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Tutti i bambini sono pazzi
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E-book319 pagine4 ore

Tutti i bambini sono pazzi

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Info su questo ebook

Terminata la scuola comincia il lavoro e il suo mondo di sistemi a cui tutti gli studenti sono destinati. Non è così per il protagonista innominato che a questo mondo si ribella e sceglie d’intraprendere un viaggio, anche iniziatico. Un viaggio che lo porterà a scoprire la parte più nascosta di sé, la propria naturalezza, la propria criminalità. Il male. L’illuminazione. Nella Monza metropolitana degli anni Novanta, prende corpo la storia dell’innominato, con una carriera criminale di tutto rispetto fino alla sperimentazione del carcere, senza avere mai un pentimento. Al contrario, cresce l’odio per la prigione totale e quella sociale in cui il protagonista viene catapultato all’interno di una massa di gente indistinta a cui non si sente di appartenere. Ribelle alle istituzioni scolastiche, ribelle al carcere, ribelle per non perdere più se stesso. Ora spara con le parole. Marco Purita è dottore di ricerca (XXIV) presso l’università degli studi di Torino. Ha vinto numerosi riconoscimenti per le sue tesi su Nietzsche. Ha pubblicato diversi articoli su riviste specializzate del pensiero politico, ha scritto saggi,
romanzi, racconti. Con “96, Rue de-La-Fontaine” ha pubblicato le opere: Ossa nere (2020) e Le voci dell’autorità (2019).
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2021
ISBN9791220278096
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    Tutti i bambini sono pazzi - Marco Purita

    Marco Purita

    Tutti i bambini sono pazzi

    96, Rue de-La-Fontaine Edizioni di Zuccalà Morena

    Via Liguria, 25 - 58022 Follonica (GR)

    www.ruedelafontaineedizioni.com proprietà letteraria riservata

    Foto street art di copertina: autore sconosciuto

    UUID: 52fa1234-0704-4468-bbad-6869442109a9

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    96, Rue de-La-Fontaine Edizioni

    MARCO PURITA

    TUTTI I BAMBINI SONO PAZZI

    INDICE

    Non racconto storie. Io scrivo la verità.

    1

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    COLLANE

    La rue Morgue - Gialli & thriller

    Il lato inesplorato - Narrativa

    Elena Mestrini – Libri testimonianza

    Voci Cattive – Narrativa

    Italia ’61 - La storia d’Italia raccontata dal basso

    La carrucola del pozzo - Poesia

    Juste pour rire - Ironia e comicità

    96, Rue de-La-Fontaine Edizioni

    l lato inesplorato - Narrativa

    96, Rue de-La-Fontaine Edizioni di Zuccalà Morena

    Via Liguria, 25 - 58022 Follonica (GR)

    www.ruedelafontaineedizioni.com

    proprietà letteraria riservata

    Foto street art di copertina: autore sconosciuto

    MARCO PURITA

    TUTTI I BAMBINI SONO PAZZI

    INDICE

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    Non racconto storie. Io scrivo la verità.

    1

    Non mi piaceva la matematica. Non ho mai letto un libro. Non mi passava neanche per il cazzo di scrivere. Ma, di tutto quello che mi hanno inculcato al liceo, mi è rimasta soltanto una frase fissata in testa: L’uomo nasce libero e ovunque è in catene (Jean-Jacques Rousseau).

    È cominciata così, a 20 anni, finite le scuole, per una frase, la mia carriera criminale.

    Pulce guida la sua Punto verde, e mi dice che è pericoloso.

    Pulce ha una mano sul volante, e l’altra fuori dal finestrino. Sul braccio ha tatuato la scritta: È tutto un equilibrio sopra la follia . Lo stereo suona Vasco, il suo preferito: …Se qualcosa mi devi dire, dimmelo duro… Guardala in faccia la realtà… Se c’è qualcosa che non ti va, dillo alla luna… Può darsi che porti fortuna…

    «È il primo giorno d’estate», dice Pulce.

    «E la gente, per il caldo, non dorme».

    «Chiama gli altri», dico a Pulce.

    «E lascia fare a me».

    «Tu sei un pazzo!», dice Pulce, che ancora non ha capito con chi ha a che fare.

    Per Pulce sono un ragazzino, ma un ragazzino che ha studiato. Non sa darsi una spiegazione del perché sono più fuori di lui. Qualcosa non gli torna. Pulce ha dieci anni più di me e non ha terminato le scuole medie.

    Pulce e io ci siamo incontrati per la prima volta al processo di un nostro amico comune. Nino era stato arrestato quattro mesi prima, per un furto all’ufficio postale di Lecco, del valore di seicento milioni di lire (questa era la cifra che avevano sciorinato i giornali il giorno dopo il furto sventato, il giorno del pagamento delle pensioni). Nino si era beccato da incensurato tre anni per furto, aggravato dal fatto che le poste sono un ente statale.

    Nino era il mio compagno di banco alle scuole medie: bocciato due volte in terza alla scuola Dante Alighieri di Monza. Nino si allenava tutte le sere con Pulce, nella palestra di boxe del paese. Fra Pulce e me è stata un’intesa a prima vista.

    «Ce l’hai la patente?», mi chiese Pulce la prima volta.

    Pulce, quel giorno, non si fidava di tornare a Monza sulla sua Punto verde. Senza patente. Dopo la condanna di Nino. Gli sbirri, al processo, avevano segnalato tutti i documenti dei presenti. Nino non se l’era cantata. Non aveva fatto i nomi. Gli sbirri avevano arrestato Nino in flagranza di reato. E nessun altro. Ma sul luogo del delitto, gli sbirri avevano trovato una radio trasmittente; erano certi che Nino avesse avuto dei complici che erano riusciti a fuggire.

    «Sì», dissi a Pulce, che mi offrì una Marlboro Light.

    «Tu non ce l’hai?», dissi a Pulce.

    «Me l’hanno ritirata un anno fa», disse fissandomi negli occhi.

    «E la mia macchina dove la lascio?»

    «La veniamo a prendere un’altra volta.»

    Pulce ha lo sguardo alla Stallone e una cicatrice sulla guancia sinistra. Sembrerebbe una persona convincente, se non fosse per il tatuaggio di Lupin sull’avambraccio sinistro.

    «Ciccio ti uccide se perdiamo i ferri», dice Pulce con il terrore della galera negli occhi.

    Qualcosa non va, e Pulce lo sente. Pulce è un animale. Pulce, stasera, 21 giugno 1997, non ci vuole proprio mettere piede nell’Esselunga di Monza, in via Garibaldi 23. Il maresciallo della caserma di Monza ci aveva avvisati.

    «Se non volete finire in galera, la notte sparite da Monza», dice Pulce imitando del maresciallo

    Pulce scimmiotta per filo e per segno la voce del maresciallo di Monza, facendo la voce di quando l’avevamo incontrato. L’ultima volta, quando gli sbirri ci avevano fermato per accompagnarci con la forza in caserma.

    Nei paraggi, qualcuno aveva pensato bene di rubare da un cantiere edile un flessibile e un martello pneumatico. Gli sbirri avevano la certezza che eravamo stati noi, ma non avevano le prove. Allora gli sbirri avevano fermato la Punto verde, ma alla guida non c'era Pulce. Una volta verificato che alla guida c’ero io, non restava agli sbirri che perquisire l’auto.

    Gli sbirri avevano trovato nel baule due cacciaviti e una chiave inglese del 10, bullonata e affilata. Gli sbirri non avevano la minima idea che quella chiave in realtà era uno spadino, che ci era servito la sera prima per rubare, in Brianza, una Fiat Uno. Gli sbirri, trovandoci puliti, ci avevano lasciato andare. Non prima che il maresciallo ci avvertisse.

    Stasera, Pulce ha paura a usare la Fiat Uno per il colpo all’Esselunga. Se dovesse capitare un imprevisto, se fossimo obbligati a fuggire a piedi, e gli sbirri trovassero la Uno, ce l’accollerebbero a noi. Sicuro. E le prove, le costruirebbero.

    Come gli sbirri avevano fatto in passato con Pino, il più anziano della banda. Pino da due anni è rinchiuso nel carcere di Monza, in via San Quirico 48. Per il reato di associazione a delinquere finalizzata al furto, e per una Golf rubata, trovata dagli sbirri nei pressi del suo appartamento.

    Pulce guida verso il luogo dell’appuntamento con gli altri. Fuma, nervoso, una Marlboro Light dietro l’altra. Ancora è tutto da decidere.

    Io, al contrario, sono calmo. E determinato. Tolgo il cd, metto la radio, canta la Bertè: E la luna bussò su due occhiali da sole… Quello sguardo non si accorse di lei… Ed allora provò ad un party in piscina… Senza invito non entra nemmeno la luna…

    Mi accendo una Marlboro Light. Pulce mi tocca con la mano il ginocchio. Pulce intravede all’incrocio, fermo al semaforo, un mangiamerda, un vigilante. Sorpassiamo l’auto e Pulce lo guarda in segno di sfida. Il mangiamerda non sa che Pulce non ha la patente.

    Noi non abbiamo mai rubato in tabacchini, in farmacie, in supermercati. A imitazione dei tossici, che per la droga, e al massimo 500 mila lire, rischiano quanto rischiamo noi, in anni di galera.

    Noi ci facciamo le casse continue dei centri commerciali il giorno prima che passi il furgone portavalori a prelevare. Non abbiamo mai trovato meno di 50 milioni di lire. Diviso cinque, sono minimo dieci milioni a testa. In una notte. Ne abbiamo fatti tre in tre mesi.

    Al contrario dei miei compagni, che rubano per mangiare, e vestirsi, la benzina e le puttane, io non lo faccio per i soldi. Lo faccio perché non so che cazzo fare di significativo.

    Io sono l’unico incensurato della banda, l’unico che non è entrato ancora in prigione. Io ho scelto di fare il criminale perché: L’UOMO NASCE LIBERO E OVUNQUE È IN CATENE.

    Ciccio la mente, Pulce la forza, Valdi e Wagner i due pali, e io, il più giovane di tutti. Ci troviamo alle 23.00 in punto al Bar Italia, in centro a Monza. Valdi e Wagner lasciano la Uno in un parcheggio davanti al bar. In questo modo nessuno sospetterebbe che si tratta di un’auto rubata.

    Nel portabagagli della Uno ci sono un flessibile, un martello pneumatico, prolunghe e dischi per il flessibile, nastro isolante e forbici, due piedi di porco. Tre radio trasmittenti.

    «Perché lo vuoi fare?», dice Ciccio, sorseggiando il Jack Daniel’s con ghiaccio.

    «Io non ci entro», dice Pulce, bevendo il caffè.

    «È un mandato di cattura quel posto», dice Valdi con in mano il Montenegro.

    «Ci avevamo già tentato, ti ricordi Ciccio?», dice Wagner rosicchiando il ghiacciolo.

    «E sono arrivata gli sbirri!», replica Ciccio.

    «È troppo rischioso. Non c’è la via di fuga», dice Pulce.

    Pulce si accende una Marlboro Light.

    «Non ci sono nemmeno le sbarre che chiudono il parcheggio», dice Ciccio.

    «Quali sbarre?», chiede Wagner.

    «Quelle per bloccare gli sbirri, se arrivano», dice Ciccio che sorseggia il whisky.

    «Se hai bisogno di soldi te li prestiamo noi», dice Valdi, che trova il consenso di Wagner.

    «Non è una questione di soldi», dico serio.

    Pulce mi fissa a raggi x. Scuote la testa in segno di disapprovazione.

    «Ma tutti i pazzi li devo conoscere io!», dice Pulce con un sorriso.

    Pulce mi allunga una Marlboro Light.

    2

    Nessuno di noi vuole fare questo lavoro, pericoloso. In questo giorno, pericolosissimo. Fuorché io. Ma nessuno della banda si tira indietro.

    La prima regola è: mente lucida, quando si lavora.

    Al contrario di tutte le altre volte, Ciccio e Pulce fanno i pali. Si posizionano con le radio sulle due vie opposte, che danno l’accesso all’Esselunga. Senza farsi vedere, mimetizzati nella notte, tra le frasche.

    Valdi si nasconde con la borsa dei ferri nei pressi dell’ingresso del centro commerciale.

    Wagner e io andiamo a tagliare i cavi delle linee telefoniche, nel palazzo limitrofo. Così impediamo che una volta scattato l’allarme il segnale arrivi al direttore dell’Esselunga.

    Entriamo da una finestrella sul retro, senza lasciare segni di scasso. Una volta all’interno dell’Esselunga, l’allarme incomincia a strillare nella notte. Facciamo il percorso fino alla cassa continua, tappando i sensori lungo il percorso con nastro adesivo nero. E torniamo fuori.

    Wagner e io siamo da Valdi con la borsa dei ferri, nei pressi dell’entrata. Aspettiamo che l’allarme smetta di suonare, che il mangiamerda arrivi per controllare che non ci siano i ladri. Se ci va bene, il mangiamerda se ne va e non arrivano gli sbirri, e nemmeno il direttore dell’Esselunga.

    «Attenzione», dice Ciccio alla radio.

    «Mangiamerda! Mangiamerda!», dice Pulce alla radio, sul lato opposto della strada.

    Nel parcheggio dell’Esselunga arrivano due macchine dei vigilanti. Alcune persone si affacciano alle finestre del palazzo confinante, svegliate dalla sirena dell’allarme squillante nella notte, in preda alla paura dei ladri. È la 1.00 della mattina.

    «Se tutto va bene, entrate alle 2.00», dice Ciccio.

    «Confermato», dice Pulce.

    Mi accendo una Marlboro Light, e fisso le stelle. Alla radio del mio cellulare danno Vasco: Tango della gelosia… Quello sento… Quello che sento dentro… È più una malattia… Che non capisco proprio… Scopami e basta, ma non andare via…

    I mangiamerda se ne vanno, non hanno notato nulla di strano. Nessun segno di scasso. Al direttore non gli è arrivata la comunicazione dell’allarme scattato, altrimenti sarebbe entrato nel locale e si sarebbe accorto del nastro adesivo sui sensori. Gli sbirri non si sono fatti vedere.

    «È l’ora di agire», dice Ciccio alla radio.

    «Confermato», dice Pulce.

    Valdi, Wagner e io entriamo nell’Esselunga dalla finestrella sul retro. Seguiamo il percorso. L’allarme non scatta. Il nastro isolante ha funzionato. Attacchiamo il flessibile alla corrente. Incomincio a tagliare la cassa continua, per tutta l’altezza e la lunghezza della cassaforte.

    Valdi tiene la radio, tenendosi lontano da noi. Il rumore del flessibile gli impedirebbe di ascoltare le comunicazioni dei pali. Wagner mi dà una mano. Cambia le ruote del flessibile, fuma sigarette, mastica cicche gratis.

    Leviamo lo strato di lamiera dalla cassa continua, ci troviamo il cemento armato. Attacchiamo il martello pneumatico. I rumori non sembrano sollecitare il vicinato, nemmeno dopo un’ora e mezza di lavoro tra il fumo, la polvere, e l’odore del ferro bruciato.

    «Tutto okay», dice Ciccio.

    «Confermato», fa Pulce.

    «Proseguiamo», dice Valdi.

    Tolto il cemento armato, ci troviamo la solita lamiera. L’ultimo strato di lamiera, sottile. Al di là le banconote. Wagner mi dà il flessibile in mano, e incomincio a tagliare.

    «Sbirri! Sbirri!», grida Valdi verso di me.

    «Arrivano veloci! Arrivano veloci!», grida, afferrandomi per il braccio.

    Valdi e Wagner scappano lasciando i ferri sul posto.

    Io resto a tagliare fino a quando non vedo con i miei occhi le macchine degli sbirri arrivare nel parcheggio antistante. Non ci sono le sbarre di chiusura del parcheggio. Le auto arrivano a tutta velocità.

    Raccolgo il flessibile e il martello ed esco dalla porta di emergenza con la borsa. L’allarme dell’Esselunga scoppia nella notte. È il caos.

    Mi arrampico di corsa con la borsa dei ferri fra le mani, lungo una ringhiera di tre metri, del palazzo vicino. Vado di corsa verso i garage scendendo lo scivolo di accesso alle auto. Scopro che sono chiusi.

    Decido di nascondermi vicino al luogo del delitto, in una siepe lungo lo scivolo. A nessuno verrebbe in mente di cercare proprio qui. E la siepe ha le spine.

    Si sentono altre sirene giungere nel parcheggio dell’Esselunga.

    Passa mezz’ora. Silenzio.

    Sento l’elica di un elicottero sorvolare la zona.

    Passa un’altra mezz’ora. Non sento più nulla. Silenzio. Assoluto.

    Sto per uscire allo scoperto, quando intravedo una luce nella notte. È uno sbirro. Sta controllando la zona, per ultimo.

    Lo sbirro percorre lo scivolo dei garage del palazzo.

    Ce l’ho a due metri in linea d’aria.

    Sudo e ho il cuore impazzito.

    Lo sbirro trova i garage chiusi e risale.

    Se ne va.

    «Signore! Signore!», dice all’improvviso la voce di una donna anziana.

    La voce erompe nel silenzio della notte da una delle finestre del palazzo adiacente.

    «È lì», dice la signora.

    Lo sbirro, un gigante, mi acceca col faro; me lo punta dritto negli occhi. Mi trascina fuori dalla siepe strappandomi i vestiti. E le spine fanno il resto.

    Lo sbirro mi ammanetta nonostante la mia resistenza. Mi porta nel parcheggio dell’Esselunga in mezzo ad altri omini in divisa.

    Ho le braccia dietro la schiena. E la faccia a terra, schiacciata dall’anfibio di uno sbirro in divisa, che se la ride con gli altri. Nessuno si risparmia: mi sferrano pugni, calci dappertutto.

    Non sento dolore, ma rabbia.

    3

    Scendo dal blindato dei carabinieri, nel centro di Monza. La via centrale è affollata, sono circa le 10.00 del mattino. Sono ancora ammanettato. Tengo il volto reclinato verso il basso per non vedere nessuno.

    Il processo per direttissima è fissato al mio arrivo.

    Una fila di bambini ammutolisce al mio passaggio. Hanno sulle spalle la cartella di scuola delle elementari. Sfilo in mezzo alla massa e ho l’impressione che nessuno voglia toccarmi, nessuno voglia vedermi; eppure ogni singolo individuo mi tocca con lo sguardo, sporco.

    Tra la massa intravedo due figure: mio padre e mia madre, che mi aspettano all’ingresso del tribunale di Monza, in via Vittorio Emanuele, 41.

    Mio padre, insegnante di matematica al liceo Leonardo da Vinci di Monza, non crede ai suoi occhi. Mia madre, avvocato penalista del foro di Milano, mi fissa incazzata.

    «Bravo! Complimenti!», urla mia madre, al mio passaggio.

    Mia madre cerca di tirarmi uno schiaffo. Lo sbirro la blocca.

    Mia sorella non c’è.

    Due omini in divisa, grossi il doppio di me, mi accompagnano, con il piglio soddisfatto per la sfilata, dal blindato fino alla cella nell’aula del tribunale. L’aula è deserta, a parte il pubblico ministero e il mio avvocato d’ufficio, che neanche mi conosce.

    Mia madre si era proposta di difendermi, mi avevano comunicato gli sbirri in caserma. Io avevo rifiutato, perché mia madre me l’avrebbe rinfacciato per il resto della mia vita. La legge assegna un avvocato, pagato dallo Stato, a chiunque ne ha bisogno.

    Entra il giudice e si siede sullo scranno, davanti al microfono. Dietro alle sue spalle, c’è una scritta che m'incute paura: LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI.

    È il primo processo della mia vita, ho 19 anni. E, spero, l’ultimo.

    Rinchiuso nella cella, come un animale, con gli sbirri che scrutano ogni mio movimento, il pubblico ministero in nome del popolo italiano m’insulta come fossi il peggiore dei criminali. Non mi conosce, eppure sembra che abbia qualcosa di personale contro di me.

    Il giudice sorveglia ogni mio gesto. L’abbigliamento, le mani in tasca, la mia espressione contrita. L’avvocato d’ufficio ascolta, come mio padre e mia madre, che hanno scritto in faccia la vergogna per un figlio, giovanissimo, ma testadicazzo.

    Alla fine della requisitoria, il pubblico ministero propone un anno di pena. L’avvocato d’ufficio chiede la libertà condizionata visto che sono incensurato. Mio padre, e soprattutto mia madre, sanno che non ho precedenti e che, per un furto, seppur aggravato, mi aspetta la libertà sotto condizione di non commettere altri reati per i cinque anni successivi.

    Il punto è che sul luogo del delitto, davanti alla cassaforte quasi bucata, gli sbirri avevano trovato la radio trasmittente di Valdi. Io, nel momento in cui avevo raccolto il martello e il flessibile, non avevo l’avevo vista. Pensavo che Valdi se la fosse portata con sé.

    «Confessi il nome dei suoi amici», dice il giudice dall’alto della sua autorità.

    «E avrà la libertà condizionata», aggiunge il giudice.

    Mio padre mi guarda allungando un sorriso. Così anche mia madre, l’avvocato, il pm, la cancelliera e gli sbirri.

    «Quali amici?», dico al giudice inghiottendo la saliva.

    «Glielo chiedo per l’ultima volta: chi sono i suoi amici?», ripete il giudice.

    «Non ho amici», dico.

    Il giudice si ritira. Dopo cinque minuti esce, incazzato nero, per giudicarmi in nome del popolo italiano. Il giudice mi condanna a un anno e sei mesi di carcere per tentato furto aggravato all’Esselunga, e per il furto della Uno ritrovata nei pressi del luogo del delitto. Soprattutto, il giudice se la prende per l’atteggiamento ostile e omertoso, durante il processo.

    Grazie a Dio ho appena 19 anni. Ho il diritto a uno sconto di pena.

    «Voi sareste disposti a riceverlo in casa?», chiede il giudice a mio padre e mia madre.

    Il giudice non può violare la legge.

    «Sì», dice mio padre.

    «Sì», dice mia madre, non troppo convinta.

    «Allora si proceda per gli arresti domiciliari», sentenzia il giudice.

    Gli sbirri aprono la cella, e mi tolgono le manette.

    «Ti è andata bene», dice uno sbirro.

    «Non sai cosa s’impara dentro lì», dice l’altro sbirro.

    «Perché tu lo sai?», dico allo sbirro che ha parlato per ultimo, con gli occhi di rabbia.

    Pulce, che si era fatto quattro mesi di prigione per aggressione a pubblico ufficiale, mi aveva rivelato che gli sbirri di fuori non sanno cosa c’è dentro. In carcere ci sono le guardie, e gli sbirri a confronto sono dei ragazzini. Le guardie sono detenuti in divisa.

    A parte una giornalista, l’aula è deserta. I miei compagni non si sono fatti vedere per non commettere l’errore fatto al processo di Nino. Ho l’impressione che sarebbero scomparsi dal giro per un po’. Resta la mia auto parcheggiata dietro i palazzi, le case popolari di Monza, il luogo dove Ciccio, Pulce, Valdi e Wagner abitano. Se gli sbirri la trovassero, potrebbero costruire delle prove. Ma nessuno sa che la mia auto è lì.

    Oggi, 22 giugno 1997, esco dall’aula di giustizia con una consapevolezza. Mio padre resta in silenzio. La legge, uguale per tutti, mi ha consacrato a 19 anni un fuorilegge per bocca dell’autorità giudiziaria. Mia madre non parla. L’autorità ha tentato di farmi tradire gli amici. Odio il tradimento. L’autorità mi ha obbligato a pentirmi. Da oggi, odio il pentimento. Mi è salito dentro l’odio per l’autorità.

    Mi accendo una Marlboro Light.

    4

    Mio padre chiude la porta di casa alle 13.00, in via Nazario Sauro 12, a Monza. I vicini non sospettano che sono agli arresti. Mia madre ci

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