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Antologia Criminale 2019: Garfagnana in Giallo Batga Noir 2019
Antologia Criminale 2019: Garfagnana in Giallo Batga Noir 2019
Antologia Criminale 2019: Garfagnana in Giallo Batga Noir 2019
E-book191 pagine2 ore

Antologia Criminale 2019: Garfagnana in Giallo Batga Noir 2019

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Info su questo ebook

Un viaggio nella scrittura nera della provincia italiana, tra delitti, passioni, amicizie perdute, desideri e miseria. Negli anni Cinquanta o nel futuro, sulle montagne della Garfagnana, a Lucca o Siena o Torino o Bologna o in una squallida periferia abbandonata, mangiando o soffrendo, ridendo o gridando.

Non c’è speranza tra i racconti, le storie di diversità o amori perduti, dell’antologia criminale del premio letterario Garfagnana in Giallo Barga Noir 2019.

In questa raccolta “La cena” di Fulvio Rombo, “La biscia dell’Isola Santa” di Giorgia Primavera, “Alone together” di Laura Piva, “Gwailou” di Eleonora Pinca, “La donna dello schermo” di Chiara Bernardoni, “Tra una vita e l'altra” di Giuliana Ricci, “Errore umano” di Riccardo Zinelli, “Ercole fatica al caldo” di Salvatore Gelsi e  Roberto Rossetti, “Giallonero” di Andrea Perina, “Proprio uguali” di Giuliano Fontanella, “Zombie” di Francesca Santi, “Festa della notte di Ferragosto” di Bruna Baldini, “Il declino degli Dei” di Marco Bonini.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2020
ISBN9788832281118
Antologia Criminale 2019: Garfagnana in Giallo Batga Noir 2019

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    Anteprima del libro

    Antologia Criminale 2019 - autori vari

    9788832281118

    La cena di Fulvio Rombo

    La cena era pronta, già in tavola. La tovaglia bianca, in lino. I tovaglioli, abbinati. Le posate, perfettamente allineate. I piatti, in pregiata ceramica, con alcuni eleganti rilievi sulla cornice.

    Le pietanze, diverse. Come diverse sono le esigenze. O le pretese, considerato che ognuno accampa le proprie e vanta persino dei diritti. Dal canto suo, Rita cercava di assecondare gli appetiti, talvolta i capricci, di suo marito e dei suoi due figli. Non voleva negare a se stessa il fremito interiore suscitato dai gridolini di soddisfazione, dai mugolii di approvazione o dai più classici e apprezzati complimenti per la cuoca. Piccole gioie quotidiane, le uniche rimaste, le sole per cui vale la pena spendersi. Come sarebbe andata quella sera? Un presagio di delusione si conficcò nei suoi pensieri.

    Non è più come prima. La cena era sempre stata l’agapica celebrazione della famiglia riunita alla sera; la meta agognata, dopo una giornata di fatica, per sedersi e riposare il corpo; il piacere persino sensuale del palato, del cibo trangugiato e del vino ingollato, ricompense meritate per chi si era trascinato tra le penose incombenze del giorno riuscendo, comunque, a conquistare la sera; il simposio, la messa in comune delle esperienze, dei racconti, la condivisione delle parole intrise di dolore e di speranza capaci di raccogliere il senso del vivere.

    I piatti fumanti attendevano da soli. Sembravano puttane appoggiate agli usci, ammiccanti e intenti a spargere il loro profumo come un invito schietto e indecente. Rita li guardò come piccole opere d’arte, eccitata da quell’impudica esposizione. Passavano i minuti. Ancora nessuno. Nemmeno un minuscolo e incoraggiante segnale di vita. Tentò con voce ferma, ma poi corresse il tiro in corsa e ammorbidì il tono. Più conciliante. Indulgente, con annessa l’implicita promessa di perdono.

    «Martina!» pronunciò per prima.

    «Simone!» continuò.

    «Francesco!» tentò ancora. Niente.

    L’unico suono a bucare il silenzio proveniva dalla televisione, costantemente accesa, anche se nessuno ormai la guardava più. Una cariatide negletta, sorpassata dagli smartphone e da altre diaboliche invenzioni. A beneficio di assorti commensali, dallo schermo giungevano parole inascoltate, che rimbalzavano contro le schiene curve su chat sempre attive, sui social aperti per spiare gli stati di chiunque, sui video in grado di somministrare costante e gratuita distrazione. Da tutto, dal presente.

    Rita era di un'altra epoca. Aveva frequentato il Liceo Classico. Due anni all’Università di Genova a Lettere Classiche. Poi era rimasta incinta di Martina e il suo sogno si era interrotto. Un professore di cui era innamorata le aveva parlato di Pasolini.

    Quello scrittore che riteneva la televisione uno strumento pericoloso per la democrazia: un pulpito dal quale sfilavano discorsi, modelli di comportamento che, proprio perché calati dall’alto e senza un contraddittorio nel silente e universale abbeverarsi del pubblico, s’imponevano con terrificante e dispotica naturalezza. I nuovi orpelli tecnologici avevano permesso che tutti si ergessero a tiranni gli uni per gli altri e, con buona pace di chi credeva il contrario, ognuno era parte indissolubile del sistema. Rita inanellava uno dopo l’altro i pensieri. Intanto sullo schermo campeggiava l’immagine di un vecchio poeta, uno degli intellettuali sopravvissuti, non solo alla morte, ma anche all’infelicità di questo nostro tempo. Affermava che dopo la caduta del muro, ennesimo crollo (i muri, i ponti, le illusioni, gli idoli e chissà cos’altro), la Sinistra non si era mai più ripresa. I referenti di quella parte politica, diceva il poeta, erano fermi là, immobili e frastornati, a parlare di lavoro e di uguaglianza, come fossimo nell’Ottocento. «Quello che questi signori non hanno capito è che oggi nessuno, tanto meno i giovani, vuole più né il lavoro né l’uguaglianza. Semmai l’esatto contrario: la ricchezza senza fatica e la schiacciante supremazia sull’altro. Si rende pertanto necessaria una profonda opera di rinnovamento culturale». Così parlava il poeta. E dagli torto. E il pensiero di Rita andava ai suoi figli che, tra l’altro, si ostinavano a disertare la cena.

    Martina lo fa apposta. La fenomenologia del dispetto. La sequenza di atti finalizzati, attraverso la provocazione, la sfida, il ricatto silenzioso, a suscitare disperazione, dolore, impotenza.

    In fondo è così fin dall’inizio. Era stata lo sgarbo più intollerabile della sua esistenza, perpetrato da chissà quale mano trascendente, per costringerla a deporre i sogni della giovinezza e a incarnare la rappresentazione di ciò per cui era stata educata. La sua formazione. Una donna di casa, un’instancabile lavoratrice, una madre. Il lavoro non l’aveva mai spaventata, ma le categorie di casalinga e di madre erano quanto di più detestabile riuscisse ad immaginare per se stessa. Martina era stata la sua sentenza, la svolta irreversibile, la condanna. E quella ragazzina non mancava mai di rammentarglielo, come in quel momento. Non venire a cena, tardare, disattendere, boicottare erano alcuni degli atti attraverso i quali Martina affermava il suo potere su di lei, Rita, la madre soggiogata dall’odio e da quell’irriducibile sadismo. Martina godeva tutte le volte nel tenerla in scacco. Quanto gode quella stronza. Si compiaceva e si nutriva della sequenza di quei meschini trionfi.

    Non sta studiando. Non sono i libri il motivo del suo ritardo, pensava Rita. Sarà attaccata al cellulare, a postare scemenze, a scriversi con chissà chi. Magari a scambiare foto esplicite, come dicevano in quella trasmissione su Italia 1. La nuova moda degli adolescenti. Non solo degli adolescenti: Rita conosceva alcuni adulti, adepti del cosiddetto sexting.

    L’inabilità a stabilire un contatto tra corpi pulsanti di desiderio, la preferenza per l’eccitazione a distanza, sollecitata da immagini dell’altro. Quest’ultime accolte come un trofeo, estorto con la seduzione, la manipolazione, talvolta il ricatto.

    Il traguardo di un desiderio più simile ad una sordida imboscata piuttosto che ad un’anarchica ricerca di pelle e di piacere.

    Non mi stupirebbe se Martina fosse dentro un gioco di tale perversione. Martina: sangue del suo sangue. Come no. Il sangue che quella figlia le aveva tirato via dalle vene, lasciandola sfibrata e maldisposta. A Rita sorse un dubbio.

    Magari è uscita, senza neanche dirmelo. Non sarebbe la prima volta. Se ne sarà andata a spasso con Ludovica. Buona anche quella. I suoi unici discorsi sono i vestiti e i ragazzi. Di entrambi fa collezione. E in tutt’e due i casi con un senso estetico assolutamente opinabile. Finirà male, quella ragazza finirà molto male. E Martina con lei.

    Martina aveva chiesto, o per meglio dire ordinato, un filetto di platessa con insalata. Si era messa a dieta, per l’ennesima volta. Oltre al solito tentativo non portato a termine, essere a dieta era condizione necessaria e sufficiente a peggiorarle l’umore. Francesco, il marito, aveva optato per una bella zuppa di legumi e farro. Rigorosamente la busta surgelata di quella famosa marca di cui Rita non voleva nemmeno ricordarsi il nome. Gli aveva proposto di cucinargliela con le sue mani, con ingredienti freschi, li avrebbe acquistati al miglior banco del mercato. Lascia stare, aveva sentenziato Francesco, meglio la zuppa del Basko. Del resto, cosa ti lamenti? Meglio anche per te, no? Avanzi di fare tanti inutili giri e di stare troppo tempo ai fornelli.

    «Che sensibilità, complimenti!». Le catene associative di Rita viaggiavano a velocità portentosa. Adesso parlava da sola, ad alta voce: «Non gli passa nemmeno per la testa che la mia era una gentilezza, in primo luogo, e poi… che la mia cucina sia surclassata dai prodotti precotti non è un sollievo, semmai un’offesa. Ma come diavolo ho fatto a sposarlo?».

    Meno male che c’è Simone, il vero uomo della mia vita. Lui sì che mi dà soddisfazione. L’unico da cui non arrivano soltanto le conferme alla mia arte culinaria. Da lui giungono spesso abbracci e protezione. Soprattutto, adesso che è grande e grosso, tiene testa a quel troglodita di mio marito. Ci provi, Francesco, a mancarmi di rispetto, adesso ho il mio Simone che mi protegge. Come quando l’ha messo con le spalle al muro e gli ha tirato una testata sul naso. Ci credo, mi aveva dato della rincoglionita buonannulla perché l’arrosto era freddo e sciapo, secondo lui. Non ci ha più visto, il mio ragazzo. L’unico rammarico è che uno schizzo di sangue ha macchiato il muro della cucina.

    Simone aveva chiesto un hamburger, con tanto di panino morbido e salse. Per Rita era stato un piacere accontentarlo. Adesso però la platessa, la zuppa, l’hamburger si stavano raffreddando.

    Non voglio sentire una sola, dico, una sola lamentela. Ci provino solo con le loro rimostranze del cazzo. Sono loro i colpevoli, quelli in ritardo. Rita sentiva montare dentro di sé una crescente irritazione.

    «Simone, amore mio, a tavola!». A Rita il figlio maschio era parso un risarcimento, un dono per quanto Martina le aveva tolto in sogni e in salute. Simone, dal canto suo, si era fin da subito calato nella parte del principe eletto. In poco tempo aveva spodestato Martina dalle attenzioni della madre, catalizzandole tutte su di sé.

    Quanto è bravo il mio bambino, quanto è intelligente il mio bambino, quanto è bello il mio bambino. Guai a pensare diversamente. Guai a chi si permetteva. Quella puttana della maestra Angela. Così come l’altra insegnante, quella delle elementari - come si chiama? - Filomena, ecco sì, Filomena. Ci avevano provato a contaminare l’immagine di quel figlio sublime. A sporcarne il talento, a macchiarne l’invincibile percorso. Suo figlio non sa stare con gli altri, non rispetta le regole, ha degli scatti di rabbia. Ci credo, aveva risposto per le rime mamma Rita: Gli altri, sono gli altri! Lo prendono in giro, sono limitati dalla loro pochezza e annichiliti dal confronto con Simone. Rita non mancava mai di ricordare che, nel suo piccolo, aveva studiato e possedeva qualche nozione di psicologia: poche in verità, ma abbastanza per rilevare le catastrofiche conseguenze che scaturiscono dall’invidia degli altri.

    La puttana aveva insistito, aveva difeso gli indifendibili, forse perché non aveva osato mettersi contro gli altri genitori. Certi padri e certe madri sono proprio la rovina dei figli, le aveva detto Rita ad alta voce. La maestra Filomena, già in seconda elementare, era tornata sugli stessi argomenti. Si erano forse messe d’accordo le due infami? Simone non riesce a stare attento, disturba la lezione, cerca di attirare l’attenzione su di sé. Io sono molto preoccupata, aveva ammesso la maestra Filomena. Apparentemente con sincera partecipazione emotiva e autentico interesse. Ma Rita aveva colto nella maestra quasi un’espressione di compiacimento per quanto credeva di avere osservato. Perché tutto ciò poteva finalmente costituire il corpo del reato, l’atto di accusa, il dito inesorabilmente puntato verso il genitore. Verso di lei. Secondo Rita la stronza aveva già comminato pure la pena, il percorso di riparazione. Una valutazione neuropsichiatrica, corredata di tutti i percorsi riabilitativi (cognitivo, comportamentale, familiare) che sarebbero stati ritenuti necessari: la correzione, la convergenza verso una normalità dalla quale la famiglia aveva deviato il bambino. Vacci tu dallo psichiatra, mi sa che ne hai molto più bisogno di mio figlio. Così aveva risposto Rita, per le rime. Per difendere suo figlio dai deliri e dalle perversioni mentali di quelle maestre. In fondo è questo che deve fare un genitore, giusto? Proteggere il proprio cucciolo da ogni pericolo, mantenere intatta la sua integrità, conservare la sua preziosità. Come è ovvio, Rita lo aveva cambiato di scuola. Certo, non avrebbe voluto, ma era stata costretta.

    La televisione sfornava in quel momento le immagini di una manifestazione, in una piazza affollata. Quanto affollata? Non si capisce mai quanta gente ci sia alle manifestazioni! sbraitava un opinionista. Gli organizzatori tendono a gonfiare i numeri, i detrattori a ridimensionarli, la questura dipende. Dipende intanto da quanto il contenuto ideologico sia funzionale al mantenimento dell’ordine pubblico. Il controllo, unica ossessione del potere. Se ciò per cui la gente manifesta ha un potenziale sovversivo i numeri sono dati inferiori alle stime reali; si sottolineano gli incidenti anche quando sono ridicole scaramucce e soprattutto quando sono provocati da azioni sconsiderate degli uomini in divisa; si loda il successo delle misure di sicurezza anche quando si tratta di normale amministrazione; si incensa la perversa mania del potere, la repressione. In quel caso il contenuto ideologico era assolutamente compatibile con l’ordine pubblico. Quindi alla manifestazione c’erano milioni di persone secondo la questura. Milioni di individui in maglietta bianca che asserivano l’assoluta imprescindibilità della famiglia tradizionale, scandendo slogan e cantando canzoni che Rita conosceva fin da quando frequentava il gruppo parrocchiale e i campi scuola compresi nel pacchetto. Rita fu rinfrancata da quella visione. Tutta quella moltitudine che professava ciò in cui anche lei credeva ciecamente. Il matrimonio, in chiesa. Un padre, una madre, due figli. La famiglia perfetta: tutto ciò che oltrepassa questo paradigma è stortura, malattia, offesa al buon senso prima ancora che alla morale comune. Rita non soltanto era devota all’idea, ma si sentiva fortunata perché la famiglia perfetta era la realtà che quotidianamente viveva, quella che toccava con mano ogni giorno. La mia realtà. Non l’avrebbe cambiata con niente e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo.

    Rita tornò in sé. Realizzò ancora una volta che la sua famiglia perfetta non si era ancora radunata per consumare il pasto serale. Ritrovarsi, condividere, godere uniti di quella perfezione. L’irritazione stava tramutandosi in risentimento, quel tipo di rabbia che si prova quando non vengono riconosciuti gli sforzi e la bontà di un’opera. Quando si dà tutto per scontato e si manca di rispetto a chi c’è sempre e comunque, a chi si alza la mattina e mette in piedi la propria giornata, un passo dopo l’altro, per soddisfare i bisogni di chi ama. Rita continuava a pensare ad alta voce, e un rigagnolo di apprensione cominciò a scorrerle dentro: «Non sarà mica successo qualcosa? Strano che almeno Simone non sia ancora a tavola».

    Bello il mio Simone. Anche se i suoi compagni lo prendono in giro - quegli stronzi… ma che diavolo di educazione possono aver mai ricevuto -, gli danno del ciccione di merda obeso, Simone è un ragazzo con un’autostima invidiabile. Non li ascolta nemmeno - bravo amore

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