pensi di trasferirti in paese, per l'inverno?» le chiese.

    Meg lo aveva fatto l'anno prima, dopo l'incidente di Bill, per non guidare su quella strada di montagna con neve e ghiaccio. Ma dopo un paio di mesi si era costretta a tornar su a quel nido d'aquila che si erano costruiti con tanti sogni e speranze. «No, resterò a casa. L'inverno scorso è stato... diverso.»

    «Sì.» Lui non aggiunse altro e accelerò. Da quel punto in poi la strada si faceva più larga e pianeggiante. «Sai che puoi sempre chiamarmi se hai bisogno di qualcosa.»

    «Ti ringrazio.»

    Earl aveva fatto parte della sua vita da quando si era fidanzata con Bill. Era stato lui ad aiutarli a costruire la loro casa, a lavorare al loro fianco. Si era perfino preso cura di Allie quando avevano avuto bisogno di una babysitter. Sempre presente. Sempre pronto a dare una mano. Sempre Earl.

    Gli lanciò un'occhiata, chiedendosi come avesse preso la perdita di Bill. Tutt'a un tratto si sentì in colpa perché non glielo aveva mai chiesto. Ma non era il momento giusto. E aveva la sensazione che lui preferisse non parlarne.

    Comunque, pensò, doveva aver sofferto molto. Quando era diventata tanto egocentrica?

    Fu sul punto di scusarsi, ma lui parlò per primo.

    «Pensi che tua madre tornerà in Nebraska, prima o poi? Oppure ha deciso di stabilirsi qui definitivamente?»

    «Comincia a sembrare una cosa definitiva.» Otto mesi parevano un'eternità.

    Lui annuì brevemente. «Tu cosa ne pensi?»

    «Temi che possa strozzarla prima del Ringraziamento?»

    Lui rise. Fu un suono quasi esplosivo, come se gli fosse stato strappato dal petto. «Bill ha sempre detto che aveva un caratterino coi fiocchi.»

    «A dir poco. Colpa mia, immagino. Ho abdicato, ho lasciato che gestisse la mia casa. Ora dovrò battermi con le unghie e coi denti per riprendermi la mia autonomia.» Ci aveva riflettuto molto, la settimana prima. Probabilmente era un segno di guarigione. Qualunque cosa fosse, era il principale motivo per cui era così irritabile. In un momento di crisi aveva consegnato le redini della sua vita a sua madre per poter strisciare nel suo bozzolo di dolore e di sensi di colpa. Ora aveva esattamente quello che si meritava, e non era fiera di se stessa.

    Earl la portò al Korner Kafe, un diner noto per la cucina casalinga. Era metà mattina, e le uniche persone presenti erano due anziani clienti, la cameriera e il cuoco. Earl ordinò una colazione completa, ma Meg scosse la testa.

    «Ho appena finito di mangiare. Solo un succo d'arancia per me.» Gli sorrise. «E tu, come stai?»

    Lui si strinse nelle spalle. «Bene. Come sempre.»

    Lei dubitava che fosse vero. Come minimo, dovevano mancargli i fine settimana in montagna con Bill. «Hai trovato qualcuno con cui organizzare escursioni?»

    «No. Non so spiegarti il perché, ma me n'è passata la voglia.»

    «Oh, Earl.» Un'ondata di tristezza le riempì il cuore.

    «Ehi, non è importante! Probabilmente, sarebbe successo lo stesso.»

    Quel lo stesso significava se Bill non fosse mor to. Era penosamente facile leggere tra le sue parole. «Sono stata così egoista» gli disse. «Ho pensato solo a me da quando... da quando...» Non riusciva neanche a dirlo.

    «È perfettamente naturale, Meg. Hai perso una parte importante della tua vita.»

    «Anche tu.»

    «Non è la stessa cosa.»

    No, pensò lei amara. Per lui probabilmente era peggio. Bill aveva fatto parte della vita di Earl da sempre, non solo negli ultimi quindici anni.

    «E Allie? Come sta?» cambiò discorso lui.

    «Non so. Non ne parla. Per un po' è stata così depressa che era come avere un fantasma in casa, ma ultimamente... Ultimamente è tanto piena di rabbia che mi sembra di vivere con un vulcano.»

    «Probabilmente è un buon segno.»

    «Lo spero. Passa molto tempo coi suoi amici, e immagino che anche questa sia una buona cosa. Ma mi preoccupa il modo in cui cerca di evitare me e sua nonna.» Meg ebbe una risatina amara. «Non che la biasimi. Noi due facciamo scintille.»

    «Forse faresti meglio a suggerire a Vivian di tornarsene a casa.»

    «Forse.» Ma quell'impresa immane sembrava al di sopra delle sue forze. C'era un pericolo in agguato nei pozzi scuri della memoria, troppe brutte cose che lei non voleva rivangare. E in uno scontro duro, Vivian non avrebbe mancato di farlo.

    «Bene, in ogni caso non sta a me darti dei consigli» tenne a precisare lui, dopo qualche istante.

    «Perché no? Siamo amici da tanto tempo.» Era la cosa più giusta da dire, anche se non corrispondeva a quello che Meg provava in realtà. Lui non rispose e lei sospirò, guardando dalla finestra la strada assolata. C'era una particolare trasparenza nella luce in montagna, e d'un tratto provò il vecchio, familiare impulso di tirare fuori i pennelli. Ma non c'era più posto per la pittura nella sua vita, ormai.

    La cosa peggiore nel suo rapporto con Earl, pensò, era che non poteva essere sincera con lui. Non poteva dirgli la verità su Bill, né sul loro matrimonio, né su quello che era successo quell'ultimo giorno. Doveva mantenere il silenzio, perché Earl aveva stimato e ammirato Bill, e lei non sopportava l'idea di disilluderlo.

    Così, più passavano le settimane, più la loro conversazione si faceva rigida e limitata, perché lei non poteva parlargli di quello che aveva nel cuore e nella mente. Non poteva permettersi di mostrargli le brutture che aveva dentro.

    Senza Bill a unirli, l'abisso tra loro si stava facendo più profondo, e Meg aveva l'impressione di perdere qualcosa di insostituibile a ogni silenzio che si trascinava tra loro. Ma Earl non era amico suo, si ricordò. Era l'amico di Bill. Non era sorprendente che, senza Bill, loro due cominciassero a estraniarsi.

    Earl dava l'impressione di non volere che questo succedesse. Continuava a passare da casa sua e a cercare di tirarla fuori del suo guscio. Forse credeva di doverlo a Bill.

    O forse era preoccupato per Allie. In fondo, era stato un secondo padre per quella ragazza. Il pensiero di Allie a un tratto le fece battere più forte il cuore.

    Allie. In qualche modo doveva riuscire a far cade re le barriere di cui la ragazzina si era circondata e a farla parlare di quello che provava. Doveva trovare un modo per colmare un abisso che sembrava crescere rapidamente quanto quello tra lei ed Earl. Forse più rapidamente. E non poteva essere solo per il fatto che sua figlia si trovava in un'età ingrata.

    Earl aveva quasi finito di mangiare, perciò Meg bevve il suo succo d'arancia. «Mi spiace, ma ho un sacco di cose da fare. Ho bisogno di andare a casa...» Si interruppe, esitando ad ammettere che l'aveva presa il panico. Era come se si fosse resa conto solo in quel momento della serietà dello stato emotivo di Allie. Il senso di colpa per la propria mancanza d'attenzione le strinse la gola.

    «Certo» mormorò lui. Si alzò e mise qualche banconota sul tavolo. «Andiamo.»

    Meg fece la spesa più in fretta che poté, seguendo meccanicamente la lista di Vivian. Aggiunse una sola cosa, un sacchetto di gelatine per Allie, di solito proibite perché rovinavano i denti. Gliele aveva proibite Bill, insieme alle gomme da masticare e ad altre cose. Ma Meg non era Bill, e non credeva che un sacchetto di dolci potesse fare danni permanenti.

    Invece, avrebbe potuto aprire una strada di comunicazione con Allie, e a un tratto lei sentiva un disperato bisogno di chiarire le cose con la figlia.

    Per qualche motivo, le venne in mente la faccia di Allie quando era andata a letto la sera prima. Ricordò la sua espressione triste, rabbiosa, quasi amara. Accidenti, perché non l'aveva seguita in camera sua, insistendo perché parlassero allora?

    Perché era stata troppo presa da se stessa. Un'altra ondata di colpa montò in lei, lasciandole l'amaro in bocca.

    Earl la accompagnò subito a casa, senza fare commenti sul suo strano comportamento. Non cercò più di coinvolgerla nella conversazione. L'abisso tra loro ora era così profondo che Meg si sentì stringere il cuore. Un'altra perdita... Dubitava che sarebbe riuscita a sopportarla. Una parte di lei aveva contato sul fatto che Earl le avrebbe sempre dato il suo appoggio, come aveva fatto con Bill. Forse ci aveva contato troppo.

    A casa, lui la aiutò a portare dentro le provviste. Meg fu sul punto di dirgli che ce la faceva da sola, ma si trattenne. Forse parte dell'abisso derivava proprio dal suo rifiuto di farsi aiutare. Forse lui aveva bisogno di fare delle piccole cose per lei e Allie. Forse questo lo faceva stare meglio.

    La casa sembrava quieta nonostante il ronzio dell'aspirapolvere. Vivian, che stava pulendo il tappeto del salotto, si fermò il tempo necessario a fare un gelido saluto a Earl.

    «Allie si è alzata?» le chiese Meg.

    «No.» Vivian corrugò le labbra con disapprovazione. «Dev'essere stata su tutta la notte a dialogare in quella chat room. Volevo salire a svegliarla. Ma tu hai detto di lasciarla dormire...» Scosse la testa e riaccese l'aspirapolvere, troncando ogni ulteriore discussione.

    Meg portò i sacchetti in cucina e li appoggiò sul bancone. Earl la seguì. Lei cominciò a vuotarli, poi si fermò.

    «Vado a controllare Allie» annunciò.

    Earl annuì. Non le chiese perché si stesse comportando in quel modo così strano, ma aveva una lieve ruga tra le sopracciglia.

    Rimase ferma in fondo alle scale per un istante, esitando. Non doveva fare altro che aprire la porta della figlia, si disse. Perché era così spaventata?

    Si sentiva le gambe di piombo mentre saliva le scale. Il ronzio dell'aspirapolvere la accompagnava in distanza.

    Socchiuse piano la porta, in caso Allie fosse ancora addormentata, e guardò nella stanza in penombra.

    Per un attimo non capì quello che vedeva, poi si rese conto che il letto era disfatto, ma vuoto. Entrò e accese la luce. Nessun segno di Allie.

    Doveva essere uscita presto, pensò tra sé, per andare a piedi fino a casa di Kate Exline. Le due ragazze erano quasi inseparabili. Ma perché non aveva salutato nessuno, né aveva lasciato detto dove andava?

    Turbata, Meg si voltò. E fu allora che vide il foglio di carta sul cuscino. Il cuore le saltò in gola, chiudendogliela.

    Si avvicinò al letto e prese il biglietto con dita tremanti.

    Mamma, rendo infelici tutti, perciò è meglio che me ne vada.

    2

    «È scappata di casa.» Meg fece uno sforzo per pro nunciare quelle parole con la lingua ispessita. Guardò Earl, immobile accanto alla porta d'entrata, come se la stesse aspettando per salutarla. Guardò sua madre, ferma come una statua, la mano che stringeva il filo dell'aspirapolvere che stava mettendo via.

    Il silenzio che le rispose fu profondo. Profondo quanto il silenzio che era sceso quando Earl le aveva detto che Bill aveva avuto un incidente, quando il dottor Helm aveva dichiarato morto suo padre. In silenzi come quelli, era in agguato la morte.

    Poi si udì un fruscio quasi crepitante. Meg abbassò lo sguardo e vide che il foglio di carta che teneva in mano stava tremando come una foglia sbattuta da un uragano. «È scappata di casa» ripeté.

    Earl attraversò l'ingresso e le tolse il biglietto dalle dita. «Sarà andata da un'amica» disse. La sua voce non aveva più quel tono pigro e vellutato che riservava per Meg. Era diventata incisiva, formale. Da poliziotto.

    Meg si sentiva mancare le gambe e così si sedette sui gradini, aggrappandosi alla ringhiera come se fosse un'ancora di salvezza. «Dio...» Era stato un sussurro. «Non la mia bambina.»

    «Te l'avevo detto che quella ragazzina non aveva freni» intervenne Vivian. «Ti avevo avvertita di non dargliele tutte vinte.»

    Meg non rispose. Non le importava. Non riusciva a pensare ad altro che ad Allie.

    «Dire così non serve, Vivian» la rimproverò Earl in tono pacato. «Non è insolito che gli adolescenti

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