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Fare a occhio: Antropologia della cucina in Basilicata
Fare a occhio: Antropologia della cucina in Basilicata
Fare a occhio: Antropologia della cucina in Basilicata
E-book172 pagine2 ore

Fare a occhio: Antropologia della cucina in Basilicata

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Info su questo ebook

"Cucinare non serve solo per rendere il cibo commestibile e gradevole, ma anche per costruire relazioni, evocare ricordi, rafforzare affetti, produrre emozioni. Questo libro indaga le pratiche di cucina domestica in Basilicata e i significati locali del cibo, entrando nelle case di anziane donne esperte di cucina, raccontando l’apprendistato ai fornelli, le consuetudini di famiglia ed episodi della loro vita, scoprendo i significati che esse danno al loro impegno quotidiano per preparare il cibo.”
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2016
ISBN9788869600531
Fare a occhio: Antropologia della cucina in Basilicata

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    Anteprima del libro

    Fare a occhio - Francesco Marano

    Fare a occhio

    antropologia della cucina

    in Basilicata

    Francesco Marano

    www.altrimediaedizioni.com

    facebook.com/altrimediaedizioni

    @Altrimediaediz

    WALKINGONTHELINE

    Collana di antropologia diretta da Francesco Marano

    © 2015 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869600531

    Copertina: Francesco Marano

    Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    www.altrimediaedizioni.com

    Prima edizione digitale: 2016

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Questo volume è stato pubblicato con un contributo finanziario

    del Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo - Architettura

    Ambiente Patrimoni Culturali dell’Università degli Studi della Basilicata.

    Il contenuto della pubblicazione è stato sottoposto a peer-review

    con il metodo del doppio cieco.

    PREMESSA

    In questo libro si indaga il complesso campo delle pratiche di cucina domestica in Basilicata. Cucinare è un termine onnipresente nella vita quotidiana, sul quale difficilmente ci soffermiamo per comprenderne il significato. Cucinare non è cuocere. Dove sta la differenza? Cuocere è trasformare un cibo da crudo a cotto, cucinare è qualcosa di più. Cuocere fa essenzialmente riferimento a una operazione tecnica, cucinare ad una culturale. Se dicessimo che cucinare è rendere un cibo appetitoso, gustoso, quindi non semplicemente cotto, non soddisferemmo tutto l’ampio spettro di significati che le pratiche di cucina implicano. Cucinare significa caricare un cibo di valori estetici, emozionali, simbolici, relazionali.

    Cucinare, ovviamente, è anche talvolta cuocere, cioè, come direbbe Lévi-Strauss, trasformare il cibo da crudo a cotto, da natura a cultura. Tuttavia dobbiamo essere consapevoli che il concetto di natura è esso stesso di ordine culturale: cosa includiamo nell’ordine della natura è infatti il risultato di scelte che variano a seconda dei contesti sociali in cui il termine natura fa riferimento a determinate categorie di oggetti diversi da quelli ordinabili sotto la voce cultura. Una carota, per esempio, è considerabile un prodotto naturale solo se lo cataloghiamo come elemento di base che proviene dall’esterno della cucina, prima delle trasformazioni cui potrebbe essere sottoposta (conservata sott’aceto, bollita, soffritta, tagliata à la julienne, ecc.). Ma, a ben guardare, essa stessa, attraverso la selezione genetica delle sementi e delle tecniche di coltivazione ha subito l’intervento umano secondo regole e tradizioni provenienti dal contesto culturale in cui è stata coltivata.

    Nell’ambito della cultura rientrano anche quelle categorie direttamente connesse alla dimensione fisica e biologica del corpo, come la digeribilità e l’apporto nutrizionale, che possono mutare da cultura a cultura. Come è noto, sottoposto a cottura il cibo perde gran parte del suoi valore nutrizionale: proteine, vitamine, grassi e sali minerali subiscono modificazioni che impoveriscono o annullano il loro apporto all’organismo. Scegliere di mangiare cibo crudo è dunque una operazione culturale dettata da una idea di salute e di cura del corpo.

    Ma prima ancora di essere cotto, il cibo passa dalla natura alla cultura attraverso la semplice operazione del lavaggio o della scelta. Nel primo caso bisogna considerare la cultura dell’igiene e come essa sia cambiata nel corso del tempo. Se gli anziani potevano mangiare un frutto appena colto dall’albero, oggi è raro che questo avvenga senza prima aver lavato il frutto, anche se l’albero non è stato sottoposto ad alcun trattamento. Per quanto riguarda la scelta, si pensi per esempio a quante parti di animali oggi non si mangiano più o il cui consumo è drasticamente diminuito, come il cuore, i reni, il fegato, i testicoli. In questo caso il mutamento del gusto è connesso anche ai cambiamenti culturali relativi al rapporto fra uomo e animale.

    Il passaggio da natura a cultura avviene anche attaverso l’operazione di sbucciare la frutta e gli ortaggi prima di cucinarli. In Basilicata, per esempio, le melanzane vengono sbucciate prima di essere preparate (cucinate o messe sott’aceto). Questo servirebbe, come racconta una informatrice, a togliere il gusto amaro, sensazione evidentemente non percepita in Campania dove le melanzane vengono generalmente cucinate con la buccia. In realtà, lo ribadiamo, quello di natura è un concetto storico e culturale, l’idea di naturale varia nel tempo e nello spazio, così come quella di gustoso.

    Quali sono i confini della cucina come pratica? Ogni trasformazione dei prodotti vegetali e animali può essere intesa come cucina, sebbene determinate tecniche possano essere ascritte a particolari sotto-categorie. Ecco, allora, che anche non sottoponendo a cottura il cibo, esso passa nella cucina per essere trasformato e adattato alla cultura di chi mangia – la nostra carota, per esempio, viene lavata, tagliata a fettine o à la julienne prima di essere portata cruda in tavola.

    Rientra nella cucina, poi, anche la conservazione degli alimenti e la produzione di confetture e conserve. La pratica del cucinare non si svolge soltanto in quell’ambiente domestico che chiamiamo cucina, ma si estende anche a luoghi al chiuso o all’aperto, domestici o pubblici. Sebbene mi sia interessato principalmente di cosa accade nelle cucine domestiche, ho ritenuto importante fare qualche incursione nei luoghi di quella che potremmo chiamare para-cucina, come le tavernette e i garage o nella consuetudine di inviare pacchi di cibo a emigrati e studenti fuorisede.

    Come il lettore vedrà, non ho mai descritto il significato del cibo in termini generici, senza fare riferimento a concreti contesti, ma mi sono sempre basato sul materiale documentario raccolto. Del resto esistono già molti libri che descrivono ampiamente e approfonditamente il campo semantico implicato dal cibo e non è facile qui proporne un elenco completo.

    La ricerca ha scandagliato gran parte della Basilicata, con qualche riferimento nella vicina Puglia, basandosi su materiali documentari prodotti in parte dagli studenti dei miei corsi di Etnografia e Antropologia delle culture alimentari tenuti all’Università della Basilicata. Gli studenti, da me coordinati, hanno condotto interviste a donne che cucinano al fine di rilevare le zone di significato che emergono nelle pratiche di cucina, i contesti socio-economici, le modalità dell’apprendimento al cucinare e le memorie del passato correlate al cibo. La ricerca dunque non esamina un preciso contesto socio-culturale definito in termini di una persona, una famiglia o una singolo specifico territorio, né approfondisce un particolare tema, perché ho voluto piuttosto individuare lo spettro di significati che si producono nelle attività di cucina. Per questo ho preferito scrivere questa etnografia sotto forma di note (i capitoli), cioè rilevamenti di breve durata con l’individuazione di alcuni concetti che mostrano la densità semantica della pratica di cucina, temi da approfondire eventualmente in successive ricerche.

    Il cibo come cultura

    Si parla molto spesso di cibo, quasi tanto quanto se ne mangia. La quantità di conoscenza enciclopedica acquisita sul cibo permette a chiunque di intrattenere un uditorio mettendo insieme notizie generiche, secondo quella retorica della catalogazione per cui un qualsiasi cibo e metodo può essere narrato passando da un’usanza all’altra, da un territorio a un altro, da un ricordo personale a un altro consentendo all’oratore di esibire la sua cultura enciclopedica e di trarne vantaggio dinanzi a uditori salottieri di bocca buona.

    Il cibo è stato fino a oggi studiato come simbolo di una cultura, di una classe, di un gruppo etnico, in relazione all’ambiente naturale e al lavoro necessario per produrlo, come espressione di strutture di senso profonde e universali. Insomma, al cibo è stato riconosciuto il potere di rappresentare identità culturali e di veicolare significati sociali e per questa via esso è stato fissato nella sua qualità di segno, spesso trascurando i processi nei quali è inserito e attraverso i quali si producono e si manipolano relazioni, emozioni, poteri, significati. Il colore del pane, per esempio, è stato usato per distinguere comportamenti alimentari differenti e segnare confini di classe: pane nero prodotto con granaglie varie, dal miglio alle castagne, consumato dai poveri, e pane bianco di farina di grano, disponibile solo per le persone abbienti (Teti 1999). Due colori, che non solo comunicano stili di vita tanto lontani, ma anche significati estetici e spirituali divergenti, dal bianco che richiama abitazioni luminose e serene, minimaliste e paradisiache, al nero che suggerisce l’oscurità delle dimore dei contadini e del girone infernale della povertà.

    Sebbene questa relazione funzionale fra il cibo e la cultura sia veritiera e teoricamente fondata, soltanto focalizzandosi sulle attività delle persone, nel nostro caso specifico su dove quando e come cucinano, ovvero sulle pratiche quotidiane, riusciamo a vedere e comprendere come sia possibile costruire significati sociali, emozionali, estetici attraverso la manipolazione e il consumo delle sostanze alimentari, anche quando già posseggono un valore simbolico condiviso e socialmente consolidato.

    Alla base di ogni etnografia c’è sempre un concetto di cultura, anche se spesso è soltanto alla fine di una ricerca che riusciamo, se necessario, a definirlo. Nel mio caso la questione si è posta subito, quando ho dovuto spiegare agli studenti quali dovessero essere le categorie da utilizzare nelle loro conversazioni con gli informatori. Tutti avevano messo al centro del lavoro il rilevamento di una ricetta, mentre io cercavo di spiegare che la pratica di preparazione della pietanza doveva costituire non solo il campo di osservazione principale, ma anche il pretesto e il contesto nel quale condurre una conversazione, una modalità comunicativa vicina all’esperienza dell’interlocutore, più familiare di una intervista faccia a faccia mediata dalla presenza indiscreta di una videocamera o un registratore digitale.

    Il noto concetto di cultura di Edward Burnett Tylor recita così: «La cultura è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società» (1871). A questa definizione, sicuramente completa, ma meccanicistica e riduttiva nel rapporto fra società e individuo, in genere contrappongo quella di Anthony Paul Cohen: «La cultura è il mezzo con il quale noi costruiamo significati, con il quale diamo un significato al mondo per noi stessi e diamo un significato a noi stessi nel mondo» (Cohen 1993: 196).

    Il concetto di cultura di Tylor suggerisce una idea catalogatoria della cultura: ogni cultura è riducibile a una serie di voci – religione, cultura materiale, credenze, tradizioni giuridiche, ecc. – a ciascuna delle quali corrisponde una lista di oggetti. Esso implica una etnografia basata sulla raccolta dei dati e la loro successiva catalogazione e classificazione, quest’ultima connotabile sia in senso evoluzionistico (ciò che mettiamo nella lista qualifica una società come selvaggia, barbara o civilizzata) che culturologico (la lista identifica culturalmente un gruppo X distinguendolo da un gruppo Y al quale corrisponde un’altra lista di costumi, tecniche, credenze, idee religiose, ecc.).

    Applicato alla antropologia dell’alimentazione, il concetto tyloriano di cultura condurrebbe l’antropologo a identificare gli alimenti tradizionali, i modi di preparazione del cibo, la cultura materiale connessa e a produrre un elenco di ricette che sarebbero caratteristiche di una cultura locale. Diversamente, il concetto di cultura di Cohen, più vicino alle esigenze della etnografia contemporanea, vede la cultura come un repertorio utilizzato creativamente dalle persone per dare un significato al mondo esterno e alla stessa vita delle persone che la utilizzano manipolando i simboli disponibili. In tal senso sono le pratiche della quotidianità

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