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Il mercante della seta: Harmony History
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E-book235 pagine3 ore

Il mercante della seta: Harmony History

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Info su questo ebook

Cornovaglia/Inghilterra, 1850
Jonathan Harcourt non crede nel matrimonio. I continui litigi dei genitori gli hanno lasciato più di un brutto ricordo, e già ragazzino sapeva che non si sarebbe mai sposato. Ma ora che è un adulto impegnato nel commercio, sa bene che negli affari è necessario scendere a compromessi. E per allargare la sua attività tessile il compromesso si chiama Miss Aurelia Upford, tanto bella quanto caparbia: anticonformista e impegnata in politica, allontana infatti ogni pretendente. Se lui la sposerà, il padre della giovane gli venderà l'appezzamento che desidera. Grazie a quell'unione prezzata come una banale compravendita, però, Jonathan imparerà che non è possibile quantificare il valore di una sposa, meno che mai una non convenzionale come Aurelia!
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2020
ISBN9788830523029
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    Anteprima del libro

    Il mercante della seta - Elisabeth Hobbes

    successivo.

    Prologo

    Δεν θα παντρευτώ ποτέ

    Non mi sposerò mai

    Jonathan posò la penna e guardò il foglio, soddisfatto. La mano era incerta e le lettere greche un tantino imprecise, ma la frase era chiara. Volle aggiungere anche la data.

    28 Agosto 1837

    Cancellò la g di troppo, accigliandosi. Comunque non era male come frase di apertura del suo nuovo diario, un raro dono di suo padre al figlio in partenza per il collegio.

    «Non mi sposerò mai.» Lesse ad alta voce, senza paura di essere sentito. I suoi, al piano di sotto, erano impegnati a litigare.

    Non aveva idea di cosa avesse scatenato l'ira funesta di suo padre: quasi certamente qualcosa di insignificante, a cui una persona ragionevole non avrebbe dato peso. Certo, un marito aveva il diritto di rimproverare la propria moglie, ma poi le occhiate torve e i glaciali silenzi di Christopher Harcourt potevano durare intere settimane e creare in casa un'atmosfera di intollerabile acrimonia.

    Le voci si alzarono in un rapido crescendo che Jonathan si sforzò di ignorare. Strinse i pugni e se li piantò sulle orecchie, sebbene fosse tentato di scendere nel salottino per chiedere a suo padre di smetterla di urlare. Però no, non gli conveniva intervenire. Aveva solo dodici anni, d'altronde. Ah, ma un giorno gliel'avrebbe fatta vedere lui, giurò a se stesso. Christopher Harcourt avrebbe pagato per l'infelicità che aveva causato alla mamma.

    La porta dello studio venne sbattuta, e subito dopo seguì quella di ingresso. Jonathan si drizzò sulla sedia. Strano, di solito quei litigi si concludevano con i genitori che andavano a chiudersi ognuno nella propria camera da letto. Si chiese chi dei due avesse invece preferito uscire a fare due passi in Chester-le-Street.

    Lo scoprì di lì a poco, quando Anne Harcourt apparve sulla soglia della sua stanza. «Sei sveglio?» gli domandò.

    Come avrebbe potuto addormentarsi, con tutto quel baccano? «Sì, mamma. Stai bene?»

    Aveva chiesto tanto per chiedere. Ogni volta che cercava di confortarla, sua madre era pronta a difendere il marito. Quella sera, però, Anne si guardò al di sopra di una spalla. «No, Johnny» rispose, «ma starò bene presto.» Si addentrò nella stanza. «Pronto per la partenza? Sicuro di non aver dimenticato niente?»

    Jonathan sarebbe partito l'indomani, di buon'ora, per iniziare la sua nuova vita alla St. Peter's School, a York. L'uniforme, i libri e i pochi, preziosi oggetti personali erano stati riposti nel baule chiuso e sigillato con una corda, ai piedi del letto. Il diario sarebbe finito nella sacca di cuoio insieme al borsellino, due mele e qualche fetta di pane. Il viaggio si sarebbe svolto in due tappe. Il cocchiere di famiglia lo avrebbe accompagnato a Durham, e di lì Jonathan avrebbe preso la diligenza per York, dove al suo arrivo avrebbe trovato un incaricato del collegio. «Sì, ho preso tutto» rispose.

    Sua madre lo raggiunse e lo strinse tra le braccia. Aveva dodici anni, e suo padre disapprovava certe manifestazioni di affetto che, secondo lui, andavano riservate solo ai poppanti. Jonathan non ricordava di aver mai visto i suoi toccarsi, o abbracciarsi. Quel gesto materno gli parve quindi quasi una ribellione, e gli procurò un certo imbarazzo. Si irrigidì, e lei lo lasciò andare.

    «Puntuale, mi raccomando. Non far aspettare Stepney» aggiunse Anne, e uscì dalla stanza.

    Jonathan adagiò il capo sul cuscino, ma rimase con gli occhi sbarrati. Sarebbe riuscito a dormire?

    Arrivò a Durham che il sole cominciava a occhieggiare, dietro i tetti. Sbadigliò e si strinse nella giacca, infreddolito.

    L'autunno era alle porte, sebbene fossero solo alla fine di agosto. Jonathan salutò Mr. Stepney e si cercò un angolo tranquillo in cui aspettare, senza essere travolto dal viavai dei passeggeri in partenza e in arrivo. Cavalli e conducenti prestavano ben poca attenzione a un ragazzetto mingherlino che si guardava intorno, spaesato.

    A un tratto, si sentì toccare su una spalla e sussultò. Si girò, trovandosi di fronte a uno sconosciuto avvolto in un mantello impolverato. «Signorino Harcourt? Va a York, giusto? Da questa parte, prego.»

    Non sembrava il conducente di una diligenza, ma lo aveva chiamato per nome e sapeva dove era diretto, perciò Jonathan gli lasciò prendere il baule e lo seguì. Si aspettava di essere accompagnato fino a una carrozza in attesa, invece si ritrovò a faccia a faccia con sua madre, che sedeva su un secondo baule. Indossava un semplice mantello da viaggio azzurro e una cuffietta con la veletta sul viso, che lui non ricordava di aver mai visto. «Vieni a York con me?» si stupì.

    «No.» Lei si alzò e si spazzolò il mantello. «E non ci andrai nemmeno tu.» Indicò la carrozza ferma sul lato opposto della strada. «Prendiamo quella. Sbrighiamoci.»

    Lo sconosciuto di prima stava già caricando i due bauli sul tettuccio del veicolo quando Anne salì a bordo, seguita da Jonathan. Non erano gli unici passeggeri: un omone dai radi capelli bianchi stava spaparanzato sul sedile di fronte al loro, e si costrinse a richiudere le gambe, in presenza di una signora.

    «Dove andiamo?» provò a chiedere Jonathan.

    Sua madre lo guardò. «Te lo dico dopo.»

    Jonathan non seppe mai il nome del primo villaggio in cui si fermarono. I bauli vennero scaricati e trasferiti su un carro aperto, sul quale avrebbero continuato il viaggio.

    Anne rimase muta finché il conducente non fece schioccare la frusta sui due cavalli, che si avviarono. Solo allora sembrò rilassarsi.

    «Adesso puoi spiegarmi?» chiese Jonathan.

    «Ho lasciato tuo padre.»

    Jonathan prese la mano di sua madre, ricordandosi all'ultimo momento che quei contatti erano fortemente scoraggiati dal padre. Tuttavia, se quel che Anne aveva appena detto era vero, i rigorosi dettami di Christopher non importavano più. Incrociò gli occhi di sua madre e per la prima volta da un bel po' di tempo vi scorse un barlume di speranza, non di sconfitta.

    Dal canto suo, Jonathan provava un senso di anticipazione, misto a paura. Alla St. Peter's lo stavano aspettando. Cosa sarebbe accaduto, se non lo avessero visto arrivare? E come avrebbe reagito Christopher, scoprendo che sua moglie se n'era andata?

    Anne sembrò leggergli nel pensiero. «A tuo padre ho detto che andavo a trovare una vecchia amica di scuola e che sarei stata via una settimana. Ma che torni o meno, non credo che faccia alcuna differenza, per lui.» Gli sorrise. «Oggi comincia una nuova vita, Johnny. Per me e per te.»

    Dopo altri tre cambi di carrozza, due giorni di viaggio e due notti trascorse in locanda, il pomeriggio del terzo giorno giunsero in un minuscolo villaggio. Anguste stradine delimitate da interminabili file di case a schiera sembravano serrarsi intorno a loro, mentre si arrestavano davanti a una costruzione che si alzava su tre livelli, identica a quella sulla sinistra e sulla destra.

    Non poteva essere quella, la loro casa, si disse Jonathan accigliandosi. A Darbrough Court c'erano sei stanze enormi e quattro camere da letto solo al pianterreno. La casa era circondata da uno splendido giardino, con tanto di laghetto.

    Sua madre lo guardò contrita. «Non posso permettermi altro, con la rendita che mi hanno lasciato i miei genitori, e il proprietario è una vecchia conoscenza, perciò mi ha fatto un prezzo di favore. Però qui siamo al sicuro, tuo padre non ci troverà mai. Agli occhi di tutti io sono vedova, e sono stata costretta a lasciare la casa in cui abitavamo dall'erede del proprietario, che vi si voleva trasferire.»

    Il fruscio di un mantello tradì la presenza di un uomo, che attendeva sulla soglia. Consegnò a Mrs. Harcourt un mazzo di chiavi e li aiutò a portare dentro i bauli. La casa era arredata in modo spartano. Al pianterreno c'erano un soggiorno e una cucina, con un ripostiglio che, attraverso una porta, si apriva su un giardinetto e una latrina esterna, che veniva usata anche dai vicini. Al piano superiore c'erano due camere da letto e nel sottotetto un'unica stanza più ampia, con finestre che si affacciavano sul fronte e sul retro.

    Anne andò a fermarsi alle sue spalle. «Era la casa di un tessitore. Non potrai più andare al collegio, e dovremo stringere la cinghia, ma ce la caveremo. Questa è Macclesfield, una città dove si lavora la seta.»

    Un brivido di anticipazione percorse Jonathan. Era l'inizio di una nuova vita avventurosa, per come la descriveva sua madre. Tuttavia, il cielo grigio che sembrava schiacciare i tetti spioventi di quelle casupole tutte uguali e quelli più alti delle fabbriche, in cima alle colline che dominavano l'orizzonte, sembravano chiudere il centro abitato in una sorta di muro di cinta. Invalicabile.

    E terribilmente opprimente.

    Il primo mese volò.

    Christopher Harcourt non riuscì a trovarli. I giorni passavano, e a poco a poco Jonathan smise di guardarsi furtivamente alle spalle con il timore di vederlo apparire da un momento all'altro.

    Sapendo di averlo privato del privilegio di un'istruzione adeguata, sua madre cercò di rimediare impartendogli lezioni di francese e di latino. Cantava, serena, mentre rassettava la casa insieme a Kitty, la domestica che veniva a ore. Imparò a fare il bucato e a cucinare, e nel tempo libero insegnò al figlio a cucire. Una dote, diceva ridendo, che sua moglie un giorno avrebbe molto apprezzato. Jonathan non faceva commenti, al riguardo. Non aveva cambiato idea sul matrimonio. E perché mai avrebbe dovuto ripetere l'orribile esperienza di sua madre?

    «Adesso sul trono abbiamo una regina, Johnny.» Anne rise. «Quando una donna si mette in testa una cosa, non c'è nulla che possa fermarla.»

    «Un uomo invece deve mantenere la sua famiglia» ribatté lui. «Anch'io devo fare la mia parte.»

    Il giorno dopo trovò un modo per raggranellare qualcosa: avrebbe consegnato messaggi in cambio di qualche penny, come facevano tanti ragazzetti della sua età. Gli altri guardavano di traverso quel moccioso con la puzza sotto il naso che era venuto a invadere il loro territorio e lo schernivano per il suo strano accento, ma Jonathan era veloce e imparò presto a orientarsi anche nei vicoletti più angusti della città. Imparò a mascherare le proprie origini e modificò il suo modo di parlare, per evitare di essere deriso. Imparò ad accompagnare una richiesta sfrontata con un gran sorriso, scoprendo che aiutava a guadagnare una mancia. Le sue giornate erano molto diverse da quelle dello studente che sarebbe stato, a York.

    Però si godeva la sua libertà. Ed era bellissimo.

    Consegnava pacchi e lettere da un capo all'altro della città ormai da tre settimane quando la sua vita cambiò per sempre. In mano aveva un messaggio destinato a Mr. Edward Langdon, proprietario dell'omonima fabbrica di tessitura che si trovava all'estrema periferia del centro abitato. L'edificio di mattoni rossi sembrava un enorme gigante buono: fu la prima impressione che ne ebbe Jonathan, percorrendo il sentiero che costeggiava il fiume. Quelli che sorgevano al centro erano più cupi, più sinistri. Sembravano minacciose sentinelle che scoraggiavano chiunque volesse avvicinarsi.

    Jonathan bussò deciso alla porta degli uffici e attese. Ad aprire, di lì a poco, venne Mr. Langdon in persona.

    Jonathan lo fissò sorpreso. Lo conosceva di vista, lo aveva visto passeggiare in centro, una domenica pomeriggio. Scapolo, sui quarant'anni, era spesso sulla bocca delle signore di Macclesfield, specie di quelle con figlie in età da marito: si lamentavano tutte del fatto che lui le ignorasse. Si mormorava di un qualche scandalo, nel suo passato, ma la prospettiva di un matrimonio vantaggioso con un uomo facoltoso metteva a tacere ogni cattiveria, vera o inventata che fosse.

    Motivo di più per disprezzare il matrimonio, per come la vedeva Jonathan.

    Porse la busta al destinatario.

    «Vorrai essere pagato, immagino» pronunciò Mr. Langdon.

    «Sissignore» confermò Jonathan. Poi però ci ripensò. «Anzi, no.»

    Langdon lo fissò perplesso. Aveva folti capelli rossastri pettinati all'indietro, spruzzati di grigio sulle tempie, e il mento appuntito. Il viso era interessante, regolare nei tratti, e i vispi occhi azzurri erano ingranditi da un paio di occhiali di metallo tenuti in bilico sulla punta del naso diritto. Lo scrutarono per diversi istanti, socchiudendosi appena.

    «Cioè... sì, vorrei essere pagato, signore. Però voglio anche un lavoro.»

    Gli era venuto in mente così, su due piedi. Era rimasto colpito da quell'enorme edificio, dal curioso mugghiare dei telai al suo interno, dalla bella posizione in riva al fiume. Mr. Langdon produceva seta, Jonathan lo sapeva, anche se non aveva idea di come, o di cosa accadesse esattamente dentro quell'edificio.

    «Ce l'hai già un lavoro, mi pare. Consegni questi messaggi» osservò Mr. Langdon, e si girò per liquidarlo.

    «Ne voglio uno migliore» insistette Jonathan. «So fare di meglio. Voglio lavorare qui.»

    La sua voce imperiosa colpì non poco l'uomo, che tornò a voltarsi. «Ci conosciamo, noi due? Ti ho già visto da qualche parte?»

    Jonathan abbassò il capo. Era il momento di mostrarsi garbato e umile, come avrebbe dovuto fare fin dal principio. «No. Mi sono trasferito qui poche settimane fa.»

    Langdon lo scrutò con più attenzione. «Ho affittato una casa a tua madre? In Back Paradise Street?»

    Jonathan ignorava chi fosse il proprietario della casa in cui abitavano, sua madre aveva solo menzionato un vecchio conoscente. «È lì che vivo, sì. Mi chiamo Jonathan Harcourt.»

    L'uomo si morse una nocca della mano sinistra. Sembrò pensarci su per alcuni istanti, prima di parlare. «Saresti dovuto venire da me prima di consumare la suola delle scarpe sulle strade per consegnare messaggi. E ora vediamo di trovarti un lavoro.»

    «Non in fabbrica, per favore!» esclamò Jonathan. «E non sui telai. Qui. Nel vostro ufficio. So leggere e scrivere, anche in latino. E so fare di conto.» Evitò di parlare del greco, sebbene continuasse a scrivere sul suo diario con zelante puntualità ogni sabato sera.

    Langdon assunse un'espressione divertita. «Comincerai sui telai, non in ufficio» decise. «Due anni lì. Vediamo come te la cavi, e poi decidiamo cos'altro posso proporti.»

    «Un anno.»

    Langdon rise. Aveva a che fare con un abile negoziatore. «Un anno e mezzo. E farai pratica in tutti i reparti, per imparare bene i vari passaggi della produzione.»

    Jonathan accettò e porse una mano al suo nuovo datore di lavoro, il quale rise di nuovo e la strinse. «Hai un brillante futuro davanti a te, giovane Harcourt. Porgi i miei saluti a tua madre.»

    «Non mancherò.»

    Fu l'inizio di quella che sarebbe diventata una lunga e proficua amicizia.

    Jonathan lavorò in fabbrica per soli dieci mesi, spostandosi da un piano all'altro, per imparare a tessere le sete prima in tinta unita, poi nelle fantasie più semplici, e via via in quelle più elaborate. Dopo di che Langdon lo fece passare nei magazzini, al controllo degli ordini con le balle di seta. Era talmente in gamba che presto gli venne affidato l'incarico di redigere tutti gli ordini.

    Neanche tre anni dopo quel primo incontro, Jonathan era responsabile del reparto tessitura.

    Trascorso un altro anno, lavorava nell'ufficio di Langdon come suo assistente. Trattava con i clienti e approvava le fantasie dei tessuti damascati. A diciannove anni, era a tutti gli effetti il braccio destro del suo titolare e sceglieva gli apprendisti da assumere nei vari reparti.

    In Edward Langdon, Jonathan aveva trovato un amico fidato che condivideva e apprezzava la sua voglia di imparare sempre cose nuove, un uomo disposto ad aprire la sua casa e la sua ricca biblioteca a un ragazzetto assetato di sapere.

    Quando Anne Harcourt si ammalò e morì, Jonathan scoprì che la madre aveva conservato le sue paghe per anni, spendendo solo il minimo indispensabile per tirare avanti. Trovò anche diversi gioielli, che pure non ricordava di averle mai visto addosso. Facendoli valutare, scoprì che, insieme ai contanti, aveva di fatto ereditato una somma ragguardevole.

    Il pomeriggio del ventiquattresimo compleanno di Jonathan, Edward Langdon invitò il suo protetto a bere qualcosa nel suo ufficio.

    Jonathan ne approfittò per parlargli di una idea che gli frullava nella mente da qualche tempo. «Ho una proposta da farvi. Vorrei investire nella fabbrica. Mi vendereste una parte delle azioni?»

    «Il tuo investimento sarebbe bene accetto» replicò Edward, riempiendo due bicchieri di whisky, «ma avrei un'idea migliore. Stavo giusto pensando di cercarmi un socio.»

    «E vorreste che io...?» Jonathan era incredulo.

    «Un socio di minoranza, sì. Io tratterrei il pacchetto di maggioranza.» Edward si portò il bicchiere sotto il naso e annusò, deliziato. «Perché no? Sono anni che lavori al mio fianco e, per quanto abbia investito su di te, mi hai ripagato dieci volte tanto.»

    Jonathan si sentì serrare la gola. Langdon per lui era stato un mentore, un amico, un fratello e un padre. «Grazie» mormorò con voce malferma. «Accetto.»

    «In tal caso, propongo un brindisi.» Il bicchiere di Edward si levò nell'aria. «Alla Langdon & Harcourt

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    Aurelia stava pulendo le finestre del primo piano della casa, quando l'uomo percorse a passo deciso il vialetto di ciottoli che conduceva alla porta di ingresso. Si fermò e sbirciò attraverso il vetro.

    Gli Upford erano tornati a Macclesfield due settimane prima, e non avevano ancora ricevuto visite. Non c'era da stupirsi, visto che Sir Robert Upford e i suoi erano stati via per cinque anni... il che spiegava l'indecoroso accumulo di polvere e di sporco dappertutto, finestre comprese.

    Aurelia ripose lo

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